3°
Congresso dei Democratici di Sinistra di Roma
20 – 21 – 22
gennaio 2005
Relazione
di Massimo Pompili
Care
compagne e compagni,
nell’aprire questo congresso della
Federazione romana dei DS, dobbiamo innanzitutto guardare con orgoglio, anche
se senza trionfalismi, ai grandi risultati che soprattutto qui a Roma, abbiamo
alle spalle.
In una sequenza di vittorie davvero
impressionante abbiamo riconfermato la nostra guida al Comune di Roma con
Veltroni, abbiamo conquistato la Provincia con Gasbarra, abbiamo vinto nel voto
europeo.
Sarebbe limitativo dire che è stata
solo farina del nostro sacco. Da Pesaro in poi, è stato rimesso in campo il
Partito in tutto il Paese. Con intelligenza, con tenacia e grande spirito
unitario. E questo è stato decisivo per
una ripresa generale della coalizione e per i successi elettorali dei DS. Mi
pare, lo abbiano riconosciuto tutte le mozioni: tutto ciò è stato possibile
anche grazie al grande lavoro, all’impegno e alla pazienza di Piero Fassino.
Tuttavia in queste settimane, ecco
la prima questione che voglio sottolineare, lo scontro per noi si è fatto di
nuovo difficile, impegnativo, perfino
cruento.
Probabilmente abbiamo perso molto,
troppo tempo ancora una volta, in faticose e talvolta incomprensibili
discussioni interne, con il rischio di sottovalutare la pericolosità e la
capacità di combattimento e di movimento di Berlusconi.
Guai a pensare che per noi la
partita delle prossime politiche sia già vinta e che la delusione assai diffusa
per il governo si traduca automaticamente in una adesione per il
centrosinistra.
D’altra parte, se come abbiamo più
volte detto, Berlusconi non è solo il
capo della destra, ma è il protagonista di un tentativo di instaurare in
Italia in modo permanente un grumo di interessi, una subcultura politica, un
modo di pensare spregiudicato e sempre sul filo delle regole e della legalità;
bene: se egli è questo, non lascerà il potere con facilità. Giocherà con rabbia
tutte le sue carte, anche quelle più avventurose.
Lo abbiamo visto, da settembre in
poi.
E’ stata messa in campo una campagna
mediatica e propagandistica, sostenuta anche dal servizio d’info rmazione pubblico, per riaccreditare Berlusconi
come leader libero e fedele al suo messaggio originario. Amico di Bush, campione
dell’Occidente liberista, alfiere solitario del taglio delle tasse. Che prima
piega le resistenze, naturalmente non disinteressate, dei suoi stessi partners
di governo. E poi li tacita tutti. Distribuisce ministeri e sottosegretariati e
torna saldamente al comando. Insomma il famoso scatto di reni che tutti abbiamo
percepito.
E poi, la strategia per tagliare le
gambe all’opposizione.
La cacciata di Mentana, le leggi
contro i magistrati, la salva Previti,
il ricorso alla Corte Costituzionale contro l’ammissione dei referendum sulla
fecondazione, e soprattutto l’intenzione di cambiare la legge elettorale e
sopprimere la par condicio.
Si riconferma un dato dei mesi
scorsi: Berlusconi sorride e fa il buonista con gli elettori. Ma dentro l’animo,
come abbiamo visto con le dichiarazioni sull’opposizione dei giorni scorsi, cova il maglio dell’autoritarismo e
dell’intolleranza.
Dico tutto questo, perché?
Perché noi dobbiamo fare un
congresso di lotta, di battaglia politica, di mobilitazione, in grado di
parlare agli italiani e di incidere sugli avvenimenti.
Questa è la nostra priorità.
Tanto più a Roma, dove abbiamo
dinanzi nei prossimi sessanta giorni, e sottolineo sessanta giorni,
la sfida più importante e decisiva. Quella contro Storace.
A nessuno sfugge quanto conterà il
risultato del Lazio negli equilibri del voto nazionale. E poi Storace non è
solo un capo locale. Seppure discusso, egli è un simbolo in tutta Italia per AN
e per la destra. Batterlo, avrebbe un significato più ampio. E infine Roma, la
sua Provincia sono la culla di un’esperienza di riformismo, praticato in modo
originale ed innovativo, che dobbiamo a tutti i costi preservare da colpi e
sconfitte.
Essenziale, dunque, è vincere.
E possiamo vincere.
Dal Congresso deve partire una
spinta possente, di massa, articolata in ogni quartiere per far conoscere le
nostre proposte e i nostri candidati.
E care compagne e compagni, noi
possiamo vincere perché abbiamo un grande candidato. Piero Marrazzo che io
saluto, che è qui tra noi, che ancora una volta ringrazio per il suo
coraggio e la sua generosità. Marrazzo è
un uomo democratico, intelligente, appassionato. E’ un bravissimo
professionista cresciuto nella difesa dei diritti dei più deboli. Ma è anche un
politico misurato ed accorto.
Già in queste prime settimane di
infaticabile attività, Piero ha dimostrato una capacità enorme di rapporto di
massa e ha suscitato tante speranze. E’ volato nei sondaggi, e oggi è
stabilmente in testa. Sta a noi, tutti noi, non deludere questa speranza,
comprendere l’impegno dell’impresa e come sempre nei momenti più importanti
della storia democratica di questa città, contribuire in modo determinante
al suo successo; liberando così tutti dal cappio di una politica che ha
governato il Lazio con la prepotenza, la clientela e non di rado la pressione ed il ricatto.
