sabato 30 ottobre 2021

Umberto D

 


#VittorioDeSica e il professor #CarloBattisti durante le riprese di "Umberto D." (1952). 


"UMBERTO D.

di Vittorio De Sica

Capolavoro senza tempo, Umberto D. di Vittorio De Sica racconta una moderna solitudine senile inscritta in una geografia umana ridotta ad alienante meccanismo. In dvd per Mustang e CG.

Funzionario ministeriale in pensione rimasto solo al mondo, Umberto Domenico Ferrari vive in una stanza in affitto presso un’antipatica ed equivoca padrona di casa che vuole liberarsi al più presto dello scomodo inquilino. All’uomo sono di conforto solo Maria, servetta di casa di umili origini, e il cagnolino Flaik, inseparabile compagno. Alla ricerca costante del denaro necessario per pagare i debiti, Umberto percorre una strada di schiacciante solitudine, incontrando quasi esclusivamente egoismo e indifferenza… [sinossi]

Sottrazione di spazio fisico, sottrazione di spazio sociale. La nota parabola di Umberto Domenico Ferrari, che il titolo Umberto D. connota spossessato pure della sua completa identità anagrafica e istituzionale, si dipana innanzitutto secondo una progressiva riduzione dello spazio che spetta a ogni individuo in un’ottica di consorzio sociale. Condividere in ambito sociale significa disporre di un proprio spazio in cui esprimersi, riflettere la propria essenza, ed aprirla agli altri nella circolarità dell’esperienza. La trascuratezza istituzionale verso la terza età, avvio narrativo del capolavoro di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, si delinea innanzitutto come concentrazione spaziale e crescente invasione. Sulle prime, gli spazi in cui il protagonista può muoversi sono ridotti a una misera stanza in affitto presso una malmostosa ed equivoca signora. Ma lo spazio fisico e sonoro, già di per sé esiguo, è costantemente disturbato e sollecitato da ingerenze esterne, che premono secondo la logica di un lento e inesorabile stillicidio.

Dalle formiche che la servetta Maria si ostina a far sparire con l’acqua e il fuoco, ai continui andirivieni nell’appartamento di una padrona di casa che non vede l’ora di liberarsi dell’ingombrante anziano, Umberto D. racconta un uomo confinato nel suo cantuccio, che risponde come può alle minacce dell’esterno. È segnatamente nel tappeto sonoro, e ancor più nel suono off, che il film costruisce a poco a poco tale senso di sommessa angoscia, indagata secondo il ben noto pedinamento zavattiniano che stavolta allunga più che mai i suoi tempi narrativi.

Piccole azioni, come il semplice mettersi a letto, costantemente interrotte o rinviate per il sopraggiungere di sempre nuove necessità (il denaro più volte rifiutato dalla padrona di casa) e per incessanti disturbi sonori, dal ripetersi del gorgheggio vocale nella stanza attigua, ai rumori di strada o di persone e cose (il ticchettio dell’orologio da camera), alle voci degli attori di un cinema adiacente, ancora dotato di tetto apribile e semovente.


Dopo un roboante esordio durante una manifestazione pubblica di anziani che reclamano a gran voce l’aumento della loro magra pensione, Umberto D. si chiude lungamente tra le quattro mura di casa, culminando poi nella celebre sequenza del risveglio di Maria, pedinata nelle sue azioni per tempi inusitati nella loro lunghezza. Sta proprio qui probabilmente l’apertura più problematica di Umberto D., a buona ragione considerato uno dei vertici del neorealismo italiano e anche una delle ultime manifestazioni del sentimento neorealistico emerso a cavallo della guerra nel nostro paese. Se l’intento di denuncia resta la premessa e le tecniche narrative adottano ancora il pedinamento e pure l’utilizzo di attori non professionisti (Carlo Battisti era un professore di glottologia all’Università di Firenze; Maria Pia Casilio era alla sua prima prova di attrice), d’altro canto Umberto D. mostra anche una ben consapevole costruzione, perseguita e preordinata, che sfonda costantemente verso modalità estetiche intensamente espressionistiche.

