mercoledì 20 marzo 2024

LAJOS DETARI

 



Si presentò a Bologna con toni soft. Scese dalla Porsche bianca decappottabile, si tolse il caschetto di cuoio, allentò la sciarpetta di cashmere con un gesto molto cinematografico, guardò con l'occhio a mezz'asta i giornalisti che lo stavano aspettando a Casteldebole e predicò: "tu guarda in mio piede, in mio piede ci cantano gli uccelli." Lajos Detari aveva il talento pari alla boria. Era cresciuto a Budapest, stellina più luminosa di quella scuola magiara che negli anni Ottanta tentava, senza riuscirci, di tornare ai fasti del dopoguerra. Aveva fatto soldi in Germania e Grecia, a Bologna ci arrivò nel pieno di una carriera storta, scialacquata tra dribbling non riusciti e stravaganze da genio incompreso. "Amico, quando io tocco pallone, quella è musica che tu non hai mai sentito". L'abbiamo detto, era un tipo modesto. Un giorno, al Celeste di Messina, sbaglia un gol impossibile da sbagliare. Cos'hai combinato, Lajos? "L'ho fatto apposta." Scusa? L'aveva sbagliato apposta e se ne vantava. "Quando io voglio sbagliare un gol, beh, io lo sbaglio." Il presidente Gnudi liquidò la faccenda: "Non sa quello che dice, ha una testa piccola così." Giocava se ne aveva voglia, altrimenti zampettava per il campo: sistemarsi il ciuffo poteva portargli via anche cinque minuti. Doveva andare alla Juve, venne bocciato dall'avvocato Agnelli: "Non vale la metà di Platini." In Italia giocò con Bologna, Ancona e Genoa: pochi lampi di classe e molte pause da baby pensionato. Negli anni il burino della via Paal ingrigì la classe ed aumentò il parco auto: ad Ancona arrivò a sei. Ogni volta si presentava con una nuova fuoriserie, tronfio dell'orgoglio di chi è nato povero e misura la vita dal portafoglio: se ne andò senza voltarsi indietro, agli uccelli che cantavano nel suo piede era passata la voglia.

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