domenica 21 aprile 2013

PER UN FUTURO DI VALORI



3° Congresso dei Democratici di Sinistra di Roma
20 – 21 – 22 gennaio 2005

Relazione di Massimo Pompili

Care compagne e compagni,
nell’aprire questo congresso della Federazione romana dei DS, dobbiamo innanzitutto guardare con orgoglio, anche se senza trionfalismi, ai grandi risultati che soprattutto qui a Roma, abbiamo alle spalle.
In una sequenza di vittorie davvero impressionante abbiamo riconfermato la nostra guida al Comune di Roma con Veltroni, abbiamo conquistato la Provincia con Gasbarra, abbiamo vinto nel voto europeo.
Sarebbe limitativo dire che è stata solo farina del nostro sacco. Da Pesaro in poi, è stato rimesso in campo il Partito in tutto il Paese. Con intelligenza, con tenacia e grande spirito unitario. E questo è stato decisivo  per una ripresa generale della coalizione e per i successi elettorali dei DS. Mi pare, lo abbiano riconosciuto tutte le mozioni: tutto ciò è stato possibile anche grazie al grande lavoro, all’impegno e alla  pazienza di Piero Fassino.
Tuttavia in queste settimane, ecco la prima questione che voglio sottolineare, lo scontro per noi si è fatto di nuovo difficile, impegnativo,  perfino cruento.
Probabilmente abbiamo perso molto, troppo tempo ancora una volta, in faticose e talvolta incomprensibili discussioni interne, con il rischio di sottovalutare la pericolosità e la capacità di combattimento e di movimento di Berlusconi.
Guai a pensare che per noi la partita delle prossime politiche sia già vinta e che la delusione assai diffusa per il governo si traduca automaticamente in una adesione per il centrosinistra.
D’altra parte, se come abbiamo più volte detto, Berlusconi non è solo il  capo della destra, ma è il protagonista di un tentativo di instaurare in Italia in modo permanente un grumo di interessi, una subcultura politica, un modo di pensare spregiudicato e sempre sul filo delle regole e della legalità; bene: se egli è questo, non lascerà il potere con facilità. Giocherà con rabbia tutte le sue carte, anche quelle più avventurose.
Lo abbiamo visto, da settembre in poi.
E’ stata messa in campo una campagna mediatica e propagandistica, sostenuta anche dal servizio d’informazione pubblico, per riaccreditare Berlusconi come leader libero e fedele al suo messaggio originario. Amico di Bush, campione dell’Occidente liberista, alfiere solitario del taglio delle tasse. Che prima piega le resistenze, naturalmente non disinteressate, dei suoi stessi partners di governo. E poi li tacita tutti. Distribuisce ministeri e sottosegretariati e torna saldamente al comando. Insomma il famoso scatto di reni che tutti abbiamo percepito.
E poi, la strategia per tagliare le gambe all’opposizione.
La cacciata di Mentana, le leggi contro i magistrati,  la salva Previti, il ricorso alla Corte Costituzionale contro l’ammissione dei referendum sulla fecondazione, e soprattutto l’intenzione di cambiare la legge elettorale e sopprimere la par condicio.
Si riconferma un dato dei mesi scorsi: Berlusconi sorride e fa il buonista con gli elettori. Ma dentro l’animo, come abbiamo visto con le dichiarazioni sull’opposizione dei giorni scorsi,  cova il maglio dell’autoritarismo e dell’intolleranza.
Dico tutto questo, perché?
Perché noi dobbiamo fare un congresso di lotta, di battaglia politica, di mobilitazione, in grado di parlare agli italiani e di incidere sugli avvenimenti.
Questa è la nostra priorità.
Tanto più a Roma, dove abbiamo dinanzi nei prossimi sessanta giorni, e sottolineo sessanta giorni, la sfida più importante e decisiva. Quella contro Storace.
A nessuno sfugge quanto conterà il risultato del Lazio negli equilibri del voto nazionale. E poi Storace non è solo un capo locale. Seppure discusso, egli è un simbolo in tutta Italia per AN e per la destra. Batterlo, avrebbe un significato più ampio. E infine Roma, la sua Provincia sono la culla di un’esperienza di riformismo, praticato in modo originale ed innovativo, che dobbiamo a tutti i costi preservare da colpi e sconfitte.
Essenziale, dunque, è vincere.
E possiamo vincere.
Dal Congresso deve partire una spinta possente, di massa, articolata in ogni quartiere per far conoscere le nostre proposte e i nostri candidati.
E care compagne e compagni, noi possiamo vincere perché abbiamo un grande candidato. Piero Marrazzo che io saluto, che è qui tra noi, che ancora una volta ringrazio per il suo coraggio  e la sua generosità. Marrazzo è un uomo democratico, intelligente, appassionato. E’ un bravissimo professionista cresciuto nella difesa dei diritti dei più deboli. Ma è anche un politico misurato ed accorto.
Già in queste prime settimane di infaticabile attività, Piero ha dimostrato una capacità enorme di rapporto di massa e ha suscitato tante speranze. E’ volato nei sondaggi, e oggi è stabilmente in testa. Sta a noi, tutti noi, non deludere questa speranza, comprendere l’impegno dell’impresa e come sempre nei momenti più importanti della storia democratica di questa città, contribuire in modo determinante al suo successo; liberando così tutti dal cappio di una politica che ha governato il Lazio con la prepotenza, la clientela  e non di rado  la pressione ed il ricatto.