Piero spesso ripete che, tra di noi, si trova
a casa: è stato un incontro che ha il sapore di un ritrovarsi.
Ed è la cosa, in fondo, più bella
che poteva dirci.
La sua forza infatti, sta anche
nell’essersi saputo inserire con intelligenza e modestia nel solco di
un’esperienza e di una storia.
E’ la storia di questi nostri anni a
Roma.
Di un laboratorio, o di un modello,
ormai vincente da quasi quindici anni.
Qui, con noi e Rutelli, è nato
l’Ulivo.
Si sono tentate alleanze ampie, e
una pratica politica unitaria capace di superare calcoli di bottega ed egoismi,
e tesa solo a far vincere tutta la coalizione.
Alle comunali del 1997 i DS
lasciarono sul campo parecchi punti in percentuale, favorendo la Lista civica del Sindaco,
che fu tuttavia decisiva per farlo rieleggere. Rivendico con orgoglio quella
scelta. Quel sangue dato ci è tornato ancora più abbondante in seguito, perché
l’elettorato ricorda ed apprezza.
E oggi i DS sono di nuovo il primo
partito della Capitale.
Il segreto di questo laboratorio,
potendo oggi guardare le cose con un distacco quasi storico, è stato quello di
comprendere il “sale di Roma”.
La complessità di una città sempre
in bilico tra slanci travolgenti di libertà, di generosità democratica, di solidarismo
e civismo e resistenze molli, pigrizie al
cambiamento, opportunismi salottieri e chiusure clerico-fasciste.
Se dall’alto si dà un buon esempio,
prevale lo spirito aperto e solare di Roma.
Altrimenti prevale la risacca, e
ognuno si affida a se stesso e alla rete dei clientelismi diffusi.
Dunque, in fondo Roma ha un popolo
esigente.
Noi lo abbiamo conquistato con un duplice
passo.
L’attenzione maniacale (e mai
sufficiente) per il particolare, per la vita quotidiana, per i disagi dei
semplici cittadini.
E poi, un’idea e una grande ambizione per la Città.
Quella di modernizzarla. Di darle
finalmente strutture cittadine competitive nel settore dei trasporti, della
cultura, del commercio, delle fiere, dei congressi. La Roma dei servizi, dell’innovazione,
delle università. In grado di sostituire via via quella solo legata alla pubblica
amministrazione e all’edilizia.
Tutto ciò fatto con passione civica,
con onestà e trasparenza.
E’ questo trasparente amore per Roma
che ha contagiato i cittadini, che ha spostato ceti moderati in bilico, che ci
ha permesso di vincere, e che oggi porta Veltroni ad avere circa l’80% dei
consensi.
I DS sono stati l’anima di questo
laboratorio.
Tutti i DS.
Perché la nostra storia è anche il
frutto di un gruppo dirigente.
Largo, solido, pluralista, che nei
momenti che contano ha lavorato unito ed è stato un punto di riferimento
autorevole per tutto il Partito.
Questa fortuna altre Federazioni l’hanno
avuta in misura forse ridotta. E anche questo rivendico.
Lo si è visto nello svolgimento del
Congresso. La partecipazione è stata altissima. In termini assoluti i votanti
sono stati il doppio di quelli della Federazione di Bologna.
E i risultati non esprimono
percentuali bulgare.
Ma esprimono la peculiarità di un
corpo di iscritti variegato, democratico ed autonomo nei giudizi.
Teniamocela ben stretta questa
peculiarità e al di là della forza delle singole mozioni, lavoriamo nei
prossimi mesi insieme, per una gestione unitaria del Partito.
Consapevoli, care compagne e
compagni, che le vittorie ottenute non sarebbero state neppure pensabili senza
il pluralismo, senza l’unità, senza il lavoro collettivo.
Dunque, caro Piero, tu avrai a
sostegno della tua-nostra battaglia non solo la storia di un laboratorio di
governo ormai radicato, ma anche la serenità e la combattività di un partito
sano e rinfrancato.
Ma, e concludo su questa prima parte
della relazione, tu avrai al tuo fianco
un’altra risorsa preziosa.
***
Ho visto, credo usciranno in queste ore,
una tua bella foto con accanto Veltroni e Gasbarra.
E’ un messaggio chiaro di
collaborazione, di continuità, di semplicità nei rapporti.
Storace oggi fa anche lui il
buonista, ma se vincesse tornerebbe quello di sempre. Aprendo una
conflittualità a tutto campo, paralizzante e ricattatoria. Lo devono sapere
bene tutti quelli che pensano ad uno schema astratto quanto ingenuo, di giunte
bilanciate. Le giunte sarebbero sbilanciatissime: perché dalla nostra parte
continuerebbe ad esserci un attento rispetto delle istituzioni; ma dall’altra ritornerebbe
la prepotenza di parte, o di partito, che anche tanti imprenditori hanno
sperimentato.
Il riferimento unitario a Veltroni,
nella campagna elettorale per la Regione , non deve essere,
tuttavia, solo il riferimento ad una persona popolare e capace, che io ritengo
una delle risorse più importanti del centrosinistra italiano.
Ma ad una straordinaria esperienza
che stiamo vivendo, che ha dato una dimensione nuova e nettamente più avanzata
al riformismo romano.
