sabato 16 marzo 2024

ALBERTO GILARDINO

 


"La PlayStation ci aveva servito su un piatto d’argento parecchi segnali interessanti, che avevamo colto solo in parte. Io, Iaquinta, Materazzi e Grosso eravamo i Magnifici Quattro della console. Sfruttavamo ogni secondo libero per sfidarci, due contro due, con coppie a rotazione. Ciascuno di noi, a turno, capitava in squadra con ognuno degli altri tre. Lo stadio era la camera di Marco al Landhaus Milser Hotel di Duisburg, nel senso che ci riunivamo da lui per giocare. Ne uscivano partite combattutissime, all’ultimo pallone, spesso cattive. Nessuno mollava nulla, finivamo anche per litigare, come se anche lì, dentro lo schermo del televisore, in palio ci fosse la Coppa del Mondo. Non finivamo mai di combattere e, se anche accadeva, ricominciavamo appena possibile. Al mattino dopo colazione, poi dopo pranzo, fra un allenamento e l’altro e la sera terminata la cena. In pratica sempre. Ci caricavamo a vicenda. Quanti joypad ha rotto Vincenzo, fra i quattro quello che sopportava peggio le sconfitte. Anzi, non le sopportava proprio. Certe volte il suo compagno del momento perdeva apposta, è capitato anche questo, giusto per vedere la sua reazione, per gustarsela, per ridere come un matto davanti alla faccia incazzata di Iaquinta. Ci metteva di buonumore. 

Una sera noi tre – gli altri tre – ci siamo dovuti tuffare verso la TV per pararla in extremis, un attimo prima che cadesse a terra e si frantumasse, perché Vincenzo si era sfogato anche su quella. 

Ciò che invece sarebbe stato da interpretare era il comportamento di Grosso. Io, Marco e Vincenzo ogni tanto sceglievamo di giocare con squadre di club, dal Real Madrid al Bayern Monaco, dalla Juventus al Barcellona, dal Porto all’Inter, eppure lui insisteva: «Ok, adesso facciamo così, ma dopo prendiamo una Nazionale». Lo accontentavamo e a quel punto sceglieva sempre l’Italia. Esisteva solo quella maglia, i suoi occhi vedevano azzurro ovunque. Un daltonico a senso unico. Mai una variazione sul tema. L’Italia. L’Italia. E ancora l’Italia. 

Sentiva qualcosa ma, essendo abbastanza geloso dei propri sentimenti, soprattutto di quelli più intensi, non ci raccontava nulla. Gli scappava una smorfia, o un sorriso, non l’ho mai capito, si vedeva che era felice, ma allo stesso tempo leggermente preoccupato. Prendeva palla, puntava l’area avversaria, certe volte la perdeva e certe no. Chi stava in coppia con lui, in quel momento, si arrabbiava: «Fabio, passalo ’sto pallone! Non è tuo. Mica vuoi diventare l’uomo decisivo…».

Risentita e riletta oggi, questa frase, mette i brividi. Fabio non reagiva, e perseverava. È capitato anche – giuro – che ci fosse un rigore durante queste sfide e lo battesse lui. Il lui virtuale. Cioè, il lui con il joypad in mano che comandava il lui dentro al gioco. Ovviamente ha segnato, e anche in quel caso pareva un pizzico agitato. Ne sono certo, dentro se stesso, non so bene come e perché, iniziava ad avere certe sensazioni talmente belle da essere devastanti. Da aver paura.

Se dobbiamo applicare alla vittoria del Mondiale un concetto, è quello di squadra, ma se proprio dobbiamo scegliere un nome tra tutti è di certo il suo: Fabio Grosso. Agli ottavi di finale con l’Australia il rigore decisivo (inventato dall’arbitro ma chissenefrega) poi trasformato da Totti è nato da una sua azione sulla fascia sinistra, dove ha saltato Bresciano per poi venire a contatto con Neill, a pochi secondi dalla fine del match. In semifinale contro la Germania la prima rete, nei supplementari, a un minuto dai possibili calci di rigore, è stata la sua: ha esultato scuotendo la testa, come se fosse tutto impossibile, e invece ogni cosa in un certo senso era già stata provata alla PlayStation. Del rigore decisivo in finale con la Francia non devo aggiungere niente, aveva il mondo addosso e ce l’ha regalato, condividendolo con tutti noi. Anche lì, all’ultimo secondo. Quando si manifestava un problema, quando il tempo stava per scadere, nel momento esatto in cui Lippi stava per pensare a un piano B, a come uscirne, arrivava Fabio. Aveva la bacchetta magica nei piedi, ci toglieva dai casini un istante prima che i casini esplodessero. 

Io, Marco e Vincenzo, in ritiro, avevamo già vissuto tutto. Un concetto che abbiamo messo a fuoco solo dopo essere rientrati dalla Germania. Ci è capitato di parlarne fra noi tre.

«Oh, ma ti ricordi quella volta che Fabio alla PlayStation si era procurato un

rigore?»

«E quell’altra volta che ha fatto gol con quel tiro incredibile?»

«E quell’altra ancora in cui è andato sul dischetto e l’ha buttata dentro?»

È vero, nella stanza di Materazzi ci impegnavamo come se stessimo giocando per davvero, ma in fondo in fondo era tutta una finzione. Non per lui. Fabio stava vedendo oltre.

Stava già vincendo il Mondiale".


ALBERTO GILARDINO

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