 Piero spesso ripete che, tra di noi, si trova a casa: è stato un incontro che ha il sapore di un ritrovarsi.
Ed è la cosa, in fondo, più bella che poteva dirci.
La sua forza infatti, sta anche nell’essersi saputo inserire con intelligenza e modestia nel solco di un’esperienza e di una storia.
E’ la storia di questi nostri anni a Roma.
Di un laboratorio, o di un modello, ormai vincente da quasi quindici anni.
Qui, con noi e Rutelli, è nato l’Ulivo.
Si sono tentate alleanze ampie, e una pratica politica unitaria capace di superare calcoli di bottega ed egoismi, e tesa solo a far vincere tutta la coalizione.
Alle comunali del 1997 i DS lasciarono sul campo parecchi punti in percentuale, favorendo la Lista civica del Sindaco, che fu tuttavia decisiva per farlo rieleggere. Rivendico con orgoglio quella scelta. Quel sangue dato ci è tornato ancora più abbondante in seguito, perché l’elettorato ricorda ed apprezza.
E oggi i DS sono di nuovo il primo partito della Capitale.
Il segreto di questo laboratorio, potendo oggi guardare le cose con un distacco quasi storico, è stato quello di comprendere il “sale di Roma”.
La complessità di una città sempre in bilico tra slanci travolgenti di libertà, di generosità democratica, di solidarismo e civismo e resistenze molli, pigrizie  al cambiamento, opportunismi salottieri e chiusure clerico-fasciste.
Se dall’alto si dà un buon esempio, prevale lo spirito aperto e solare di Roma.
Altrimenti prevale la risacca, e ognuno si affida a se stesso e alla rete dei clientelismi diffusi.
Dunque, in fondo Roma ha un popolo esigente.
Noi lo abbiamo conquistato con un duplice passo.
L’attenzione maniacale (e mai sufficiente) per il particolare, per la vita quotidiana, per i disagi dei semplici cittadini.
E poi, un’idea  e una grande ambizione per la Città.
Quella di modernizzarla. Di darle finalmente strutture cittadine  competitive nel settore dei trasporti, della cultura, del commercio, delle fiere, dei congressi. La Roma dei servizi, dell’innovazione, delle università. In grado di sostituire via  via quella solo legata alla pubblica amministrazione e all’edilizia.
Tutto ciò fatto con passione civica, con onestà e trasparenza.
E’ questo trasparente amore per Roma che ha contagiato i cittadini, che ha spostato ceti moderati in bilico, che ci ha permesso di vincere, e che oggi porta Veltroni ad avere circa l’80% dei consensi.
I DS sono stati l’anima di questo laboratorio.
Tutti i DS.
Perché la nostra storia è anche il frutto di un gruppo dirigente.
Largo, solido, pluralista, che nei momenti che contano ha lavorato unito ed è stato un punto di riferimento autorevole per tutto il Partito.
Questa fortuna altre Federazioni l’hanno avuta in misura forse ridotta. E anche questo rivendico.
Lo si è visto nello svolgimento del Congresso. La partecipazione è stata altissima. In termini assoluti i votanti sono stati il doppio di quelli della Federazione di Bologna.
E i risultati non esprimono percentuali bulgare.
Ma esprimono la peculiarità di un corpo di iscritti variegato, democratico ed autonomo nei giudizi.
Teniamocela ben stretta questa peculiarità e al di là della forza delle singole mozioni, lavoriamo nei prossimi mesi insieme, per una gestione unitaria del Partito.
Consapevoli, care compagne e compagni, che le vittorie ottenute non sarebbero state neppure pensabili senza il pluralismo, senza l’unità, senza il lavoro collettivo.
Dunque, caro Piero, tu avrai a sostegno della tua-nostra battaglia non solo la storia di un laboratorio di governo ormai radicato, ma anche la serenità e la combattività di un partito sano e rinfrancato.
Ma, e concludo su questa prima parte della relazione, tu avrai al tuo fianco
un’altra risorsa preziosa.
***
Ho visto, credo usciranno in queste ore, una tua bella foto con accanto Veltroni e Gasbarra.
E’ un messaggio chiaro di collaborazione, di continuità, di semplicità nei rapporti.
Storace oggi fa anche lui il buonista, ma se vincesse tornerebbe quello di sempre. Aprendo una conflittualità a tutto campo, paralizzante e ricattatoria. Lo devono sapere bene tutti quelli che pensano ad uno schema astratto quanto ingenuo, di giunte bilanciate. Le giunte sarebbero sbilanciatissime: perché dalla nostra parte continuerebbe ad esserci un attento rispetto delle istituzioni; ma dall’altra ritornerebbe la prepotenza di parte, o di partito, che anche tanti imprenditori hanno sperimentato.
Il riferimento unitario a Veltroni, nella campagna  elettorale per la Regione, non deve essere, tuttavia, solo il riferimento ad una persona popolare e capace, che io ritengo una delle risorse più importanti del centrosinistra italiano.
Ma ad una straordinaria esperienza che stiamo vivendo, che ha dato una dimensione nuova e nettamente più avanzata al riformismo romano.
