domenica 21 aprile 2013

Una madre del Novecento


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Racconto di Pier Luigi Baglioni

Premessa

Mia madre morì nel pomeriggio il primo lunedì di un caldo
agosto dell’anno 2000 mentre il mondo era in vacanza. Aveva attraversato, dal
1908 in poi, 92 anni, tutto il secolo Novecento. Col nuovo millennio era felice di
averci messo il piedino dentro, cosa che probabilmente aveva sperato senza mai
crederci se non nella vecchiaia. Il nuovo secolo, che coincideva col nuovo millennio
lo vide poco, sei mesi soltanto. D’altronde quei tempi le erano perfettamente
estranei, vivendo proiettata nei ricordi, belli e brutti, del suo tormentato passato,
cosciente d’avere avuto un percorso di vita esplicativo del secolo appena passato.
L’ultimo secolo del secondo millennio vissuto, pure anonima e oscura, da
protagonista della sua ‘storia’. Ci teneva che essa non si disperdesse nel grande
calderone dell’oblio, ed a noi figli, io e mia sorella Edi, raccontava spesso le vicende
affrontate quasi a volercele stampare nella memoria. Quando mia figlia Marcella
fu grande, le sue attenzioni biografiche si rivolsero a lei. Ma non potendo
soddisfarle come voleva (i giovani sono distratti, hanno altri interessi), le scrisse
molti appunti ‘per raccontare alla mia nipotina la mia vita’ (stranamente non
aveva simile impulso col maschietto, così come mio padre non ebbe mai alcuna
voglia di parlare del suo avventuroso passato).
Questo racconto nasce da quegli appunti, che, per tragica fatalità Marcella non
potrà leggere. Ella ci ha lasciati prematuramente, prima che potessi consegnarle le
note che avevo in consegna per trasmettergliele ‘in età matura’. Esse, quindi,
sarebbero rimaste per sempre nella loro busta chiusa, dimenticate e poi disperse,
se non mi fossero capitate improvvisamente nelle mani riassettando la dispensa
ricettacolo di conservazione del superfluo e dell’inutile che, però, non vogliamo
disfarci. Marcella, figlia mia, ho scritto ogni riga di questa storia vera, pensando a
te con amore.

Testamento spirituale mai letto dalla ‘nipotina’

