lunedì 5 novembre 2012

Alessandria, storia di un debito che nessuno vuole pagare


- La progressiva marginalizzazione dell’alessandrino rispetto al resto del territorio piemontese sembra essere conseguenza diretta ed inevitabile del dissesto finanziario in cui è piombato il capoluogo di provincia l’estate scorsa. A settembre, il tribunale di Casale Monferrato è stato accorpato a quello di Vercelli, anziché, come si pensava, ad Alessandria. Nel gennaio prossimo, dato il basso numero di matricole iscritte all’anno accademico in corso, si deciderà se la Facoltà di Giurisprudenza farà davvero le valigie per trasferirsi a Novara. Se così fosse, si potrebbe consumare presto anche il divorzio di Scienze politiche, ormai parte di un unico dipartimento alessandrino di giuristi, economisti e sociologi.
Il declino della città dei Guala, tra le poche imprese che, anche attraverso la sua fondazione, riesce ancora a sostenere il tessuto produttivo e culturale della città, è lo specchio di una situazione demografica ed economica non certo rosea. Un cittadino su tre ha più di sessant’anni, il reddito medio disponibile, dopo la crisi 2008-2009, si è contratto a tal punto da essere ormai al di sotto della media piemontese, mentre il saldo annuale per il 2012 tra nuove imprese e imprese chiuse è negativo.
In questo quadro a tinte fosche si inserisce, come si diceva, il dissesto finanziario della città. Prima dell’entrata in vigore del decreto n. 149/2011 e dopo l’abolizione del Co.re.co. con la riforma costituzionale del 2001, vi è sempre stata forte resistenza da parte dei consigli comunali ad auto-formalizzare il dissesto. L’innovazione legislativa dello scorso anno ha colmato una lacuna nel nostro sistema delle “autonomie senza responsabilità”, introducendo un meccanismo sostitutivo esercitabile dalla sezione regionale della Corte dei Conti. Dopo mesi di trattative e richieste di approvazione di manovre correttive formulate alla giunta comunale di centrodestra, la magistratura contabile piemontese il 27 giugno scorso ha accertato la situazione di dissesto finanziario, alla dichiarazione del quale il nuovo consiglio comunale a maggioranza di centro-sinistra è stato costretto ai primi di luglio.
La definizione del termine dissesto finanziario si ritrova all’art. 244 del Testo Unico degli Enti Locali (T.U.E.L.) e va ricollegata a due ipotesi: l’incapacità funzionale dell’ente di assolvere le funzioni fondamentali e di erogare i rispettivi servizi pubblici oppure, e questo è il caso alessandrino, un grave stato di insolvenzadovuto a “crediti liquidi ed esigibili di terzi, cui non possano validamente far fronte attraverso provvedimenti di riequilibrio o di riconoscimento di debiti fuori bilancio“. Se si fosse scelto di non dichiarare il dissesto, Consiglio e Giunta sarebbero stati sciolti dal Prefetto e la città sarebbe stata commissariata.
Resta il fatto che i commissari sono stati comunque nominati, senza tuttavia sostituire la giunta. Sono tre, compongono l’organismo straordinario di liquidazione e sulla stampa locale sono stati ribattezzati la “Troika alessandrina”. Il Testo Unico ricollega infatti al dissesto una serie di conseguenze non da poco per la cittadinanza. Si tratta infatti di collocare in esubero il personale in soprannumero rispetto al rapporto medio dipendenti-popolazione. Al proposito, come giustamente sottolineava il nuovo Sindaco, Rita Rossa, Dio solo sa quanto sia aumentato negli ultimi dieci anni il numero di dipendenti nelle partecipate (Amiu e Atm in testa). Ma il T.U.E.L. impone anche l’aumento delle tariffe e delle aliquote nella misura massima consentita, il divieto di nuove assunzioni anche attraverso aziende speciali, il divieto di assumere mutui per cinque anni, il blocco dei pignoramenti e delle azioni esecutive per i creditori. Entro il 30 novembre Alessandria deve approvare il bilancio riequilibrato e allora saranno dolori. Già adesso mancano periodicamente i quattrini per far fronte ai bisogni di cassa e pagare gli stipendi dei dipendenti comunali.
Ma quali sono le radici del debito alessandrino, quantificato di recente in quasi 200 milioni di euro? Lo spiega la delibera della sezione regionale della Corte dei Conti, chiarendo di aver rilevato diverse irregolarità già nel rendiconto 2010 e nel bilancio di previsione per il 2011. Motivo per il quale l’ex-Sindaco Pier Carlo Fabbio (Pdl) è stato rinviato a giudizio per falso in bilancio e truffa ai danni dello Stato.