Il Sindaco non solo ha portato o sta
portando a termine vecchie e nuove modernizzazioni della Capitale in
particolare, debbo dire, con il sostegno di una Camera di Commercio, guidata in
modo davvero lungimirante da Andrea Mondello. Innovazioni come l’Auditorium,
che ha preso letteralmente il volo; i Mercati generali; il nuovo Palazzo dei Congressi;
la trasformazione di Ostiense; la nuova Fiera di Roma; il Passante a Nord-Ovest;
lo svincolo del Tintoretto e così via. Ma il Sindaco ha marcato una svolta
sociale e contemporaneamente un ruolo internazionale, mondiale, cosmopolita e
di pace di Roma.
Mentre Berlusconi tagliava miliardi
agli enti locali, non un euro è stato tolto dal governo capitolino alla spesa
sociale. E non è meno significativo che Roma sia diventata il centro di
iniziative come l’incontro dei Premi Nobel per la Pace ; come la trattativa
riservata che ha portato ad un primo storico accordo tra Israele e Palestina; come il Glocal Forum,
volano di progetti di aiuto delle città ricche verso le più povere; come le
fiaccolate per il dialogo interreligioso tra cattolici, ebrei ed islamici
mentre qualcuno seminava l’odio evocando guerre di civiltà; o come la visita
del Dalai Lama.
Solidarietà e apertura al mondo.
Costruire, dunque, un riformismo e una
modernità, fatti non solo di regole e cifre, pure indispensabili. Ma alimentati
da un’anima. Capaci di rispondere a una domanda di senso.
E capaci di trasformare una
metropoli anche in una comunità con una missione.
Una comunità laica, alla quale si è
orgogliosi di appartenere. Non fondata su miti, riti calcistici o ideologici,
simboli da venerare. Ma su un senso diffuso di cooperazione, di scambio e di
incontro culturale, di riconoscimento dell’altro.
Sono questi i traguardi ambiziosi
innanzitutto di Walter, della sua Giunta, del gruppo consiliare, diretto
davvero con autorevolezza da Lionello Cosentino.
E penso davvero che gran parte del
mondo cattolico, abbia colto questo messaggio, questa pratica concreta nella
quale si avvicinano così tanto i valori di una sinistra democratica a quelli di
un cattolicesimo attento alle persone e alla loro dimensione spirituale.
Anche se poi sappiamo, ovunque c’è
chi privilegia soltanto gli aspetti materiali e finanziari, su cui debbo dire
Storace, non avendo anima, punta molto; e spesso con volgarità, strumentalismo
e rozzezza, come si è recentemente dimostrato in occasioni di eccellenza.
Per la nostra amministrazione, però,
si tratta adesso di entrare ancor di più nelle maglie della città.
Risolvere, soprattutto nelle
periferie estreme e nei grandi quartieri popolari nodi locali diffusi, che in
quella borgata o in quel rione sono diventati i simboli dell’annoso problema
non risolto. Bisogna stringere su questo. Non sottovalutare. Coordinarci meglio
tra il partito e gli amministratori. Perché lì quelle soluzioni rappresentano la
svolta che sposta permanentemente consensi, e rende più credibile e aiuta la
comprensione del cambiamento generale in atto nella Capitale e ora anche alla Provincia
di Roma. Grazie ad una Giunta che ha ridato dignità e visibilità a quella
istituzione, e in particolare
al lavoro della nostra delegazione
di eletti e di assessori.
***
Care compagne e compagni, tutte le
sfide che ci stanno di fronte saranno vinte, tuttavia, principalmente nella
misura in cui noi saremo capaci di rispondere con serenità e credibilità alla
crisi di fondo del berlusconismo.
Ho già detto: l’uomo combatterà fino
all’ultimo. E prepariamoci a sorprese.
La sua crisi, però, non è
occultabile neppure dalle più sofisticate strategie mediatiche. Berlusconi
vinse sulla base di una scommessa, e di
una promessa.
Muovere il Paese, farlo crescere,
allentando le briglie.
Meno regole. Meno Stato. Meno
interventi pubblici e solidarietà.
Più competizione, libertà e
ricchezza.
La realtà è sotto gli occhi di
tutti.
Il Paese è fermo. Non cresce e non esporta.
La produttività è in calo. La
ricchezza delle famiglie è spaventosamente ridotta.
Ormai anche pezzi consistenti di
ceto medio stentano ad arrivare alla fine del mese.
Il lavoro è precario. La
flessibilità si è trasformata per tantissimi giovani in un parcheggio infinito,
in lavori alienanti, sottopagati, dequalificati.
Aumenta, dunque, l’insicurezza, l’inquietudine e per i meno protetti la
disperazione.
Tutti gli istituti di ricerca
parlano di un’Italia stanca, sfilacciata, priva di fiducia nel proprio futuro.
E (soprattutto questo chiama in
causa noi, la sinistra democratica) di un’Italia dove negli ultimi anni è
aumentato enormemente il divario tra la crescita dei profitti e quella dei
salari.
Dal ’95 al 2002 nella distribuzione
del PIL, il lavoro dipendente è sceso dal 42,6% al 41,4%; mentre i profitti
sono saliti dal 22% al 27%.
Ma questi profitti non sono stati impiegati per rendere più
competitivo e internazionale il nostro
assetto industriale. Né hanno finanziato ricerca ed innovazione.