Nel decennio di fine Novecento, il suo secolo, mia madre Erminia ma chiamata
comunemente Emile (ed in tarda età Nonna Meme), viveva sola, sana ed
autosufficiente, nel suo appartamento. Anche qui, un altro gruppo lo aveva dato a
me anni fa, tra le bollette pagate della luce e del gas , ho trovato delle pagine d’una
vecchia agenda ove ella aveva raccolto note e ricordi della sua vita, tanto la sua
esistenza doveva apparirle straordinaria, se paragonata alle amiche campagnole
della sua adolescenza che non si erano mai spostate oltre i confini di qualche
limitrofo campanile della Valle D’Elsa. Tanto straordinaria da farle scrivere, come
preambolo alla “il mio desiderio è che credano a ciò che ho fatto” invece che “alla
mia nipotina voglio raccontare la mia vita…” con cui apriva le note a mie mani
scritte su pagine a quadretti di un blocco notes (mia madre non aveva neppure la
quinta elementare, frequentando solo i primi tre mesi del primo anno; ma non era
affatto analfabeta, anzi, in vecchiaia quando vivendo sola disponeva di tempo se la
tirava da poetessa e assidua lettrice di romanzi.
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Il primo gruppo di ricordi lo ha scritto dieci anni prima del secondo dedicato alla
nipote. Si legge sulla busta: “ho 81 anni di vita e ora mi viene la voglia di scrivere il
mio passato”. Ho fuso in uno i due gruppi, senza variare virgola eliminando
soltanto le sovrapposizioni, prendendo di esse lo sviluppo più esteso, si da ottenere
una descrizione delle memorie più completa. A tale fine ho intercalato anche dei
miei commenti integrativi. Inoltre, poiché Mamma rapporta sempre ogni episodio
menzionato alla sua età anagrafica, mai alla data del calendario; in base al suo
anno di nascita, il 1908, ho inquadrato io i fatti negli anni in cui sono avvenuti.
“Babbo si chiamava Settimo perché era il settimo di nove figli. In più era nato
settimino. Per codeste due coincidenze il vicinato, quando fu grande, gli attribuì
delle proprietà di guaritore. Le famiglie sparse nei cascinali dei poderi lo
chiamavano per ogni febbre o malore e lui doveva andare, anche di notte, come
fosse stato il medico condotto. Volevano le sue cure anche per le ferite durante il
lavoro dei campi, punture di insetti o morsi di altri animali. Egli si scherniva,
diceva che non era vero avesse proprietà taumaturgiche; ma poi per aiutare la
gente in difficoltà dava i suoi pareri basati sul buonsenso, su tisane di erbe
imparate dalla tradizione contadina, elementi primordiali della medicina che
conosceva per sentito dire e spesso per intuizione. Fatto sta che come uno sciamano
indiano rincuorava i pazienti, forse li suggestionava; comunque le sue visite
avevano il più delle volte esiti positivi (d’altronde le ‘malattie’ che affrontava
erano influenze, raffreddori; indigestioni, intossicazioni o infezioni epidermiche…
che sarebbero certamente guarite anche da sole con un naturale riguardo.
Quando la moglie lo brontolava per le sue premure, spesso neppure ricompensate
con un fisco di vino, Papà le rispondeva: ‘non posso rifiutare. Loro ci credono e la
mia presenza li tranquillizza, soffrono meno e guariscono prima.” Per aiutarli,
insieme alle garze pulite la vinaccia o l’alcool di uva per disinfettare, faceva anche
un po’ di scena; benediceva le ferite con una medaglietta della madonna, poggiava
un santino sulla pancia… lui che era ateo, e materialista. In quei primi anni del
secolo ‘900 la gente delle profonde campagne era molto superstiziosa.
Generalmente analfabeta, affidavano piena fiducia a chi ne sapesse un po’ di più di
loro. D’altronde il paese era lontano otto dieci chilometri, niente per oggi, una
distanza immane per chi aveva solo le gambe come mezzo di locomozione”.
“Mia madre era cresciuta nei corridoi della fattoria, ad aiutare le cameriere. Era
venuta su diversa dalle figlie dei contadini che invece aiutavano la famiglia nel
lavoro dei campi. Si chiamava Santina e in Villa aveva imparato a cucire,
rammendare e ricamare. Anche lei la chiamavano per farle girare giacche e
cappotti, tagliare e cucire gonnelle. Era anc he bella, di fattezze delicate, signorili.
In un fazzoletto di terra il falegname e la sartina, così simili tra loro e diversi dagli
altri, non potevano non sposarsi”.
“Avevo 11 anni, mio fratello Renato 9, quando babbo morì” (era il 1920,
aggiungo). “Faceva il falegname per le necessità della Fattoria, ma nel laboratorio
imbastiva mobili come un artista di pregio. Credenze in noce, tavoli di quercia;
sedie di frassino… Univa le varie parti con incastri a coda di rondine così precisi
che destavano il compiacimento generale” scrive sottacendo la causa del decesso
dovuto ad una malattia contratta al fronte della Prima Guerra Mondiale per avere
egli bevuto l’acqua inquinata delle pozzanghere in trincea. “Rimasta vedova,
l’anno dopo si ammalò anche mia madre che venne portata in ospedale e non tornò
mai più. Io e mio fratello Renato restammo soli nella casa di Meleto”.
Qui la reticenza è pietosa, perché in effetti l’ospedale era il manicomio di
Fucecchio.
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Meleto