Il Sindaco non solo ha portato o sta portando a termine vecchie e nuove modernizzazioni della Capitale in particolare, debbo dire, con il sostegno di una Camera di Commercio, guidata in modo davvero lungimirante da Andrea Mondello. Innovazioni come l’Auditorium, che ha preso letteralmente il volo; i Mercati generali; il nuovo Palazzo dei Congressi; la trasformazione di Ostiense; la nuova Fiera di Roma; il Passante a Nord-Ovest; lo svincolo del Tintoretto e così via. Ma il Sindaco ha marcato una svolta sociale e contemporaneamente un ruolo internazionale, mondiale, cosmopolita e di pace di Roma.
Mentre Berlusconi tagliava miliardi agli enti locali, non un euro è stato tolto dal governo capitolino alla spesa sociale. E non è meno significativo che Roma sia diventata il centro di iniziative come l’incontro dei Premi Nobel per la Pace; come la trattativa riservata che ha portato ad un primo storico accordo tra  Israele e Palestina; come il Glocal Forum, volano di progetti di aiuto delle città ricche verso le più povere; come le fiaccolate per il dialogo interreligioso tra cattolici, ebrei ed islamici mentre qualcuno seminava l’odio evocando guerre di civiltà; o come la visita del Dalai Lama.
Solidarietà e apertura al mondo. Costruire, dunque,  un riformismo e una modernità, fatti non solo di regole e cifre, pure indispensabili. Ma alimentati da un’anima. Capaci di rispondere a una domanda di senso.
E capaci di trasformare una metropoli anche in una comunità con una missione.
Una comunità laica, alla quale si è orgogliosi di appartenere. Non fondata su miti, riti calcistici o ideologici, simboli da venerare. Ma su un senso diffuso di cooperazione, di scambio e di incontro culturale, di riconoscimento dell’altro.
Sono questi i traguardi ambiziosi innanzitutto di Walter, della sua Giunta, del gruppo consiliare, diretto davvero con autorevolezza da Lionello Cosentino.
E penso davvero che gran parte del mondo cattolico, abbia colto questo messaggio, questa pratica concreta nella quale si avvicinano così tanto i valori di una sinistra democratica a quelli di un cattolicesimo attento alle persone e alla loro dimensione spirituale.
Anche se poi sappiamo, ovunque c’è chi privilegia soltanto gli aspetti materiali e finanziari, su cui debbo dire Storace, non avendo anima, punta molto; e spesso con volgarità, strumentalismo e rozzezza, come si è recentemente dimostrato in occasioni di eccellenza.
Per la nostra amministrazione, però, si tratta adesso di entrare ancor di più nelle maglie della città.
Risolvere, soprattutto nelle periferie estreme e nei grandi quartieri popolari nodi locali diffusi, che in quella borgata o in quel rione sono diventati i simboli dell’annoso problema non risolto. Bisogna stringere su questo. Non sottovalutare. Coordinarci meglio tra il partito e gli amministratori. Perché lì quelle soluzioni rappresentano la svolta che sposta permanentemente consensi, e rende più credibile e aiuta la comprensione del cambiamento generale in atto nella Capitale e ora anche alla Provincia di Roma. Grazie ad una Giunta che ha ridato dignità e visibilità a quella istituzione, e in particolare
al lavoro della nostra delegazione di eletti e di assessori.
***
Care compagne e compagni, tutte le sfide che ci stanno di fronte saranno vinte, tuttavia, principalmente nella misura in cui noi saremo capaci di rispondere con serenità e credibilità alla crisi di fondo del berlusconismo.
Ho già detto: l’uomo combatterà fino all’ultimo. E prepariamoci a sorprese.
La sua crisi, però, non è occultabile neppure dalle più sofisticate strategie mediatiche. Berlusconi vinse  sulla base di una scommessa, e di una promessa.
Muovere il Paese, farlo crescere, allentando le briglie.
Meno regole. Meno Stato. Meno interventi pubblici e solidarietà.
Più competizione, libertà e ricchezza.
La realtà è sotto gli occhi di tutti.
Il Paese è fermo. Non cresce  e non esporta.
La produttività è in calo. La ricchezza delle famiglie è spaventosamente ridotta.
Ormai anche pezzi consistenti di ceto medio stentano ad arrivare alla fine del mese.
Il lavoro è precario. La flessibilità si è trasformata per tantissimi giovani in un parcheggio infinito, in lavori alienanti, sottopagati, dequalificati.
Aumenta, dunque, l’insicurezza,  l’inquietudine e per i meno protetti la disperazione.
Tutti gli istituti di ricerca parlano di un’Italia stanca, sfilacciata, priva di fiducia nel proprio futuro.
E (soprattutto questo chiama in causa noi, la sinistra democratica) di un’Italia dove negli ultimi anni è aumentato enormemente il divario tra la crescita dei profitti e quella dei salari.
Dal ’95 al 2002 nella distribuzione del PIL, il lavoro dipendente è sceso dal 42,6% al 41,4%; mentre i profitti sono saliti dal 22% al 27%.
Ma questi profitti non  sono stati impiegati per rendere più competitivo  e internazionale il nostro assetto industriale. Né hanno finanziato ricerca ed innovazione. 