Spesso, invece, sono stati bruciati in operazioni finanziarie
e speculative, fino agli esempi clamorosi di Cirio e Parmalat. Che altro non
sono che le punte dell’iceberg di un capitalismo malato, incapace da solo di
rinnovarsi, di scegliere le strade giuste, di prepararsi alle sfide mondiali
che ci stanno dinnanzi.
Ha fatto bene, quindi, prima di
tutto la CGIL , a
resistere alle ripetute ondate
conservatrici, opportunistiche, povere culturalmente. Che di fronte ad ogni
difficoltà ripetono la filastrocca del peso del costo del lavoro e della
flessibilità.
In questo quadro la lotta
sull’articolo 18, al di là del suo valore concreto e di merito, è stata il
simbolo-baluardo per una lettura politica della realtà italiana più onesta e
veritiera.
In un bel documento promosso dal
cosiddetto gruppo dei 26 si riassume bene il tema. “Gli anni ’90 -recita il
documento- ci lasciano in eredità due problemi difficili: cattiva distribuzione
del reddito e perdita di competitività. Sciogliere questo intreccio è una prova
più complicata dell’ingresso nell’Euro, è urgente pensare a nuove politiche
pubbliche e operare scelte attraverso una rinnovata politica industriale.” E’
proprio così.
E nulla di tutto questo saranno in
grado di fare gli ultimi saldi di un berlusconismo arrogante e un po’ disperato
e che in ogni modo – come dicevo- cerca di rimanere in sella.
I passaggi difficili di una nazione
si affrontano, infatti, rinsaldandone l’unità, l’autorevolezza e promuovendo la
giustizia sociale. L’autorevolezza italiana in Europa sta a pezzi, dopo quattro
anni di antieuropeismo strisciante del governo e il ripetersi di episodi gravi
o vergognosamente ridicoli. Fino alle ultime performances di Buttiglione, che
tanto severo con l’Islam nel pretendere una divisione tra fanatismo religioso e
politica, scambia poi invece la Commissione europea e
un programma di governo con i suoi personali convincimenti religiosi e atti di
fede.
Per non parlare dello scasso
istituzionale di cui Berlusconi è protagonista, la disinvoltura che dimostra
sulle regole, che può piacere ai cow-boys texani o a Putin. Ma che non lo rende
certo autorevole agli occhi delle grandi democrazie europee.
Così come per la giustizia sociale. Ho
percepito una certa nostra timidezza rispetto al cosiddetto taglio delle tasse.
Di sicuro vale l’argomento che non
ci sono coperture certe. Che complessivamente le tasse non sono diminuite. Che
ci sono altre priorità. Ma l’argomento vero, eclatante, che suscita perfino
qualche disgusto, sta nella semplice lettura delle tabelline dei tagli, con la
loro progressione rispetto ai redditi. I ricchissimi risparmiano moltissimo, i
ricchi molto, i benestanti abbastanza, mentre la grande massa di lavoratori
dipendenti – scontando anche la partita di giro dei recenti aumenti delle
tariffe dei servizi domestici o di quelli conseguenti ai tagli imposti ai
comuni- avrà dei benefici insignificanti.
E questo in un Paese in cui il
divario tra la paga dei supermanager e quella di un lavoratore medio, balza dalle
trenta volte tanto del 1970 fino alle mille volte di più come si rileva nel 2000.
Dunque sotto la patina di una
ripresa di attivismo di Berlusconi, se si scava, resta sul tappeto tutto intero
il fallimento di una classe dirigente non all’altezza. Che ha tentato di far
coincidere i suoi interessi, anche personali, con una politica confusa di
destrutturazione e populismo. E che in verità ci lascia un paese impaurito,
chiuso, che si arrocca. Che pensa di sopravvivere,
come dicono quelli della Lega, con i
dazi doganali e le impronte agli immigrati.
***
Care compagne e compagni, se la
destra ha fatto questo ed è stata questo, noi dobbiamo fare ed essere il
contrario. Noi dobbiamo, innanzitutto, dare al Paese sicurezza, in un quadro di giustizia sociale.
Dobbiamo ricostruire una fiducia e un nuovo patto di cittadinanza.
Quindi salvaguardare i redditi in
sofferenza, ripartire dalle persone in carne ed ossa, costruire reti di
reinserimento intelligenti e produttive per chi sta in mobilità, dare più
diritti e certezza al lavoro giovanile.
E poi dovremmo garantire alcuni
diritti di base a tutti. Con un messaggio semplice. L’ho già detto altre volte.
Alcuni servizi non si barattano, non
si condizionano, non si tagliano per ragioni di bilancio o di cassa. Sanità
e scuola. Un governo democratico serio deve assicurare, senza se e senza
ma, che ogni bambino abbia la sua scuola e che ogni malato avrà il suo
ospedale. Ma dopo aver rassicurato il Paese, un governo democratico deve anche
dargli serenità e fiducia in sé stesso e stimolarlo a camminare con le proprie
gambe. L’Italia è ricca di creatività, di voglia di fare, di intelligenze e di
capitale umano.
E deve riprendere a muoversi, deve
ritrovare l’emulazione e la scommessa sul futuro, la voglia di intraprendere e
di lavorare.
E tuttavia, un buon governo
riformista dovrebbe ben vedere quanti impedimenti ci sono per chi vuole
rimettersi in moto in un’Italia che appare un paese ingabbiato.