“Il nostro posto era una collina, con un grande castello di nobili feudatari,
marchesi i vecchi e duchi i giovani” nel frangente a Meleto la dinastia orbitava
attorno al Duca Don Josè Canevaro. “Poche le persone del nucleo padronale, ma
tantissimi i loro servitori”. In tutto erano 17 nuclei familiari che vivevano in case
sparse attorno al Castello, o meglio ‘ Villa’ come veniva comunemente chiamato.
La piccola comunità popolava il dorso di una collina posta tra il fiume Elsa ed il
paese di Castelnovo. Intorno poderi lavorati dai mezzadri, e boschi a bandite di
caccia. Dalla pianura saliva alla Villa un lungo diritto viale fiancheggiato da una
doppia riga di alti cipressi. Esso era chiuso da stanghe perché dovevano
percorrerlo soltanto i nobili padroni. I contadini coi loro carri di buoi, le teste
frangiate di nastrini rossi; ed i carretti, o calessi dei famigli, c’era la strada
sterrata a serpentone che intersecava il viale in alcuni punti anche essi
rigorosamente chiusi da stanga e lucchetto. “Era un sogno” scrive mia madre, ed io
che ci ho vissuto da sfollato negli anni della seconda guerra mondiale (dalla fine del
1943 all’inizi del 1945) posso confermarlo. “I Signori venivano solo l’estate,
talvolta d’inverno per grandi cacciate o per delle feste in Villa. Allora era una
invasione di macchine di ogni marca e dimensione, con autisti in livrea. Oppure
cavalli e cavalieri se nobili del circondario. Le strade attorno al Castello si
popolavano di grandi dame con delle pellicce di animali rari e fogge incredibili. In
quei due tre giorni, finché duravano cacce o festeggiamenti, alle nostre famiglie era
proibito farsi vedere, circolare in strada anche se loro avevano i viali privati.
Dovevamo non esistere, ma come fantasmi curiosavamo dalle fessure delle gelosie,
contenti –nell’animo- che i ‘padroni’ si divertissero (contenti loro, contenti tutti)”.
In Villa, oltre alle stanze, camere e grandi saloni, dei proprietari, era ubicata anche
la Fattoria con gli alloggi del ‘fattore’ (l’amministratore fiduciario del tutto) e la
stretta servitù dei cuochi, camerieri, autisti e inservienti non compresi nelle
diciassette famiglie esterne che erano preposte alle attività artigiane di quella
micro cellula economica autosufficiente (giardiniere e ortolano, guardiacaccia,
falegname –che era il mio nonno materno mai conosciuto-, stalliere ecc…). Il parco
della Villa, secondo la nobile arte del giardinaggio all’italiana, era magnifico e
molto rinomato. Fontane e statue, viali aiuole fiorite e prati popolati di pavoni lo
rendevano incantevole. Il Duca lo iscriveva a concorsi nazionali, e la giuria di
esperti venuti da fuori, gli assegnò sovente il primo premio. “Inutile dire che per
noi bambini esso era tabù. Ma quando i signori stavano nel Palazzo di Firenze, e la
fattoria viveva di vita propria, allora il giardiniere chiudeva un occhio se vedeva
intrufolarci ad ammirare le ruote dei pavoni, o i guizzi dei pesci rossi”.
Nel bosco, che prendeva tutta la costa nord della collina di fronte, i carbonai
tagliavano i rami che accatastavano con precisione nelle radure per farli bruciare
senza fiamma in maniera che si trasformassero in carbonella. I campi erano tenuti
in maniera impeccabile dai mezzadri. Delimitati in lunghi rettangoli di terra
circoscritta da filari di vigne, i cui tralci stavano appesi ai fili di ferro sostenuti da
intelaiature fatte coi tondi rami di pioppo, albero che faceva da confine tra un
campo e l’altro. Ai lati uva da tavola e da vino, bianca e nera, chicchi grossi e
chicchi piccoli. La terra coltivata a mais, grano, girasoli, carciofi… Sparse nella
tenuta le cascine dei mezzadri, piccoli mondi a se stanti, con il cane legato alla
catena davanti alla porta, l’aia, il pagliaio, il deposito dello stallatico per la
fermentazione onde usarlo dopo l’aratura per la concimazione della terra. Non si
buttava via nulla, ogni cosa veniva utilizzata.
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Solo nell’officina del fabbro ferraio, ferratura dei cavalli e riparazione degli
attrezzi agricoli, che pareva l’antro di Vulcano nera di fuliggine, col mantice, la
forgia ed il carbone coke sempre acceso; aveva rugginose cataste di rottami e
lamiere che parevano abbandonate.
“Quando i signori stavano nei loro sontuosi palazzi di Firenze, a noi bambini
ritornava la nostra libertà. Ed era molto bello circolare sena timore nei viali, nei
campi da gioco della ‘pallonaia’ dove c’era anche la piscina (vuota) e i campi da
tennis chiusi da altissime reti metalliche pitturate di verde. Fermarsi davanti alle
voliere piene di uccelli rari. Bere alle fontane, riposare seduti ai tavoli sparsi nel
parco, coi guardiani tolleranti purchè non si toccassero i fiori, e non si
disturbassero gli animali. In questa oasi ero felicemente arrivata a sette anni,
quando nel 1915 scoppiò la guerra.”