Spesso, invece,  sono stati bruciati in operazioni finanziarie e speculative, fino agli esempi clamorosi di Cirio e Parmalat. Che altro non sono che le punte dell’iceberg di un capitalismo malato, incapace da solo di rinnovarsi, di scegliere le strade giuste, di prepararsi alle sfide mondiali che ci stanno dinnanzi.
Ha fatto bene, quindi, prima di tutto la CGIL, a  resistere alle ripetute ondate conservatrici, opportunistiche, povere culturalmente. Che di fronte ad ogni difficoltà ripetono la filastrocca del peso del costo del lavoro e della flessibilità.
In questo quadro la lotta sull’articolo 18, al di là del suo valore concreto e di merito, è stata il simbolo-baluardo per una lettura politica della realtà italiana più onesta e veritiera.
In un bel documento promosso dal cosiddetto gruppo dei 26 si riassume bene il tema. “Gli anni ’90 -recita il documento- ci lasciano in eredità due problemi difficili: cattiva distribuzione del reddito e perdita di competitività. Sciogliere questo intreccio è una prova più complicata dell’ingresso nell’Euro, è urgente pensare a nuove politiche pubbliche e operare scelte attraverso una rinnovata politica industriale.” E’ proprio così.
E nulla di tutto questo saranno in grado di fare gli ultimi saldi di un berlusconismo arrogante e un po’ disperato e che in ogni modo – come dicevo- cerca di rimanere in sella.
I passaggi difficili di una nazione si affrontano, infatti, rinsaldandone  l’unità, l’autorevolezza e promuovendo la giustizia sociale. L’autorevolezza italiana in Europa sta a pezzi, dopo quattro anni di antieuropeismo strisciante del governo e il ripetersi di episodi gravi o vergognosamente ridicoli. Fino alle ultime performances di Buttiglione, che tanto severo con l’Islam nel pretendere una divisione tra fanatismo religioso e politica, scambia  poi invece la Commissione europea e un programma di governo con i suoi personali convincimenti religiosi e atti di fede.
Per non parlare dello scasso istituzionale di cui Berlusconi è protagonista, la disinvoltura che dimostra sulle regole, che può piacere ai cow-boys texani o a Putin. Ma che non lo rende certo autorevole agli occhi delle grandi democrazie europee.
Così come per la giustizia sociale. Ho percepito una certa nostra timidezza  rispetto al cosiddetto taglio delle tasse.
Di sicuro vale l’argomento che non ci sono coperture certe. Che complessivamente le tasse non sono diminuite. Che ci sono altre priorità. Ma l’argomento vero, eclatante, che suscita perfino qualche disgusto, sta nella semplice lettura delle tabelline dei tagli, con la loro progressione rispetto ai redditi. I ricchissimi risparmiano moltissimo, i ricchi molto, i benestanti abbastanza, mentre la grande massa di lavoratori dipendenti – scontando anche la partita di giro dei recenti aumenti delle tariffe dei servizi domestici o di quelli conseguenti ai tagli imposti ai comuni- avrà dei benefici insignificanti. 
E questo in un Paese in cui il divario tra la paga dei supermanager e quella di un lavoratore medio, balza dalle trenta volte tanto del 1970 fino alle mille volte di più come si rileva nel 2000.
Dunque sotto la patina di una ripresa di attivismo di Berlusconi, se si scava, resta sul tappeto tutto intero il fallimento di una classe dirigente non all’altezza. Che ha tentato di far coincidere i suoi interessi, anche personali, con una politica confusa di destrutturazione e populismo. E che in verità ci lascia un paese impaurito, chiuso, che si arrocca. Che pensa di sopravvivere, 
come dicono quelli della Lega, con i dazi doganali e le impronte agli immigrati.
***
Care compagne e compagni, se la destra ha fatto questo ed è stata questo, noi dobbiamo fare ed essere il contrario. Noi dobbiamo, innanzitutto, dare al Paese  sicurezza, in un quadro di giustizia sociale. Dobbiamo ricostruire una fiducia e un nuovo patto di cittadinanza.
Quindi salvaguardare i redditi in sofferenza, ripartire dalle persone in carne ed ossa, costruire reti di reinserimento intelligenti e produttive per chi sta in mobilità, dare più diritti e certezza al lavoro giovanile.
E poi dovremmo garantire alcuni diritti di base a tutti. Con un messaggio semplice. L’ho già detto altre volte.
Alcuni servizi non si barattano, non si condizionano, non si tagliano per ragioni di bilancio o di cassa. Sanità e scuola. Un governo democratico serio deve assicurare, senza se e senza ma, che ogni bambino abbia la sua scuola e che ogni malato avrà il suo ospedale. Ma dopo aver rassicurato il Paese, un governo democratico deve anche dargli serenità e fiducia in sé stesso e stimolarlo a camminare con le proprie gambe. L’Italia è ricca di creatività, di voglia di fare, di intelligenze e di capitale umano.  
E deve riprendere a muoversi, deve ritrovare l’emulazione e la scommessa sul futuro, la voglia di intraprendere e di lavorare.
E tuttavia, un buon governo riformista dovrebbe ben vedere quanti impedimenti ci sono per chi vuole rimettersi in moto in un’Italia che appare un paese ingabbiato.
E allora il tema, non è tanto pensare a grandi programmi dirigistici. Quanto, intanto, con determinazione e coraggio, togliere gli ostacoli e liberare il Paese.