E allora il tema, non è tanto
pensare a grandi programmi dirigistici. Quanto, intanto, con determinazione
e coraggio, togliere gli ostacoli e liberare il Paese.
Liberarlo da una pubblica
amministrazione pesante, farraginosa ed ancora non efficiente. Da mercati
ingessati, perché dominati dai monopoli. Da corporazioni professionali. Da un
mercato del lavoro e da un sistema previdenziale, che chiudono le porte al
futuro dei giovani. Da un sistema fiscale che premia la ricchezza. Da un
sistema degli appalti poco aperto, che favorisce i contenziosi piuttosto che la
qualità delle opere.
E’ evidente che se l’Italia si
libera e riprende un cammino, occorrono binari solidi per farla procedere.
Occorre mettere mano con investimenti pubblici a quella armatura moderna di
infrastrutture, di formazione, di ricerca, di protezione dell’ambiente, che
tanto ci manca rispetto agli altri paesi europei. E senza la quale andrebbe
inesorabilmente perduta anche la straordinaria opportunità che i mercati
globalizzati basati sulla conoscenza, l’immagine, la comunicazione, danno
a quello speciale prodotto d’ingegno e
di creatività che è il marchio del made in Italy.
Il riformismo italiano dovrebbe,
dunque, spingere in questa direzione. Sicurezza attraverso la giustizia sociale.
Innovazione e cambiamento, attraverso la fiducia. E apertura all’Europa e al
mondo. Perché questo, ormai è lo scenario entro il quale si definisce il nostro
destino.
Tutti questi potrebbero apparire
obiettivi modesti. A me appaiono una
rivoluzione per l’Italia.
***
Mettere in campo un programma è
essenziale.
E tuttavia, a nessuno sfugge un
disorientamento più profondo della società, un distacco dalle passioni, una
solitudine che da fatto individuale si sta trasformando in malattia sociale.
Veltroni, l’ha chiamata una nuova
domanda di senso, alla quale occorre rispondere. E’ così.
A me pare, ci sia una difficoltà
della politica a ritrovare la sua funzione essenziale: coordinare gli esseri
umani per un fine collettivo, superiore. Per non lasciarli solo ai loro bisogni
immediati e primari.
Probabilmente questa difficoltà è
connaturata alla modernità, al dominio della tecnica, alla sua straordinaria
capacità di innovazione spaesante per le moltitudini che non la governano.
Probabilmente lo scenario così ampio
della globalizzazione, spinge tante
persone nei recinti più protettivi del localismo, dell’interesse
privato, dell’egoismo.
Fatto sta che nel massimo momento di
bisogno della politica (di questa positiva, laica, razionale dimensione umana)
vale a dire dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine di tanta vecchia
ideologia e di contrapposizioni paralizzanti, c’è stata una transizione troppo incerta e contraddittoria.
E l’Europa della politica è stata
troppo in disparte.
Invece di rinascere a nuova vita, è
apparsa stanca, esaurita, spremuta, troppo silenziosa.
E questa assenza ha pesato molto.
Vedete: sull’Iraq è stato detto
tutto.
Sull’aspetto politico inquietante e sulle
gravi conseguenze future di una guerra ingiusta, dannosa, inutile.
Si può riflettere, anzi, su come
spesso il merito lo faccia la forza e la storia i vincitori.
Perché tutti siamo contenti, ed è
giusto, che Saddam, e i terroristi,
siedano sul banco degli imputati come criminali di guerra. Ma i buoni non sono
certo quelli che hanno fatto una guerra illegale, bombardato i civili, ucciso i
bambini, torturato i prigionieri.
Ma, oltre a questo, ecco la
questione: l’Iraq è il punto più drammaticamente alto, a fronte della
complessità del mondo di oggi, di scacco della politica. E di affermazione
della pura forza nel suo carattere più ottuso e unilaterale.
Certo, su questa linea Bush ha rivinto
le elezioni americane. Ma non sono affatto sicuro che questa sua sia una
vittoria dell’America nel mondo. Un rafforzamento della sua egemonia. Né che
sia, viceversa, l’accelerazione di una crisi. La globalizzazione porta con sé,
infatti, nuovi conflitti e nuove ingiustizie. Ma anche una cosa molto
pericolosa per i paesi ricchi e prepotenti: la conoscenza e la comunicazione
rapida e planetaria.
I ragazzi del Bangladesh,
dell’India, dell’Indonesia conoscono attraverso le immagini, come si vive
nell’Occidente opulento. Sognano consumi, livelli di vita, opportunità simili
alle nostre.
E i sogni e le speranze, si sa, non
si fermano con le bombe.
E’ un flusso inarrestabile, di
esseri umani, fino ad ora esclusi dal palcoscenico della storia. Che trovano
anche nuovi stati simbolo a
rappresentarli come a Cancun: l’India, la Cina , il Brasile di Lula, il
Sudafrica. Tutto ciò invoca un nuovo ordine mondiale. Berlinguer avrebbe detto:
un governo mondiale, in grado di favorire nuovi livelli di democrazia, di giustizia,
di crescita ambientalmente compatibile. Che è tutto il contrario di gendarmi
egoisti, difensori protezionistici dei loro modelli sociali. Giudicati
teoricamente come i migliori, ma che
loro per primi sanno essere inesportabili: pena il collasso economico, sociale,
ecologico del pianeta. Temi efficacemente ed utilmente al centro della mozione
ecologista.