La Prima Guerra Mondiale

“Venne la prima guerra mondiale, nella mia casa cambiò tutto. Mio padre Settimo
venne richiamato e partì militare. Mia madre, donna sensibile, fragile e delicata;
soffri molto di restare sola con noi due bambini da tirare su. Il fratellino Renato
era stato colpito l’anno precedente dalla paralisi infantile alla gamba destra, e non
camminava. I vicini di casa gli avevano costruito un recinto chiuso, palizzata col
pavimento in tavole di legno, per farlo stare al sole ed alleviare l’impegno materno.
Scelta indovinata perché strascinandosi dentro aveva piano piano riacquistato
l’uso dell’arto anche se era rimasto più corto e secco dell’altra gamba normale
tanto che zoppicò per tutta la sua vita. Si sgomentava molto, anche se le vicine di
casa facevano a gara nel sollevarla ed aiutarla. D’altronde era l’unica che nel
circondario sapesse leggere e scrivere. Così divenne la scrivana naturale di Meleto,
ricevendo tutte le moglie dei soldati in guerra che volevano mandare lettere ai
mariti o farsi leggere quelle arrivate. In quegli anni i figli di contadini in località
remote come la nostra nessuno andava a scuola. Poiché bisognava fare tanta strada
a piedi ci mandavano soltanto i ragazzi grandi e pochi di loro continuavano la
frequentazione appena appreso l’abbecedario. La scuola più vicina a Meleto era a
Calstelnuovo sul cocuzzolo della collina di fronte alla nostra. Tre o quattro
chilometri di strada in mezzo ai campi da fare a piedi, quando d’inverno
specialmente, era tutta una fanghiglia. Renato per lo stato della gamba paralitica
non ci provò neppure; io smisi dopo alcuni mesi.
In quegli anni di guerra, tra donne vecchi e bambini rimasti, il tempo passava nella
miseria e nella tristezza. Giorno dopo giorno ogni famiglia aspettava la lettera dal
fronte; non si parlava d’altro che delle notizie che ognuno riceveva. Fra tutte la
mia famiglia fu la più colpita perché un giorno giunse a mia madre una lettera del
Regio Esercito in cui la informavano che il marito era molto ammalato e lo
avrebbero rimandato a casa (sottinteso ‘a morire’). Difatti tempo dopo giunse alla
Fattoria una camionetta militare della Croce Rossa che trasportava una barella
con mio padre assistito da due giovani soldati. Non ho mai dimenticato il terreo
pallore del suo volto. Lo deposero nel letto matrimoniale di casa e ripartirono
lasciandolo alle cure del dottore della mutua assistenza, della nostra famiglia.
Questi chiese un consulto facendo venire un professore da Firenze che pagammo
dopo una colletta. Io non mi muovevo mai dal suo capezzale. Anche mamma lo
assisteva con amore, insieme a amici e parenti. Finita al guerra si era ripreso se
non di salute almeno di morale. Il suo letto alla sera era come un cenacolo di
socialisti. Gli portavano il giornale per commentare quanto succedeva nel paese; il