Liberarlo da una pubblica amministrazione pesante, farraginosa ed ancora non efficiente. Da mercati ingessati, perché dominati dai monopoli. Da corporazioni professionali. Da un mercato del lavoro e da un sistema previdenziale, che chiudono le porte al futuro dei giovani. Da un sistema fiscale che premia la ricchezza. Da un sistema degli appalti poco aperto, che favorisce i contenziosi piuttosto che la qualità delle opere.
E’ evidente che se l’Italia si libera e riprende un cammino, occorrono binari solidi per farla procedere. Occorre mettere mano con investimenti pubblici a quella armatura moderna di infrastrutture, di formazione, di ricerca, di protezione dell’ambiente, che tanto ci manca rispetto agli altri paesi europei. E senza la quale andrebbe inesorabilmente perduta anche la straordinaria opportunità che i mercati globalizzati basati sulla conoscenza, l’immagine, la comunicazione, danno a  quello speciale prodotto d’ingegno e di creatività che è il marchio del made in Italy.
Il riformismo italiano dovrebbe, dunque, spingere in questa direzione. Sicurezza attraverso la giustizia sociale. Innovazione e cambiamento, attraverso la fiducia. E apertura all’Europa e al mondo. Perché questo, ormai è lo scenario entro il quale si definisce il nostro destino.
Tutti questi potrebbero apparire obiettivi modesti. A me appaiono una
rivoluzione per l’Italia.
***
Mettere in campo un programma è essenziale.
E tuttavia, a nessuno sfugge un disorientamento più profondo della società, un distacco dalle passioni, una solitudine che da fatto individuale si sta trasformando in malattia sociale.
Veltroni, l’ha chiamata una nuova domanda di senso, alla quale occorre rispondere. E’ così.
A me pare, ci sia una difficoltà della politica a ritrovare la sua funzione essenziale: coordinare gli esseri umani per un fine collettivo, superiore. Per non lasciarli solo ai loro bisogni immediati e primari.
Probabilmente questa difficoltà è connaturata alla modernità, al dominio della tecnica, alla sua straordinaria capacità di innovazione spaesante per le moltitudini che non la governano.
Probabilmente lo scenario così ampio della globalizzazione, spinge tante  persone nei recinti più protettivi del localismo, dell’interesse privato, dell’egoismo.
Fatto sta che nel massimo momento di bisogno della politica (di questa positiva, laica, razionale dimensione umana) vale a dire dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine di tanta vecchia ideologia e di contrapposizioni paralizzanti, c’è stata una transizione  troppo incerta e contraddittoria.
E l’Europa della politica è stata troppo in disparte.
Invece di rinascere a nuova vita, è apparsa stanca, esaurita, spremuta, troppo silenziosa.
E questa assenza ha pesato molto.
Vedete: sull’Iraq è stato detto tutto.
Sull’aspetto politico inquietante e sulle gravi conseguenze future di una guerra ingiusta, dannosa, inutile.
Si può riflettere, anzi, su come spesso il merito lo faccia la forza e la storia i vincitori.
Perché tutti siamo contenti, ed è giusto, che Saddam, e  i terroristi, siedano sul banco degli imputati come criminali di guerra. Ma i buoni non sono certo quelli che hanno fatto una guerra illegale, bombardato i civili, ucciso i bambini, torturato i prigionieri.
Ma, oltre a questo, ecco la questione: l’Iraq è il punto più drammaticamente alto, a fronte della complessità del mondo di oggi, di scacco della politica. E di affermazione della pura forza nel suo carattere più ottuso e unilaterale.
Certo, su questa linea Bush ha rivinto le elezioni americane. Ma non sono affatto sicuro che questa sua sia una vittoria dell’America nel mondo. Un rafforzamento della sua egemonia. Né che sia, viceversa, l’accelerazione di una crisi. La globalizzazione porta con sé, infatti, nuovi conflitti e nuove ingiustizie. Ma anche una cosa molto pericolosa per i paesi ricchi e prepotenti: la conoscenza e la comunicazione rapida e planetaria.
I ragazzi del Bangladesh, dell’India, dell’Indonesia conoscono attraverso le immagini, come si vive nell’Occidente opulento. Sognano consumi, livelli di vita, opportunità simili alle nostre.
E i sogni e le speranze, si sa, non si fermano con le bombe.
E’ un flusso inarrestabile, di esseri umani, fino ad ora esclusi dal palcoscenico della storia. Che trovano anche nuovi stati simbolo a  rappresentarli come a Cancun: l’India, la Cina, il Brasile di Lula, il Sudafrica. Tutto ciò invoca un nuovo ordine mondiale. Berlinguer avrebbe detto: un governo mondiale, in grado di favorire nuovi livelli di democrazia, di giustizia, di crescita ambientalmente compatibile. Che è tutto il contrario di gendarmi egoisti, difensori protezionistici dei loro modelli sociali. Giudicati teoricamente come i  migliori, ma che loro per primi sanno essere inesportabili: pena il collasso economico, sociale, ecologico del pianeta. Temi efficacemente ed utilmente al centro della mozione ecologista.
E’ in questo passaggio cruciale di civiltà, dove le parole politica ed egemonia, paiono essere sostituite da forza e comando unilaterale, che si apre un enorme spazio per noi, per l’Europa, per una funzione democratica di altissimo profilo.