E’ in questo passaggio cruciale di
civiltà, dove le parole politica ed egemonia, paiono essere sostituite da forza
e comando unilaterale, che si apre un enorme spazio per noi, per l’Europa, per
una funzione democratica di altissimo profilo.
E’ in gioco una funzione storica che
può dare a milioni di giovani, se assunta con coraggio, creatività e passione,
il senso di un ruolo e di un protagonismo utile e intenso.
Il salto è obbligato se non vogliamo
essere schiacciati tra l’Islam integralista e l’estremismo conservatore di un
Occidente impaurito ed egoista. Le premesse ci sono: le nuove generazioni
viaggiano in Europa senza passaporto, usano la stessa moneta, si appassionano
per la stessa musica, lo stesso cinema, gli stessi libri.
Questa coscienza diffusa e questa
novità esistenziale può diventare spinta politica, per costruire un’Europa
coraggiosa e unita, in grado di trovare nelle sue radici migliori, nella sua
cultura, nel suo modello sociale avanzato, la forza e l’orgoglio di tornare a
fare una grande politica.
E’ tutto l’opposto dell’Europa
fiacca e chiusa che vuole la destra. Di quell’Europa divisa al suo interno, con
Berlusconi che fa la gara a chi è il più amico tra gli amici degli americani.
Ma è un’idea anche diversa
dall’Europa giardino, serena e felice, che si accontenta un po’
opportunisticamente del suo benessere, sotto l’ombrello americano, e dice
qualche no per non sporcarsi troppo le mani e salvarsi la coscienza.
Lo so. E’ difficile.
L’Europa dal dopoguerra si è
dedicata alla sua crescita, al suo sviluppo, ai suoi compromessi sociali e nazionali.
Ha delegato ad altri la grande politica.
Ma l’Europa deve chiudere
definitivamente con questa fase e con l’altro secolo. Uscire dalla sua
minorità. Riprendere autonomia, di potere e di strategia politica. Non in
chiave antiamericana. Ma dicendo la sua sul mondo, in modo libero, propositivo,
multipolare.
E’ la stretta che abbiamo di fronte
che ce lo impone.
Certo ciò comporta anche la
disponibilità a cambiare un po’ se stessi. Tuttavia non è affatto una
prospettiva di penuria. Soprattutto per l’Italia. Il mondo nuovo che cammina,
non ha bisogno di bombe, ma di innovazione sì; e di servizi avanzati, di
ricerca, di qualità e di creatività non riproducibile nei prodotti, di
università. Sono terreni per noi, di una pacifica nuova competizione,
potenzialmente vincente sui mercati che si aprono.
E poi il mondo nuovo che cammina
vorrà visitare sempre più Parigi, Londra, Roma, Venezia, Firenze. Con quello
che può significare per le nostre economie e il nostro turismo: prepariamoci ad
accoglierli, invece di costruire nuovi muri
sulla spinta del razzismo e della
diffidenza.
***
Vedete, care compagne e compagni,
in questo scenario, sempre a
proposito delle domande di senso, a scavare solo un po’ si ritrova anche il nucleo più autentico della politica
della sinistra: che sta in quel lavoro incessante di riequilibrio dei rapporti di forza tra chi
sta sotto e chi sta sopra.
Noi siamo nati per questo.
E se qualcuno ci domanda: serve
ancora la sinistra?
Non rispondo con i libri dell’800.
Ma con i dati del 2000: un miliardo
e duecentomila persone vivono con meno di un dollaro al giorno, e tre miliardi
vivono con meno di due dollari al giorno.
E il rapporto dello United Nations
Development Programme (UNDP) dice che occorrerebbero circa 44 miliardi di
dollari l’anno- meno del 4% della ricchezza globale delle 225 persone più
ricche del mondo- per assicurare a tutti gli abitanti del pianeta l’istruzione
di base, la sanità di base, la salute riproduttiva per le donne, una
alimentazione sufficiente, l’acqua potabile e i servizi igienici.
Ma tutto ciò non sembra essere una
priorità dei paesi ricchi. Eppure sappiamo che se qualcuno vive sopra le sue
possibilità economiche, in barba agli squilibri che questo comporta per il
sistema-mondo, qualcun altro dovrà pagarne il conto.
Sappiamo anche che il riequilibrio
delle forze non può avvenire una volta per tutte. Non c’è un’ora X.
Quando nel passato si è pensato
questo e si sono praticate le politiche giacobine e onnipotenti, sono nate nuove tragedie, oppressioni e crimini.
Il riequilibrio è un processo. La
politica deve mantenere la misura di se stessa e non debordare. Deve essere
sobria e contenere i contrappesi in grado di farle svolgere quel ruolo
essenziale di coordinamento della società e di strumento di mobilità sociale
per la giustizia. Senza mai soffocare, ma anzi stimolando la
libertà della società civile e di
tutti gli esseri umani.
***
Ma che cos’è questo, se non il
riformismo? La fiducia in una pratica costante, rigorosa, aperta e flessibile
di cambiamento e miglioramento della società.
Come abbiamo visto il passaggio di
civiltà che ci sta di fronte, e che coinvolge anche l’Italia, richiede questo,
se non vogliamo un futuro con nuove guerre, conflitti e povertà.
Vedete, è all’altezza di questi
pensieri che io ho inteso anche l’appassionato appello di Prodi ad unire di più
i diversi affluenti del riformismo italiano, che per ragioni storiche hanno
camminato in solchi così innaturalmente lontani.