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fascismo, la divisione dei comunisti da loro… Ricordo che ogni sera ripeteva la
solita frase: -Mi dispiace di morire perché vorrei vedere come va a finire-.
La situazione non gli era chiara ed intuiva che sarebbe volta al peggio. I suoi sforzi
gli valsero tre anni di vita tra letto e poltrona. Un mattino mia madre stava in
cucina ad impastare il pane, il fratellino nel recinto, mentre io stavo dietro la sua
poltrona col pettine nei suoi capelli. Lo pettinavo leggermente in continuazione
perché diceva che sentire la mia mano infantile passare tra i suoi capelli gli
attenuava i dolori laceranti che lo affliggevano da mane a sera. Mori così, mentre
io gli tenevo la testa. Mi accorsi che si era impietrito e girai sul davanti per
guardarlo bene. Mi resi conto che papà ci aveva lasciati. Allora andai in cucina;
mia madre aveva finito di impastare. Le bianche pagnotte stavano sulla tavola,
coperte da un telo umido, in attesa di raggiungere il forno. Lei aveva ancora tutte
le mani infarinate. Mi gettai tra le sue braccia cingendola al collo riuscendo a dirlo
soltanto: “Mamma non piangere. Vedi che anche io non piango? Non bisogna
spaventare Renato, è ancora troppo piccolo…”. Cadde in terra svenuta. Allora mi
misi a gridare e dalle scale salirono i vicini che poi chiamarono anche altri amici e
parenti”.
Era il 1921, mia madre aveva –come ho detto- dodici anni, ed il fratellino sette. Il
trauma fu tremendo ma ebbe effetti diversi nelle due donne; in un momento la
bimba divenne adulta e l’adulta ritornò bambina. Ma così racconta lei stessa quei
momenti:
“La morte di mio padre mi diede tanta voglia di vivere. Mi fece sentire sola e
ristretta in quella campagna isolata, fuori dal mondo. Ebbi una gran voglia di
evadere ma sapevo di non poter ottenere nulla di tutto questo. Ero molto carina,
ambiziosa, ma avevo soltanto la prima elementare. Senza istruzione mi sentivo
come un uccellino senza le ali. Mamma da quel momento cambiò completamente il
suo modo di vivere. Si vestì tutta di nero. Metteva il fazzoletto in testa come le
suore, e non usciva più di casa. Fece in modo che nessuno venisse più a trovarla
così poteva pregare tutto il giorno inginocchiandosi al fondo del letto.
Pur passando ore e ore in quella maniera a me e Renato non ci trascurava. Ci
teneva puliti, e ci faceva da mangiare impastando frittelle di latte farina e uova.
Però lei non mangiava mai. Mi diceva che preferiva pranzare per conto suo, prima
di noi, per accudirci meglio. In effetti dimagrendo a vista d’occhio, era divenuta
pelle e ossa. Non poteva resistere, e difatti un mattino non riusciva a scendere dal
letto. L’aiutai ma non si reggeva in piedi. Cadde svenuta sbattendo a terra come
un legno. Chiamai gente, la portarono all’ospedale e da quel momento non tornò
mai più a casa”.