E’ in gioco una funzione storica che può dare a milioni di giovani, se assunta con coraggio, creatività e passione, il senso di un ruolo e di un protagonismo utile e intenso.
Il salto è obbligato se non vogliamo essere schiacciati tra l’Islam integralista e l’estremismo conservatore di un Occidente impaurito ed egoista. Le premesse ci sono: le nuove generazioni viaggiano in Europa senza passaporto, usano la stessa moneta, si appassionano per la stessa musica, lo stesso cinema, gli stessi libri.
Questa coscienza diffusa e questa novità esistenziale può diventare spinta politica, per costruire un’Europa coraggiosa e unita, in grado di trovare nelle sue radici migliori, nella sua cultura, nel suo modello sociale avanzato, la forza e l’orgoglio di tornare a fare una grande politica.
E’ tutto l’opposto dell’Europa fiacca e chiusa che vuole la destra. Di quell’Europa divisa al suo interno, con Berlusconi che fa la gara a chi è il più amico tra gli amici degli americani.
Ma è un’idea anche diversa dall’Europa giardino, serena e felice, che si accontenta un po’ opportunisticamente del suo benessere, sotto l’ombrello americano, e dice qualche no per non sporcarsi troppo le mani e salvarsi la coscienza.
Lo so. E’ difficile.
L’Europa dal dopoguerra si è dedicata alla sua crescita, al suo sviluppo, ai suoi compromessi sociali e nazionali. Ha delegato ad altri la grande politica.
Ma l’Europa deve chiudere definitivamente con questa fase e con l’altro secolo. Uscire dalla sua minorità. Riprendere autonomia, di potere e di strategia politica. Non in chiave antiamericana. Ma dicendo la sua sul mondo, in modo libero, propositivo, multipolare.
E’ la stretta che abbiamo di fronte che ce lo impone.
Certo ciò comporta anche la disponibilità a cambiare un po’ se stessi. Tuttavia non è affatto una prospettiva di penuria. Soprattutto per l’Italia. Il mondo nuovo che cammina, non ha bisogno di bombe, ma di innovazione sì; e di servizi avanzati, di ricerca, di qualità e di creatività non riproducibile nei prodotti, di università. Sono terreni per noi, di una pacifica nuova competizione, potenzialmente vincente sui mercati che si aprono.
E poi il mondo nuovo che cammina vorrà visitare sempre più Parigi, Londra, Roma, Venezia, Firenze. Con quello che può significare per le nostre economie e il nostro turismo: prepariamoci ad accoglierli, invece di costruire nuovi muri
sulla spinta del razzismo e della diffidenza.
***
Vedete, care compagne e compagni,
in questo scenario, sempre a proposito delle domande di senso, a scavare solo un po’ si  ritrova anche il nucleo più autentico della politica della sinistra: che sta in quel lavoro incessante di  riequilibrio dei rapporti di forza tra chi sta sotto e chi sta sopra.
Noi siamo nati per questo.
E se qualcuno ci domanda: serve ancora la sinistra?
Non rispondo con i libri dell’800.
Ma con i dati del 2000: un miliardo e duecentomila persone vivono con meno di un dollaro al giorno, e tre miliardi vivono con meno di due dollari al giorno.
E il rapporto dello United Nations Development Programme (UNDP) dice che occorrerebbero circa 44 miliardi di dollari l’anno- meno del 4% della ricchezza globale delle 225 persone più ricche del mondo- per assicurare a tutti gli abitanti del pianeta l’istruzione di base, la sanità di base, la salute riproduttiva per le donne, una alimentazione sufficiente, l’acqua potabile e i servizi igienici.
Ma tutto ciò non sembra essere una priorità dei paesi ricchi. Eppure sappiamo che se qualcuno vive sopra le sue possibilità economiche, in barba agli squilibri che questo comporta per il sistema-mondo, qualcun altro dovrà pagarne il conto.
Sappiamo anche che il riequilibrio delle forze non può avvenire una volta per tutte. Non c’è un’ora X.
Quando nel passato si è pensato questo e si sono praticate le politiche giacobine e onnipotenti, sono nate  nuove tragedie, oppressioni e crimini.
Il riequilibrio è un processo. La politica deve mantenere la misura di se stessa e non debordare. Deve essere sobria e contenere i contrappesi in grado di farle svolgere quel ruolo essenziale di coordinamento della società e di strumento di mobilità sociale per la giustizia. Senza mai soffocare, ma anzi stimolando la
libertà della società civile e di tutti gli esseri umani.
***
Ma che cos’è questo, se non il riformismo? La fiducia in una pratica costante, rigorosa, aperta e flessibile di cambiamento e miglioramento della società.
Come abbiamo visto il passaggio di civiltà che ci sta di fronte, e che coinvolge anche l’Italia, richiede questo, se non vogliamo un futuro con nuove guerre, conflitti e povertà.
Vedete, è all’altezza di questi pensieri che io ho inteso anche l’appassionato appello di Prodi ad unire di più i diversi affluenti del riformismo italiano, che per ragioni storiche hanno camminato in solchi così innaturalmente lontani.
Certo c’è l’esigenza di costruire un baricentro di un’alleanza di centro-sinistra che giustamente si allarga. Lo abbiamo detto.