Certo c’è l’esigenza di costruire un
baricentro di un’alleanza di centro-sinistra che giustamente si allarga. Lo
abbiamo detto.
Ma c’è, anche, l’esigenza di una
innovazione politico-culturale che scaturisca da un lavoro e una ricerca comune
di forze, culture, uomini e donne oggi separati in diversi partiti. Ma che in
tutti, dico tutti, i paesi europei stanno insieme. In Inghilterra nel partito
di Blair. In Germania in quello di Schroeder. In Spagna in quello di Zapatero.
L’anomalia siamo noi. Non loro.
So bene che pensare oggi ad un
partito unico, sarebbe irrealistico, e allo stato dei fatti perfino poco
comprensibile e sbagliato.
E infatti nessuno lo propone.
Ma lavorare insieme per costruire
uno spazio di pratica politica comune, nel quale si avvicinano e si intrecciano
esperienze, idee, gruppi dirigenti dei diversi riformismi italiani, non solo
non è sbagliato: è utile e urgente.
Per questa via si vuole liquidare il
Partito?
Non credo si possa pensare questo di
Fassino che in pochi anni ha rafforzato e rilanciato politicamente i DS.
Il punto è un altro. Rafforzare i
DS: ma per che cosa? Per quale politica?
Noi siamo nati nell’89, per federare,
per allargare il campo delle forze, per andare oltre una tradizione.
Ed è con questa politica di unità e
di servizio per la società italiana, che siamo tornati ad essere vincenti ed autorevoli.
E quanto ciò sia importante, nello
scenario italiano, europeo e mondiale ho
cercato di dirlo nel corso di tutta
la mia relazione.
***
Care compagne e compagni, lasciar
cadere proprio a Roma e nel Lazio, questa ambizione di una unità più avanzata,
sarebbe stato davvero un errore imperdonabile e un controsenso politico.
Proprio da noi, infatti, si è sviluppata una riflessione anticipatrice e
coraggiosa, in particolare in numerosi convegni che hanno influenzato il
dibattito nazionale come quello con Bettini, Veltroni e Giovanna Melandri.
Ecco perché considero la scelta di
presentare, qui, nella nostra Regione una lista unitaria dell’Ulivo alle
prossime elezioni, la conseguenza naturale della storia dei DS di Roma, e del
significato che hanno avuto ed hanno per noi le presenze di Gasbarra e di
Veltroni.
E’ tutta una impostazione di servizio,
di passione unitaria, di apertura alla società che trova uno sbocco concreto e
decisivo.
Sottopongo, formalmente, questa
decisione al Congresso.
Sottolineando anche il modo e il
dibattito con i quali ad essa si è arrivati e che questo esperimento a Roma avrà un peso in
tutto il Paese e sarà la verifica più rilevante di una ipotesi politica. Essa
va affrontata, quindi, a partire dalla formazione della lista, con attenzione
straordinaria da parte di tutti i gruppi dirigenti dei partiti nazionali e va
sviluppata con regole di comportamento e con grande accortezza di direzione in
tutto il suo dispiegarsi.
Ma così come sarebbe stato un errore
far cadere questa possibilità unitaria tra i partiti dell’Ulivo, permettetemi
di dire sarebbe un errore ancora più grave non cogliere tutte le potenzialità civiche
della candidatura di Marrazzo.
Dirà Marrazzo, se e come fare una
lista civica.
Io dico solo, che noi abbiamo un
candidato potenzialmente popolare, affidabile, e amato anche da quella parte di
elettorato meno istruito, meno politicizzato, più anziano e lontano dalla vita
istituzionale, che spesso ha votato a destra, o che non ha votato. E poi dico
che Storace, che fa finta di essere così sicuro, in verità non piace, per la
sua condotta, i suoi modi, la sua cultura, a tanti professionisti,
commercianti, imprenditori, i quali tuttavia stenterebbero a votare direttamente i partiti del centrosinistra e
cercano un approdo più neutro per esprimere le proprie idee e il proprio
disagio.
E dico, infine, che in tutte le
battaglie più importanti tra noi e la destra, come fu per Rutelli e Veltroni, la spinta
civica ha fatto la differenza, tanto che in questi mesi un movimento di
dimensione regionale frutto di quelle esperienze
elettorali ha dimostrato di esserci e
si è ulteriormente radicato ed esteso.
***
Care compagne e compagni,
abbiamo, dunque, un ottimo candidato
e uno schema politico, a mio parere, potenzialmente molto competitivo. Un’alleanza
larga. Una lista unitaria che ne può essere il fulcro. E la possibilità di
intercettare un voto in bilico e di impegno civile.
Partiamo, così, assai meglio di Storace.
Che usa, come ha ricordato il
compagno Meta, scrivendo al Presidente della Repubblica, il suo potere e le
risorse istituzionali per una miliardaria campagna pubblicitaria, in gran parte
tesa a coprire il suo fallimento di governo, le divisioni e le incertezze che covano nei partiti della sua
coalizione che davvero poco lo amano. E il fatto che la lista “Storace” non ha
alcun carattere espansivo ma pesca solo nell’elettorato di destra.
Ora, tuttavia, dobbiamo imprimere
una ulteriore svolta alla situazione.
Cominciando ad attivare ciò che
ancora manca: una campagna elettorale di massa con in campo tutte, sottolineo
tutte, le forze del centrosinistra.
