domenica 21 aprile 2013

Marziano Capella, ritorno all’antica alchimia

ARMANDO TORNO
Marziano Capella, ritorno all’antica alchimia

Tradotto in italiano per la prima volta un testo che influenzò la civiltà del Medioevo
Ilaria Ramelli, con la versione delle "Nozze di Filologia e Mercurio", ha compiuto un’impresa considerata finora impossibile
Il libro di Marziano Capella, "Le nozze di Filologia e Mercurio" è edito da Bompiani, collana "Il pensiero occidentale" diretta da Giovanni Reale, pagine 1.288, lire 64.000
Occorre recarsi a Piacenza, uscire dalla città e superare il fiume Trebbia, l’affluente di destra del Po. Oggi le cronache si interessano di questo corso d’acqua che nasce sull’Appennino ligure a causa dei lavori nel suo alveo (qualcuno ha parlato di disastro ambientale). Ma la memoria e quel che resta del paesaggio richiamano alla mente antiche gesta che in questi luoghi si consumarono. Sulle rive del Trebbia, durante la Seconda guerra punica, Annibale battè i romani e nel 1799 gli austro-russi, comandati dal generale Suvorov, sconfissero i francesi. Ed è qui che occorre ritornare per incontrare la persona che per prima ha tradotto uno dei libri-chiave del sapere medievale, Le nozze di Filologia e Mercurio di Marziano Capella.
Diremo subito che si chiama Ilaria Ramelli. Ha ventisette anni. Il viso, se lo osservate attentamente, si direbbe tolto grazie a un sortilegio da un quadro rinascimentale; per questo vi sembra di averlo già visto. Quando cominciate a conversare con lei, vi accorgete che Ilaria è nata davvero nel Rinascimento e poi è capitata nel nostro secolo per ironia della sorte. Conosce una ventina di lingue. Di alcune, soprattutto se antiche, cerca anche di spiegare le ragioni di questa sua familiarità, quasi dovesse scusarsi.
Sa l’armeno, l’aramaico, il siriaco, il persiano, il paleoslavo ("è molto utile - sussurra - per i testi sacri"), il copto. Latino, greco ed ebraico entrano nei suoi discorsi come degli strumenti necessari, scontati; anzi sembra quasi voglia dirvi: "come si fa a studiare senza?". Parla, legge e scrive le principali lingue moderne. Ha due lauree, un dottorato di ricerca. Quasi arrossisce nel ricordare che all’università, durante gli studi di lettere classiche, finì in due anni e mezzo gli esami richiesti e poi attese il tempo necessario per laurearsi sostenendo prove di altre materie. Sorride. Precisa, comunque, che non si annoiava.
Ilaria ha tradotto per prima in italiano Marziano Capella. "Le piace?", farfuglio ingenuamente, nascondendo il fatto che quell’opera era uno dei sogni della mia gioventù. "Me l’hanno chiesto e non ho saputo rifiutare", è stata la laconica risposta. Le chiedo allora cosa altro ha tradotto. "Seneca (le tragedie e operette minori), Caio Rufo Musonio, uno stoico romano del I secolo della nostra era; inoltre sto terminando Diogene Laerzio, la fonte più importante per conoscere la filosofia antica. Tra l’altro, l’Università Complutense di Madrid sta per pubblicarmi la mia versione, dal siriaco, del Chronicon di Arbela". Ma i progetti, quello che le è passato tra le mani, ciò che alcuni studiosi si aspettano da lei non riusciamo a elencarlo in questo articolo.
Ilaria soffre di una forma di scoliosi che le impedisce di stare in piedi per un ragionevole lasso di tempo o di fare un viaggio che non sia di poche ore. Ogni momento pubblico l’ha guadagnato con l’aiuto di forti farmaci antidolorifici. Scrive sdraiata a pancia in giù, a letto, con due computer. Nonostante i titoli accademici, l'insegnamento sarebbe per lei un mestiere impossibile. I suoi rapporti con l’università sono sempre stati regolati da visite brevi. Ma mentre scriviamo queste righe ci accorgiamo che ha vissuto il tempo concessoci dalla vita come poche altre persone e che, come pochissimi, non ne ha perso nemmeno un attimo. La conversazione con Ilaria è un privilegio. Si può chiederle, senza alcun problema, delle corruzioni entrate nella lingua filosofica greca durante la decadenza; oppure ci si può soffermare sul lessico dei profeti, sulle differenze tra Abacuc e Osea o su un termine che odora di persiano e che è scivolato in Qohelet e, di conseguenza, fa spostare la data di composizione.
Di più. Parlando di Marziano Capella, si può discutere con lei delle idee che questo testo ha conservato della logica degli stoici, o dei voli pindarici che l’antico autore tenta intorno alla numerologia; si può domandarle se vi ha notato un’influenza di Nicomaco di Gerasa, il pitagorico che deve aver turbato non poche notti a Sant’Agostino. È delizioso sentirla parlare della lingua di Marziano. "È contorto, utilizza espressioni peregrine, ha una ricerca esasperata dei termini". Mentre proferisce questi giudizi, ci sovviene quanto scrisse Willis, il curatore dell’edizione Teubner del testo latino: Marziano è difficile, da tradurre quasi impossibile.
Eppure Marziano c’è. Con il testo latino a fronte, con centinaia di pagine di note ("Guardi, mi sono soprattutto avvalsa dei commenti di Remigio di Auxerre e di Giovanni Scoto Erugena", bisbiglia arrossendo Ilaria), con i suoi viaggi teologici della prima parte (restano importanti le pagine sugli dèi etruschi); con l’ultimo libro, il nono, dedicato alla musica; con la sua mappa delle arti liberali per cui fu adorato nel Medioevo.
Quest’opera fu un vero culto per chi si occupava di alchimia (innegabile il fatto che il Mercurio di Marziano assomigli molto a Ermete Trismegisto) e resta il punto di partenza per accostarsi alla dissoluzione del sapere antico. Ma chi era questo autore difficile con così tante doti? Di lui sappiamo poco o nulla. Visse tra il IV e il V secolo d.C., era originario di Cartagine e pagano, di orientamento prevalentemente neoplatonico, fece l’avvocato nell’Africa romana per sostentarsi. Ma su di lui si scrissero migliaia di pagine, a cominciare dagli anni seguenti la sua scomparsa.
Il grande volume di Marziano è lo specchio in cui, guardando, si scopre che la vita di Ilaria appartiene a un mondo simile a quello di Alice, che ormai ignoriamo e a cui nessuna televisione dedicherà mai un servizio; quelle 1.300 pagine dimostrano troppe cose e rovesciano tanti luoghi comuni. Aprendole ci accorgiamo che è stato isolato un passo del primo libro: "Tutti i membri del senato celeste aggiunsero che da allora in poi fossero assunti nel novero degli dèi i mortali che l’insigne elevatezza di vita e il sommo culmine dei grandi meriti avessero elevato al desiderio del cielo e al proposito di tendere alle stelle".
Semplicemente aggiungiamo: "Crede in Dio, Ilaria?". La risposta non si fa attendere: "Sì, ho molta fede. Vedo il suo intervento costantemente. Quello che ci capita è progettato in due, da Lui e da noi".

http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010726.htm

Nessun commento:

Posta un commento