Ma c’è, anche, l’esigenza di una innovazione politico-culturale che scaturisca da un lavoro e una ricerca comune di forze, culture, uomini e donne oggi separati in diversi partiti. Ma che in tutti, dico tutti, i paesi europei stanno insieme. In Inghilterra nel partito di Blair. In Germania in quello di Schroeder. In Spagna in quello di Zapatero. L’anomalia siamo noi. Non loro.
So bene che pensare oggi ad un partito unico, sarebbe irrealistico, e allo stato dei fatti perfino poco comprensibile e sbagliato.
E infatti nessuno lo propone.
Ma lavorare insieme per costruire uno spazio di pratica politica comune, nel quale si avvicinano e si intrecciano esperienze, idee, gruppi dirigenti dei diversi riformismi italiani, non solo non è sbagliato: è utile e urgente.
Per questa via si vuole liquidare il Partito?
Non credo si possa pensare questo di Fassino che in pochi anni ha rafforzato e rilanciato politicamente i DS.
Il punto è un altro. Rafforzare i DS: ma  per che cosa? Per quale politica?
Noi siamo nati nell’89, per federare, per allargare il campo delle forze, per andare oltre una tradizione.
Ed è con questa politica di unità e di servizio per la società italiana, che    siamo tornati ad essere vincenti ed  autorevoli.
La Federazione, dunque, non deve essere intesa come una alleanza tattica politicista. Ne verrebbero fuori solo svantaggi. Incidenti, furbizie e squilibri politici. Come abbiamo purtroppo visto in queste ore. Ma essa deve essere intesa invece come un esperimento di unità più alta e generosa in grado semmai di arricchire e rinnovare il riformismo italiano.
E quanto ciò sia importante, nello scenario italiano, europeo e mondiale ho
cercato di dirlo nel corso di tutta la mia relazione.
***
Care compagne e compagni, lasciar cadere proprio a Roma e nel Lazio, questa ambizione di una unità più avanzata, sarebbe stato davvero un errore imperdonabile e un controsenso politico. Proprio da noi, infatti, si è sviluppata una riflessione anticipatrice e coraggiosa, in particolare in numerosi convegni che hanno influenzato il dibattito nazionale come quello con Bettini, Veltroni e Giovanna Melandri.
Ecco perché considero la scelta di presentare, qui, nella nostra Regione una lista unitaria dell’Ulivo alle prossime elezioni, la conseguenza naturale della storia dei DS di Roma, e del significato che hanno avuto ed hanno per noi le presenze di Gasbarra e di Veltroni.
E’ tutta una impostazione di servizio, di passione unitaria, di apertura alla società che trova uno sbocco concreto e decisivo.
Sottopongo, formalmente, questa decisione al Congresso.
Sottolineando anche il modo e il dibattito con i quali ad essa si è arrivati e  che questo esperimento a Roma avrà un peso in tutto il Paese e sarà la verifica più rilevante di una ipotesi politica. Essa va affrontata, quindi, a partire dalla formazione della lista, con attenzione straordinaria da parte di tutti i gruppi dirigenti dei partiti nazionali e va sviluppata con regole di comportamento e con grande accortezza di direzione in tutto il suo dispiegarsi.
Ma così come sarebbe stato un errore far cadere questa possibilità unitaria tra i partiti dell’Ulivo, permettetemi di dire sarebbe un errore ancora più grave non cogliere tutte le potenzialità civiche della candidatura di Marrazzo.
Dirà Marrazzo, se e come fare una lista civica.
Io dico solo, che noi abbiamo un candidato potenzialmente popolare, affidabile, e amato anche da quella parte di elettorato meno istruito, meno politicizzato, più anziano e lontano dalla vita istituzionale, che spesso ha votato a destra, o che non ha votato. E poi dico che Storace, che fa finta di essere così sicuro, in verità non piace, per la sua condotta, i suoi modi, la sua cultura, a tanti professionisti, commercianti, imprenditori, i quali tuttavia stenterebbero a votare  direttamente i partiti del centrosinistra e cercano un approdo più neutro per esprimere le proprie idee e il proprio disagio.
E dico, infine, che in tutte le battaglie più importanti tra noi e la destra,  come fu per Rutelli e Veltroni, la spinta civica ha fatto la differenza, tanto che in questi mesi un movimento di dimensione regionale frutto di quelle esperienze
elettorali ha dimostrato di esserci e si è ulteriormente radicato ed esteso.
***
Care compagne e compagni,
abbiamo, dunque, un ottimo candidato e uno schema politico, a mio parere, potenzialmente molto competitivo. Un’alleanza larga. Una lista unitaria che ne può essere il fulcro. E la possibilità di intercettare un voto in bilico e di impegno civile.
Partiamo, così,  assai meglio di Storace.
Che usa, come ha ricordato il compagno Meta, scrivendo al Presidente della Repubblica, il suo potere e le risorse istituzionali per una miliardaria campagna pubblicitaria, in gran parte tesa a coprire il suo fallimento di governo, le divisioni e le  incertezze che covano nei partiti della sua coalizione che davvero poco lo amano. E il fatto che la lista “Storace”  non ha  alcun carattere espansivo ma pesca solo nell’elettorato di destra.
Ora, tuttavia, dobbiamo imprimere una ulteriore svolta alla situazione.
Cominciando ad attivare ciò che ancora manca: una campagna elettorale di massa con in campo tutte, sottolineo tutte, le forze del centrosinistra.
