Al centro della scena permangono sempre le armi. Nei discorsi ufficiali e nelle parole di circostanza dei rappresentanti di governo, la pace è evocata come bene supremo da preservare, ma i fatti storici continuano a dimostrare che lo strumento per costruire la pace continua ad essere bellico e militare, dove il sistema impone la corsa agli armamenti come nel caso di Grecia e Libia, con l’uso spregiudicato della psicosi dell’accerchiamento, ossia l’opportuna costruzione del pericolo, più mitico che reale, di un vicino forte e bene armato che garantisca un enorme beneficio all’industria militare, perché diffonde il timore di un conflitto potenziale: questo il grande affare delle armi, dove le spese militari dei governi sono giustificate dalla creazione del nemico e del casus belli.
Nei dibattiti e nei confronti con le posizioni cosiddette “pacifiste”, molti governanti si dichiarano contrari alle armi e alla violenza, ma i fatti dimostrano che lo strumento bellico e militare è il più utilizzato per cercare soluzioni alle complicate situazioni di conflitto internazionale. Il business legale delle armi rappresenta un affare di Stato che non avverte crisi: è una macchina capace di divorare a livello mondiale migliaia di miliardi di dollari ogni anno. La costruzione di un nemico esterno da agguantare e distruggere si ripete, anche per distogliere l’attenzione da altri problemi più importanti e reali. Le moderne democrazie non hanno certo perso il vizio della psicosi dell’accerchiamento, del nemico e del casus belli.
Nell’era della comunicazione di massa e dell’informazione istantanea, il vizio dell’invenzione del nemico è diventato ancora più sistematico e raffinato: “giocare alla guerra” è il sistema migliore per dissimulare e affrontare questioni scomode, oltre che a rimettere in moto la grande macchina della distruzione e l’enorme sistema di interessi economici soggiacenti alla ricostruzione. Gli Stati Uniti in testa nel finanziare il settore della difesa e poi le nuove potenze militari, dove le armi vivono una crisi molto apparente più che reale, considerando i tagli incompiuti agli armamenti dell’Italia, affare colossale per un pugno di aziende tra cui Finmeccanica, il colosso italiano, una delle più grandi produttrici di armi, un settore troppo ingente e poderoso per fallire, nell’intreccio tra potere, profitto e politica, dove lo stato è sempre cliente ed azionista e la forza politica è sempre al servizio del mercato, tramite la spinta irresistibile del capitale, perché in realtà si ripudia la guerra solo a parole e non nei fatti, basti pensare ai tanto famigerati F-35, i cosiddetti caccia dello spreco, aerei per gli alleati degli Stati Uniti, nelle mani di Washington.
La produzione di F-35 è giustificata dal becero inganno iperliberista e dal famigerato ricatto capitalista delle ricadute occupazionali, mentre si aprono sempre nuovi scenari di guerra, perché raccontare le armi significa narrare i conflitti, in epopee di sillogismi di sangue e di mercato, mentre l’Africa brucia, dopo la primavera araba: la Liberia insanguinata di Charles Taylor, il dramma del Darfur, i postumi della guerra in Libia. La guerra presenta sempre lo scotto di gravissimi costi umani ed economici, dove i diritti degli uomini e delle donne vengono violati, calpestati, l’infanzia negata, i civili sotto tiro, sempre, mentre la disoccupazione dilaga, nell’abdicazione dei governi e degli Stati come garanti della sovranità popolare.
Laura Tussi
“Fecero il deserto e lo chiamarono pace” Tacito
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