domenica 21 aprile 2013

BUDDHA La via del saggio che cambiò l'uomo

FRANCO MARCOALDI
BUDDHA  La via del saggio che cambiò l'uomo

    Il suo insegnamento in un volume dei meridiani
"Paragonata a quella di un dio che accondiscende ad assumere forma umana e muore crocifisso tra due ladri, la storia del principe che lascia il suo palazzo e professa una vita austera è molto più povera". Certo, se ci si limita ai grandi eventi biografici, Jorge Luis Borges ha ragione nell'affermare che la vicenda del Buddha non è comparabile a quella grandiosamente tragica di Cristo. Volendo si potrebbe anche aggiungere che non è trascinante al modo di Maometto. E che non può vantare il profetismo legislativo di Mosè. Figurarsi; Buddha non ci ha neppure provato a trascrivere le Tavole della Legge. Lui voleva risolvere "soltanto" un problema: come uscire dalla catena del dolore,  nelle cui maglie la vita dell'uomo è stretta dalla nascita alla morte. O meglio, da una delle mille possibili nascite a una delle mille possibili morti. In teoria dunque l'approccio dovrebbe risultare più semplice di quanto non accada con gli architetti delle tre grandi religioni del Libro. E invece no.
Perché se in un esercizio il Buddha eccelle, è proprio quello della dissimulazione; del permanente sviamento di chi intenda mettersi sulle sue tracce. Vuoi di quelle esistenziali (avvolte in uno sfumato alone leggendario, e tese a ridurre l'importanza di un' individualità eccezionale, come lo stesso Borges sottolinea); vuoi del suo pensiero, non meno paradossale e inafferrabile. In tal senso, l'occasione offerta dalla pubblicazione de La rivelazione del Buddha (I Meridiani-Classici dello Spirito, Mondadori, pagg. 1.632, lire 95.000; a cura e con un saggio introduttivo di Raniero Gnoli, traduzioni e commento di Claudio CocuzzaRaniero Gnoli e Francesco Sferra) è davvero irripetibile. Nel suo limpidissimo saggio Gnoli ci introduce innanzitutto all'India del 600 a.C., sul finire del periodo vedico. E' in quel paese lacerato da lotte intestine che compaiono due figure capitali: Vardhamana (o Jina, "il vittorioso") e Siddharta (il futuro Buddha, "il risvegliato"). Appartenenti alla casta guerriera, e non a quella sacerdotale, entrambi "rigettano in blocco l'autorità dei Veda, la validità del rito e delle caste". Tanto il buddhismo quanto il giainismo - inseparabili dallo yoga e da precedenti pratiche meditative - si articolano in comunità monacali tese a liberare l'uomo dalle passioni; mutuano la validità dei principi teorici dalla loro concreta applicabilità; e si rivolgono a tutti, non più a discepoli eletti, rigettando perciò stesso il sanscrito, lingua sacra e per pochi. Nel caso del Buddha questo itinerario si lega saldamente ad alcuni capitoli essenziali della sua storia terrena. A cominciare da quello secondo cui, stando alla vulgata leggendaria, il principe Siddharta Gautama - dopo aver vissuto una gioventù dorata, tra mille donne e mollezze d'ogni genere - ebbe la ventura di incontrare la sofferenza sotto le sembianze successive di un malato, un vecchio e un morto.
Bastò questo perché il giovane abbandonasse agi e ricchezze e concentrasse tutte le sue forze sulla soluzione di quell'unico problema: come sradicare il dolore, che a suo dire nasce dalla continua sete dell'Io, sempre destinata alla frustrazione. Proprio per sopprimere questa sete, e quindi rompere la ripetitiva catena illusione-delusione, il Buddha si adoperò esponendo nel sermone di Benares le cosidette "quattro nobili verità" e approntando il "Nobile ottuplice sentiero", fondato su altrettante virtù: retta visione, intenzione, parola, azione... ma soprattutto - direi - retta presenza mentale, retta concentrazione. O meditazione; la quale non ha nulla da spartire con la preghiera, visto che non c'è di mezzo la parola e pertanto nessuna richiesta ad alcuna divinità. La meditazione, semmai, è un esercizio tanto paziente quanto faticoso di osservazione interiore ed esteriore, volto a misurare "impermanenza" e "inconsistenza" del mondo dei sensi: mondo vacuo, perché strutturato da
elementi interdipendenti privi di natura propria. A finire sul banco degli imputati è dunque, in primo luogo, quella minuscola paroletta - "Io" - su cui l'Occidente ha costruito gran parte delle sue fortune e delle sue disgrazie. Paroletta che il Buddha attacca frontalmente, in modo sistematico e razionale, spogliandola dalla sua corazza e svelandone le reali fattezze di aggregato passeggero, di fascio di
percezioni al quale soltanto per ignoranza ci attacchiamo, alimentando così - allo stesso tempo - la più grande delle illusioni e la sorgente di ogni dolore. Quanto al buddhista consapevole, cercherà invece di attingere alla condizione primigenia dell'essere: cominciando da un Io vissuto finalmente per quello che è - occhio che guarda compassionevole, distaccato e pacificato il flusso impersonale delle cose - e finendo, nel caso dei più caparbi e capaci, col raggiungimento del vuoto: indice non