Già un anno fa i magistrati contabili rilevarono:
a) un incremento anomalo delle previsioni di spesa corrente per il 2011;
b) un incremento anomalo delle entrate per il 2011, dovuto alla speranza di trarre importanti proventi dalla concessione del servizio smaltimento rifiuti;
c) anche per gli anni precedenti ed in particolare a partire dal 2008 l’equilibrio di parte corrente veniva fittiziamente garantito attraverso la contabilizzazione di elevate plusvalenze conseguenti ad alienazioni immobiliari. Cosa poi puntualmente non avvenuta. Anzi le società appositamente costituite dal Comune (S.V.I.AL. e V.A.L.O.R.I.AL.) per vendere loro gli immobili hanno rivenduto gli stessi, in qualche caso, a prezzi inferiori a quelli di cessione, costringendo il Comune a ripianare le loro perdite (circa 6 milioni di euro).
Senza contare che il Comune ha utilizzato per anni i proventi da permessi da costruire per finanziare la spesa corrente in maniera eccedente le previsioni di legge. In questa spesa rientrano anche le famose rose da mezzo milione di euro e le orchidee da 90.000 euro acquistate in Moldavia, il viaggio in jet privato a Roma dell’ex-sindaco per la nomina a cardinale del vescovo di Alessandria, la biennale della fotografia, i tartufi regalati a Berlusconi, ma anche le assunzioni a chiamata nelle partecipate a pochi mesi dalle elezioni. E via così, in un tripudio di debiti accumulati con i quattrini del contribuente. Già la Giunta precedente ha dovuto rettificare il rendiconto del 2010. E a fronte dell’avanzo originariamente accertato (pari a quasi 4 milioni di euro) si è passati ad un disavanzo di più di 10 milioni. E tanti saluti al Patto di Stabilità interno. Non male, non c’è che dire.
Ora però è arrivata la mannaia. Per motivi politici (più che di principio), Alessandria è stata abbandonata al suo destino. Certo, rispetto ad altri enti locali, i cui conti sono stati ripianati senza alcun accertamento del dissesto e senza quindi le relative sanzioni inibitorie per gli amministratori locali, la città ha subito una palese disparità di trattamento. Ma il “Così fan tutti” non dovrebbe comunque essere un buon modello di amministrazione. Neanche il Ministro Renato Balduzzi, che in città vive e ha lavorato come docente di diritto costituzionale, ha potuto/voluto fare qualcosa.
Sino alla settimana scorsa il bailout sembrava infatti destinato a non arrivare. Sì, perché Rita Rossa insiste da tempo per una legge ad civitatem. In particolare, dopo un incontro con due parlamentari del Pd, la Giunta alessandrina ha chiesto l’accesso al fondo di riequilibrio finanziario anche per i Comuni per i quali il dissesto fosse stato dichiarato da meno di sei mesi (toh, guarda: Alessandria è fra questi!) e un aumento del limite massimo di anticipazione di cassa da parte della tesoreria. Con la prima richiesta la Rossa si preparava a spalmare sul resto del Paese le perdite alessandrine; con la seconda avrebbe perpetuato la gestione finanziaria dell’amministrazione precedente, visto che, spulciando nella delibera della sezione piemontese della Corte dei Conti che ha accertato il dissesto, si legge che, tra gli elementi indice di una situazione di grave squilibrio finanziario c’era “il cronico ricorso all’anticipazione di tesoreria, idoneo a rivelare una incapacità strutturale dell’Ente di far fronte ai normali pagamenti”.
Il piano indicato dalla Corte dei Conti, ça va sans dire, andava esattamente nella direzione opposta. In Parlamento uno dei due solerti deputati, tal Mario Lovelli (Pd), è riuscito, con il parere favorevole del Governo, a far passare un emendamento alla legge di Stabilità (sic) di tenore simile alle proposte del sindaco alessandrino. In particolare, Alessandria dovrebbe ricevere ora un prestito di circa 40 milioni di euro da restituire in tre anni. La soluzione sembra insomma sempre la stessa: curare la sbornia con più vino…

Autore: Giovanni Boggero

Nato nel 1987, si è laureato in giurisprudenza a Torino con una tesi in diritto internazionale. Ha studiato anche a Gottinga e Amburgo. Svolge un dottorato in diritto pubblico presso l'Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro" e si occupa di Germania per il quotidiano Il Foglio, la rivista Aspenia e per FIRSTonline.


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