Devono spuntare gazebo, tavolini,
volantinaggi, incontri in tutti gli angoli della città.
Con la spiegazione delle ragioni semplici,
concrete e chiare del fallimento di Storace e le nostre proposte, e soprattutto
quelle del nostro candidato.
Occorre penetrare la cortina
fumogena, spessa perché ben finanziata, delle bugie della destra. E devono
emergere le nostre alternative di governo, il perché è meglio cambiare, e che
cosa vuole fare il centrosinistra alla guida della Pisana.
Non è impossibile.
Nella sanità dilaga l’emergenza.
Basta guardare alle file di queste ore nei ricoveri per l’influenza. Sono stati
ripristinati i tickets. Premiati i privati. Venduti gli ospedali. Svolte false
inaugurazioni. Bloccate le assunzioni e incentivato il precariato.
Così come nei trasporti.
Marrazzo ha rimesso al centro del
suo programma il potenziamento del ferro.
In cinque anni Storace non ha aperto
nessun nuovo cantiere, nessuna nuova stazione o fermata FS. In un anno di
governo la Provincia
di Roma ha deciso di investire 52 milioni di euro, più di quanto la Regione ha investito in tutta
la legislatura. Sul “nodo di Roma” sono crollati i finanziamenti.
Dal 1996 al 2000 furono di 600
miliardi di vecchie lire, oggi sono scesi a 140.
Si sono perse tante risorse disponibili per le
ferrovie concesse.
Così come per l’ambiente. Sono stati tagliati 4000
ettari di Parchi Regionali.
Sono stati tolti poteri
ai Comuni. In tante aree protette si è riaperta la strada della
speculazione edilizia.
Marrazzo ha già detto: cancellerà
quei tagli, istituirà nuovi parchi: i Prenestini, i Lepini, quello Della Tolfa.
Rimetterà al centro della gestione i Comuni.
Sono solo alcuni esempi di due modi
alternativi di operare.
Quello di Storace ci consegna
una Regione poco coesa e poco
competitiva.
Egli esibisce dati buoni
sull’economia.
Peccato che quei dati siano trascinati
dall’ottimo performance della città di
Roma, e si abbassano tutti quando vengono sommati a quelli del resto del Lazio.
Dal 1995 al 2003, infatti, il PIL
aumenta a Roma del 20,62 con tutto il Lazio si abbassa al 18,86. I disoccupati dal ’99 al
2003 a Roma diminuiscono del 29%, con tutto il Lazio del 21%.
Insomma, tutto dice che occorre
voltare pagina.
Occorre guardare al Lazio, per
quello che esso è:una grande regione europea, dei diritti e delle opportunità.
Una Regione veramente di tutti, nessuno
escluso.
***
Care compagne e compagni, ho concluso,
in questa battaglia ancora una volta
ci stiamo spendendo al massimo.
Walter e Goffredo fin dall’inizio
hanno accompagnato quotidianamente Marrazzo nella sua avventura, invitando
tutti a superare passaggi politici
davvero delicati.
Io e Michele abbiamo condotto il
Partito senza interessi di parte a condividere scelte di uomini e politiche che
ci sono apparse le più utili per tutta la coalizione e per vincere.
Molti noti e autorevoli compagne e
compagni, hanno promosso programmi di iniziative di massa negli ambienti e nel
territorio.
Abbiamo deciso di chiedere anche a
Nicola con alle spalle l’esperienza straordinaria della campagna elettorale delle
europee, di mettersi a disposizione del Comitato Marrazzo, come nostra forza di
riferimento.
Bene.
Tuttavia, care compagne e compagni,
la nostra sola sicurezza siete ancora una volta voi. Gli iscritti. I militanti.
Di questo vitale e creativo partito romano.
Voi siete il grande strumento della
lotta e della democrazia di questa città perché ne costituite una delle
componenti sociali più avanzate.
E noi questo strumento, in questi
anni, abbiamo cercato di curarlo, di migliorarlo, di rafforzarlo con umiltà e
pazienza.
Sono aumentati gli iscritti.
Si sono aperte nuove sezioni.
Il bilancio è sostanzialmente
risanato.
E’ cresciuta una nuova leva di
compagne e compagni, al centro ed in periferia, giovane, colta, ormai esperta,
che ha lavorato con passione e alla quale occorre dare fiducia.
In questi anni si sono affermati, in
modo inedito, con una pratica politica più solidale e legata ai diversi gangli
della società, la presenza e i contenuti delle donne.
E allora.
Da compagno di un’altra generazione
che ha solo l’ambizione di essere utile ad un partito dentro il quale è cresciuto
fin da ragazzo e al quale sono grato per tutto quello che mi ha dato, ribadisco
la mia funzione. Che è quella di traghettare verso il prossimo congresso una
nuova classe dirigente per una guida piena e autonoma della Federazione.
Però lasciatemi dire, e ho concluso
veramente, che il partito oltre che uno strumento, è una comunità di donne e di
uomini che dentro l’animo hanno un fuoco ed un’energia comuni.
I simboli, e i nomi, contano.
Ma conta di più mantenere questo.
Questa nostra comune
insopportabilità per le ingiustizie, che è la fonte permanente del nostro
stare, camminare e cambiare insieme.E qualsiasi sarà la forma politica che nel
futuro sceglieremo come la più adeguata, noi saremo comunque sempre da questa
parte della barricata.
E Dio sa, oggi, quanto di questo ci
sia bisogno.
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