Orfani

“Deceduto il padre, scomparsa nel nulla la madre restammo soli io e Renato a 12 e
10 anni, orfani a tutti gli effetti”. Così racconta scarnamente quando accadde, le
cose che cambiarono radicalmente da un giorno all’altro la loro vita: “Venne
chiusa la nostra casa di Meleto perché i parenti più prossimi, i fratelli di mi padre,
abitavano alla Fontanella una borgata lungo la statale parallela al fiume Elsa nel
fondo valle. Gli zii avevano un appartamentino con solo due camere da letto e la
cucina che comprendeva anche il bagno (un piccolo riquadro nell’angolo con la
botola per i bisogni corporali), di cui la stanza più grande era l’andito, l’ingresso
sulla strada chiuso dal portone; che fungeva anche da ripostiglio generale. Anzi
proprio l’androne era la stanza più frequentata e indispensabile. Lì avveniva tutto:
le due ragazze grandi bollivano l’acqua e la cenere nei mastelli per il bucato;
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ricamavano, stiravano, facevano la calza. Nessuno di noi andava a scuola. La terza
elementare era il limite normale di frequentazione.
Dei due miei zii che l’abitavano, i fratelli del mio povero babbo Settimo, uno era
scapolo, senza ombra di donne nella sua vita, che divenne il nostro tutore. L’altro
era sposato con prole, le tre femmine nostre cugine . Si chiamavano Fernanda di 20
anni, Ida di 18, e Dina, la più piccola, di 12. Più un maschio Dino di 16 anni. La
casa ospitava anche la loro nonna, molto vecchia, 86 anni, alla quale mi affezionai
più che a tutti gli altri. Col nostro arrivo, la casa già satura di otto persone, si
riempì ancora di più arrivando a dieci. Alla notte noi dormivamo in una unica
camera con tre letti. In uno di questi, io e Renato, insieme alla nonna ultra
ottantenne. La zia si ritrovò a governare da sola tutta questa masnada, facendo
buon viso a cattivo gioco, ma capii subito che non era affatto contenta della
situazione anche se lo dimostrava soltanto a me. Per fortuna in quella casa non
c’era miseria. I due uomini lavoravano nella Fattoria di Meleto, partivano presto
al mattino e tornavano la sera. Il compito dei ragazzi e dei bambini era di accudire
al grande orto sul retro della casa. Il nostro tempo libero era impiegato a girare i
campi a fare l’erba per i conigli tagliandola dai cigli dei fossati. Si annaffiava la
verdura dell’orto poi si andava a raccogliere legna. Dopo pranzo si doveva no fare
i lavori di casa. La zia voleva che tutti i giorni pulissimo bene le camere prima di
rifare i letti; spazzare le scale, riordinare la cucina. Dalla fertile terra dell’orto che
prendeva lo spazio dal retro della casa all’argine del fiume Elsa si produceva vino,
olio, patate, pomodori; insalata. Anche la frutta colta da un albero per qualità:
fico, ciliegio, melo, albicocco e due, invece, di prugne verdi molto dolci e succose.
Certo la quantità non era tanta, non si portava nulla di certo al mercato, ma
bastava alle nostre bocche. E poi c’erano le stie di conigli e galline…”.
Dalla descrizione si ha la sensazione che in sostanza, materialmente, la comunità
famigliare allargata stesse bene; non mancasse di nulla. Era lo spirito, il morale,
che non andava affatto bene. Feriva la sua sensibilità l’ostentato sacrificio della
zia, falso, che lei non pesava affatto sulla loro economia dando un contributo
maggiore di quanto non prendesse. Pesavano le differenze che faceva tra i suoi figli
e i due nipoti acquistati. Passando il tempo era divenuta sempre più severa specie
col fratello, rimproverandogli come una colpa la paralisi alla gamba. Pretendeva
camminasse come gli altri bambini, facendola soffrire molto quando sentiva da
una stanza all’altra quegli ingiusti rimbrotti.
Racconta così quel brutto periodo: “Passai due anni tremendi che mi fecero
invecchiare come una donna matura. Ero molto infelice; la notte dormivo poco
pensando sempre ai miei genitori. Abbracciavo la vecchia nonna e piangevamo
tutte e due. Sognavo di tornare in casa nostra ma quando lo accennavo, la zia che
si diceva ‘sacrificata’ si opponeva fermamente con la scusa che eravamo troppo
piccoli. A quindici anni io ero già una donna; mi sentivo responsabile. Anche
Renato era sviluppato e si era irrobustito. La vita nei campi era stata la miglior
ginnastica per la riabilitazione dalla paralisi. Ora camminava quasi normale,
claudicando in maniere impercettibile. Un giorno chiesi alla zie di visitare la casa
di Meleto. Ella acconsentì ma volle che mi accompagnassero le cugine grandi.
Quando entrammo vidi uno spettacolo terrificante rispetto alla memoria che ne