 dell'approdo a un nichilistico niente, ma semmai a uno stato neutro. Alla fine di ogni attaccamento e desiderio.
Fuoriuscita da sé, muta contemplazione, apatia perfetta, suprema felicità. A questo, più o meno, dovrebbe corrispondere quell'impronunciabile nome che, come per Dio, non bisognerebbe pronunciare mai invano: nirvana.
Gnoli e i suoi validissimi collaboratori mi scuseranno se il loro immenso lavoro sui testi della tradizione buddhista (non del Buddha, ché egli non lasciò niente di scritto) viene così rozzamente riassunto per una pagina di giornale. Ma altre vie non vedo per affrontare un pensiero che dapprincipio appare semplicissimo, mentre poi - via via che ci si sprofonda dentro - risulta essere una geniale burla della metafisica, un'errante prestidigitazione della realtà, un saluto di benvenuto nel regno del Vuoto. Bene lo si evince proprio sfogliando questo gigantesco volume. Una nota all'edizione ci ricorda che le prime quattro sezioni dell'antologia comprendono traduzioni dal canone pali dei Theravadin, l'unico pervenutoci nella sua interezza, e ancor oggi fonte di ispirazione per migliaia di buddhisti in tutto il mondo, in particolare nel sud-est asiatico. "I testi sono idealmente ripartiti nelle tre grandi divisioni in cui si struttura il percorso spirituale buddhista: "sila" (morale), "samadhi" (concentrazione o contemplazione) e "panna" (saggezza o discernimento)". Segue la sezione dedicata alla vita del Buddha e da ultimo un testo (Salistambasutra) che fornisce un collegamento ideale tra il buddhismo antico, cui è dedicato questo Meridiano, e le tradizioni del buddhismo del Mahayana, trattata nel prossimo, secondo volume. Se infatti il Buddha non intese fondare una religione (nel suo pensiero non esiste l'idea di un unico dio creatore e sovrano, e tantomeno quelle di dogma e peccato), purtuttavia dopo la sua morte finì per assumere egli stesso le sembianze di una divinità. E la persona del Risvegliato "si
 colorò di tutte le tinte della religione e della devozione", dando vita alle due grandi correnti del Piccolo veicolo (hinayana), più chiuso e monacale, e del Grande veicolo (mahayana), più aperto alle vicende mondane. Del resto, la caratteristica principale di questo pensiero è proprio la sua plasticità, la sua adattabilità alle specifiche condizioni del luogo e delle pregresse tradizioni su cui viene crescendo: chiunque abbia visitato il Nepal, la Birmania o il Tibet avrà potuto toccare con mano quanto diversi siano i "buddhismi" praticati in quei paesi. Resta però sempre, per l'osservatore occidentale, il medesimo senso di fascinazione e straniamento. Come restare indifferenti al mondo, noi che col mondo lottiamo continuamente perché ci riconosca?
Come avventurarci - dopo i mille svelamenti dell'apparente universo dei sensi - nell'unica realtà inqualificata e inqualificabile del vuoto, noi che del vuoto abbiamo terrore e tutt'al più lo rovesciamo in nulla, concetto stellarmente lontano dalla vacuità buddhista? Non sarà mica per caso che lo stesso Dalai Lama continuamente afferma: incontriamoci, dialoghiamo, ma evitiamo facili conversioni; "non si deve mettere la testa di uno yak sul corpo di una pecora". Sarebbe bene che ogni tanto se ne ricordasse anche il crescente e variegato esercito dei simpatizzanti occidentali del buddhismo. Ciò non significa, naturalmente, disconoscere tutti gli elementi di possibile contatto. E prima ancora sottacere il desiderio di far proprie le continue, straordinarie lezioni di quel pensiero: la sua ferrea logica, il modernissimo empirismo, la diffidenza verso ogni sistema metafisico, l'idea di responsabilità individuale, la compassione universale che traspare da ogni singola frase.
Ma visto che Buddha è il primo a rifiutare adesioni fideistiche ("le mie parole, o monaci, debbono essere verificate ed accettate dai savi così come l'oro, che viene riscaldato, spezzettato e provato, non certo per reverenza verso di me"), sarebbe sciocco azzerare le plurimillenarie distanze tra quel mondo e il nostro mondo. Tra la nirvanica vaporizzazione dell'individuo buddhista e l'ipertrofia dell'Io di cui l'Occidente continua ad essere maestro e levatore.
Basti citare, a mo' di esempio conclusivo, la vertiginosa risposta che Siddharta invia indirettamente all'amato genitore quando decide di allontanarsi per sempre dalla casa paterna inoltrandosi nella selva: "Non si affligga per me che ho rinunciato al mondo affine di sottrarmi al dolore; sono invece da compiangere coloro i quali, avidi di godere, concepiscono desideri che sono appunto causa di dolore"

Nessun commento:

Posta un commento