In primo luogo, la scelta delle inquadrature piega spesso verso il primo piano dal forte taglio angolare, talvolta contreplongés che schiacciano le figure verso ben visibili soffitti, altrove effetti prospettici in lunghe fughe esasperate nella profondità di campo. Spesso si tratta di fughe visive che contribuiscono alla dispersione della figura umana nel panorama circostante (l’uscita di Umberto dall’ospedale); altrove sono funzionali alla definizione di uno spazio angosciante nella sua modularità (la corsia d’ospedale, composta di letti in fila tutti perfettamente uguali uno all’altro). Così, una volta sbalzato fuori dalla sua misera abitazione, il protagonista si trova al centro di un concerto di spazi che annullano completamente la sua caratura di individuo, in una sorta di incubo kafkiano affidato al motivo visivo dello spazio iterativo e tautologico. In tal senso non è casuale che dall’ospedale il film si sposti poi al canile, dove con effetto fortemente allegorico la modularità dei letti d’ospedale è replicata nella serialità industriale della soppressione dei cani trovati randagi. A una società che si prodiga ad annullare ogni rispetto per l’individualità in nome dell’efficienza non possono che rispondere meccanismi di pura domanda e risposta in termini strettamente economici. Al disordine del cane abbandonato, elemento di disturbo negli ingranaggi di un mondo fatto di relazioni meccaniche e razionali, fa da eco l’anziano, ormai non più utile e a sua volta passibile di soppressione sociale. Del resto, al momento del ricovero in ospedale emerge a fare da filtro nel frame una ringhiera di ballatoio che copre tutta l’inquadratura sul corpo di Umberto con palese metafora delle sbarre di un carcere – evidente utilizzo espressivo di un oggetto di scena traslato fuori dal suo immediato significato.


Così, l’estrema essenzialità degli strumenti neorealistici, ridotti in Umberto D. alla loro versione più minimale, conduce verso territori di imprevedibile astrazione narrativa. Ne è prova, fin dall’incipit durante la manifestazione, il ricorso a primi piani fortemente stretti intorno ai volti, dove le grida di protesta si disperdono nel contesto sonoro fino a smarrire la propria intelligibilità. Ne sono prova soprattutto le definizioni dei personaggi di contorno, che fatta eccezione per Maria, unica luce di solidarietà nella sua purezza pre-industriale, si configurano tutti come profili di stilizzata disumanità, ridotti a enunciatori meccanici di luoghi comuni costantemente improntati all’egoismo. Spesso tali coordinate espressive trovano una loro precisa enfasi in trucco e acconciature. Basti pensare all’aspetto fisico della proterva padrona di casa, che come suggerisce Gianni Canova negli extra non sembra nemmeno uscita dal cinema coevo bensì direttamente dai telefoni bianchi d’epoca fascista. O ai due gestori della pensione per cani, la cui miseria tramutata in cupidigia è enfatizzata dai volti mostruosi, di nuovo schiacciati entro i confini del frame. O alla stilizzata bambinaia incontrata al parco in prefinale, che snocciola risentita i soliti due o tre luoghi comuni sulla scomodità dei cani per casa. Tale tendenza a modalità espressionistiche si colora poi di cupo grottesco nello stratagemma del rosario, attuato da Umberto in ospedale su suggerimento di un vicino di letto per perpetuare la sua degenza.

Ovunque, pure nella gestione pragmatica del sacro, emerge insomma una società “del meccanismo”, della risposta automatica (se chiedi il rosario e lo reciti compiacendo una suora, rimani in ospedale), che soprattutto passa attraverso la domanda/risposta del denaro. Fin dalle prime battute Umberto si trova a caccia di denaro, incontrando anche squarci di assurdo – il mendicante che spende tutti i soldi raccolti nella giornata per comprarsi il prezioso orologio, e rimettersi subito dopo a mendicare.