Devono spuntare gazebo, tavolini, volantinaggi, incontri in tutti gli angoli della città.
Con la spiegazione delle ragioni semplici, concrete e chiare del fallimento di Storace e le nostre proposte, e soprattutto quelle del nostro candidato.
Occorre penetrare la cortina fumogena, spessa perché ben finanziata, delle bugie della destra. E devono emergere le nostre alternative di governo, il perché è meglio cambiare, e che cosa vuole fare il centrosinistra alla guida della Pisana.
Non è impossibile.
Nella sanità dilaga l’emergenza. Basta guardare alle file di queste ore nei ricoveri per l’influenza. Sono stati ripristinati i tickets. Premiati i privati. Venduti gli ospedali. Svolte false inaugurazioni. Bloccate le assunzioni e incentivato il precariato.
Così come nei trasporti.
Marrazzo ha rimesso al centro del suo programma il potenziamento del ferro.
In cinque anni Storace non ha aperto nessun nuovo cantiere, nessuna nuova stazione o fermata FS. In un anno di governo la Provincia di Roma ha deciso di investire 52 milioni di euro, più di quanto la Regione ha investito in tutta la legislatura. Sul “nodo di Roma” sono crollati i finanziamenti.
Dal 1996 al 2000 furono di 600 miliardi di vecchie lire, oggi sono scesi a 140.
Si sono  perse tante risorse disponibili per le ferrovie concesse.
Così come  per l’ambiente. Sono stati tagliati 4000 ettari di Parchi Regionali.
Sono stati tolti  poteri  ai Comuni. In tante aree protette si è riaperta la strada della speculazione edilizia.
Marrazzo ha già detto: cancellerà quei tagli, istituirà nuovi parchi: i Prenestini, i Lepini, quello Della Tolfa. Rimetterà al centro della gestione i Comuni.
Sono solo alcuni esempi di due modi alternativi di operare.
Quello di Storace ci consegna una  Regione poco coesa e poco competitiva.
Egli esibisce dati buoni sull’economia.
Peccato che quei dati siano trascinati dall’ottimo performance della  città di Roma, e si abbassano tutti quando vengono sommati  a quelli del resto del Lazio.
Dal 1995 al 2003, infatti,  il PIL  aumenta a Roma del 20,62 con tutto il Lazio si  abbassa al 18,86. I disoccupati dal ’99 al 2003 a Roma diminuiscono del 29%, con tutto il Lazio del 21%.
Insomma, tutto dice che occorre voltare pagina.
Occorre guardare al Lazio, per quello che esso è:una grande regione europea, dei diritti e delle opportunità.
 Una Regione veramente di tutti, nessuno escluso.
***
 Care compagne e compagni, ho concluso,
in questa battaglia ancora una volta ci stiamo spendendo al massimo.
Walter e Goffredo fin dall’inizio hanno accompagnato quotidianamente Marrazzo nella sua avventura, invitando tutti  a superare passaggi politici davvero delicati.
Io e Michele abbiamo condotto il Partito senza interessi di parte a condividere scelte di uomini e politiche che ci sono apparse le più utili per tutta la coalizione e per vincere.
Molti noti e autorevoli compagne e compagni, hanno promosso programmi di iniziative di massa negli ambienti e nel territorio.
Abbiamo deciso di chiedere anche a Nicola con alle spalle l’esperienza straordinaria della campagna elettorale delle europee, di mettersi a disposizione del Comitato Marrazzo, come nostra forza di riferimento.
Bene.
Tuttavia, care compagne e compagni, la nostra sola sicurezza siete ancora una volta voi. Gli iscritti. I militanti. Di questo vitale e creativo partito romano.
Voi siete il grande strumento della lotta e della democrazia di questa città perché ne costituite una delle componenti sociali più avanzate.
E noi questo strumento, in questi anni, abbiamo cercato di curarlo, di migliorarlo, di rafforzarlo con umiltà e pazienza.
Sono aumentati gli iscritti.
Si sono aperte nuove sezioni.
Il bilancio è sostanzialmente risanato.
E’ cresciuta una nuova leva di compagne e compagni, al centro ed in periferia, giovane, colta, ormai esperta, che ha lavorato con passione e alla quale occorre dare fiducia.
In questi anni si sono affermati, in modo inedito, con una pratica politica più solidale e legata ai diversi gangli della società, la presenza e i contenuti delle donne.
E allora.
Da compagno di un’altra generazione che ha solo l’ambizione di essere utile ad un partito dentro il quale è cresciuto fin da ragazzo e al quale sono grato per tutto quello che mi ha dato, ribadisco la mia funzione. Che è quella di traghettare verso il prossimo congresso una nuova classe dirigente per una guida piena e autonoma della Federazione.
Però lasciatemi dire, e ho concluso veramente, che il partito oltre che uno strumento, è una comunità di donne e di uomini che dentro l’animo hanno un fuoco ed un’energia comuni.
I simboli, e i nomi, contano.
Ma conta di più mantenere questo.
Questa nostra comune insopportabilità per le ingiustizie, che è la fonte permanente del nostro stare, camminare e cambiare insieme.E qualsiasi sarà la forma politica che nel futuro sceglieremo come la più adeguata, noi saremo comunque sempre da questa parte della barricata.
E Dio sa, oggi, quanto di questo ci sia bisogno.

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