L’annullamento dello spazio dell’individuo, negato da un mondo fatto solo di automatismi ai quali soggiacere fino all’espulsione per sopraggiunta inutilità, trova poi il suo culmine nell’ultimo rientro a casa di Umberto, con la scoperta della voragine nella parete della sua stanza, atto finale di un’espropriazione spaziale che ha scandito i tempi di un reiterato tentativo di furto di dignità. Poco dopo, Umberto D. si scatena in una vampata espressionistica e melodrammatica, decisamente lontana dal sommesso fluire dei tentativi di mettersi a letto che caratterizza tutta la prima parte del film: quell’enfatica soggettiva che dalla finestra si avvicina drammaticamente (e “irrealisticamente”, con piena adesione alla soggettività del personaggio) alle rotaie in strada, momento della scoperta per Umberto della possibilità del suicidio, prolessi di un’ultima sezione di racconto che si tramuta ancora in pedinamento, quasi insostenibile nei suoi tempi dilatati, della pianificazione di un’uscita di scena dalla vita.

Umberto D. riduce anche, e non secondariamente, lo spazio della parola. Per lunghi tratti, specie nella prima parte, i dialoghi sono ridotti al minimo, e come dicevamo i rappresentanti del mondo ostile al protagonista ricorrono spesso a formule, che in quanto tali comprendono in sé la negazione di qualsiasi specificità comunicativa. Vi è in tal senso un’altra sequenza fortemente indicativa: l’incontro in strada col commendatore, che per anni ha diviso i tempi del lavoro con Umberto. Tra i due scende un silenzio umiliante; fuori dal sistema produttivo che hanno lungamente condiviso i due sono perfetti estranei, incapaci di accordare uno all’altro l’atto minimo di umano riconoscimento insito nella parola stessa.

Più avanti, pur procedendo ancora col passo del dignitoso e umanistico pedinamento, Umberto D. accende le sue tendenze espressionistiche verso un appassionato melodramma, al quale è praticamente impossibile non restare avvinti. Niente è più scopertamente melodrammatico di un cagnolino che in modo implicito salva la vita al suo padrone. In altre occasioni e in altre mani (basterebbero forse le mani stesse di De Sica di una decina d’anni dopo), tale materiale si sarebbe tramutato in strumento oltremisura ricattatorio. In Umberto D. invece quel finale è l’unico possibile, il finale ritrovamento dell’umano dopo un calvario di disumanità, che trova un momento di inarrivabile efficacia drammatica nel corpo di Umberto squassato dal vento al passaggio del treno.


In tal senso è forse risolvibile anche la questione molto dibattuta del commento musicale in ambito neorealistico, spesso considerato inadeguato e fuori registro rispetto al rigore del visivo. È innegabile infatti che anche in Umberto D. (e forse qui più che altrove) la partitura di Alessandro Cicognini, abituale collaboratore di Vittorio De Sica, sfrutti tutte le risorse possibili del coinvolgimento emotivo specie nel suo tema principale. Oltretutto il commento musicale, che alterna sonorità anche molto diverse (vedi il sottile commento al risveglio di Maria, altro motivo spesso ritornante nella partitura del film), è praticamente ininterrotto, con qualche effetto di invadenza e ridondanza. Tuttavia non è da ritenere che il neorealismo, specie quello desichiano, non sapesse liberarsi dalle convenzioni estetiche in ambito musicale. Piuttosto il roboante commento di Cicognini concorre a un progetto di stilizzazione espressiva che da un lato asciuga gli elementi di messinscena, dall’altro proprio in virtù di tale estrema stilizzazione si apre alla distorsione espressionistica. In mezzo, il melodramma, che già in sé contiene del resto forti segni di distorsione ed enfasi. Per cui tutto si tiene, inestricabilmente e necessariamente. Come accade con puntualità nei più indubitabili capolavori."


Fonte: articolo di Massimiliano Schiavoni su Quinlan pubblicato il 28/09/2018.

Link diretto alla fonte contenente l'articolo: https://quinlan.it/2018/09/28/umberto-d/


Che ne pensate? Dopo "felliniano" abbiamo anche l'aggettivo "desichiano"... :)


Fonte foto: Pinterest

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