avevo. I topi avevano fatto una strage, e scappavano in tutte le direzioni. I letti
erano rosicchiati, nei cassetti le loro nere cacche parevano lava di vulcano. In due
anni, poiché nessuno li disturbava, si erano moltiplicati e avevano invaso tutto
l’appartamento che noi avevamo lasciato intatto come quando lo abitavamo.
Tornai a Fontanella decisa di riprendere la mia casa, la mia vita.
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Non sopportavo più di fare la Cenerentola e volevo rimettere a posto, in omaggio a
Settimo e Santina i miei cari genitori, la nostra casa di Meleto. Dissi a Renato:
‘Lassù in Fattoria abbiamo tanti amici… Io continuerò il lavoro di sarta come la
mamma… Vedrai non moriremo di fame’. Prendemmo le nostre poche misere cose
e tornammo nella casa sulla collina nel caseggiato sopra il fabbro ferraio. La prima
settimana la cugina più grande venne ad aiutarmi a pulire. Lenzuola, coperte,
asciugamani; tutto il corredo matrimoniale di mamma era rosicchiato dai topi e lo
vendemmo al prezzo degli stracci. Una stupenda biancheria, vestiti da uomo e da
donna, rovinati, finirono dallo stracciaiolo per un nulla. I soldi per iniziare da soli,
preparandoci a fare qualcosa, a guadagnarci da vivere”.
Fu meno terribile di come si possa immaginare. Renato che fin da piccolo aiutava il
padre nella falegnameria, aveva appreso bene quel mestiere. Fu assunto dal
Fattore e portò a casa la prima ‘paga’ sotto forma di sacchi di grano. Quando i
contadini andavano al molino a fare macinare il loro, portavano anche quello
‘degli orfani’ e almeno il pane era assicurato. Ma ci voleva ben altro per la
sussistenza. La comunità intorno alla Villa dei Canevaro era composta di 17
famiglie. Poi c’erano le famiglie dei contadini sparse nei poderi, ancora quattro o
cinque. Ella ebbe una idea che risultò una bella trovata:
“Visitai tutte codeste famiglie e sinceramente alle mamme mi offrii di tenere a
bada in casa mia i loro bambini piccoli in cambio di cibo. Tutte furono contente
della proposta: il giorno dopo arrivarono ognuna con lo sgabello da una mano e
dall’altra i bimbi, che andavano dai tre ai sei anni (quelli più grandi già
lavoravano in campagna o accudivano ai maiali, le pecore, qualcuno la
capretta…). Mi ritrovai ad avere in casa un asilo ed io a fare la maestra! Non
sapevo nulla di aritmetica, appena conoscevo l’alfabeto… insegnando a loro
imparai anche io. Per due anni continuai questo lavoro senza conoscere un giorno
di festa. Erano bambini di campagna, calmi, tranquilli; non mi davano alcuna
preoccupazione. L’inverno accendevamo il fuoco sul grande camino e li tenevo al
caldo; l’estate stavamo sotto gli alberi dei viali. Le mamme si trovavano bene e li
portavano anche sotto i temporali. Ogni piccolo e piccola aveva la sua roba da
mangiare, mentre in un cesto veniva raccolta la roba per me. Non mi mancava
nulla: fagioli, patate, carciofi; e olio e frutta. Talvolta un coniglio, un pollo, un
piccione. Quando ammazzavano il maiale per me abbondavano le salsicce e i
salumi. Quanto avanzava veniva mia cugina a prenderlo per rivenderlo a
Fontanella. Con quei soldi potevo comprarmi scarpe e vestiti per me e mio fratello.
Passai dalla infelicità alla più grande soddisfazione. Ero orgogliosa di me, e mi
rendeva così il fatto che in giro si parlasse bene dei piccoli ‘orfani’ e con
ammirazione. Per guadagnarmi quella reputazione cercavo di fare tutto al meglio
di quanto potevo”.

Il matrimonio

A sedici anni Erminia si era formata come una vera signorina. Di conseguenza
ebbe i primi corteggiatori. Così continua il suo racconto: “Io come tutte le
ragazzine sognavo il principe azzurro. Però il sogno restava una cosa molto intima.
Esteriormente doveva apparire che i giovanotti erano fuori dai nostri interessi,
altrimenti si passava per ‘civette’ se non addirittura ragazze poco serie. Nei sessi
c’era separazione, le compagnie erano omogenee tra maschi e femmine poiché per
una signorina stare insieme ai ragazzi era una vergogna. Al passeggio i gruppi si
incrociavano perché camminavano in senso contrario proprio per vedersi in volto.
Gli amori nascevano dagli sguardi; se qualcuno piaceva si prendevano delle cotte
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bell’e buone. Silenziose, se ne accorgevano solo gli interessati dalle occhiate
corrisposte. In certi casi l’amore diveniva evidente a tutti dal rossore delle guance
ad ogni incrociarsi. L’approccio aveva uno schema quasi fisso; il giovanotto
fermava la ragazza quando si staccava dalle amiche con una scusa (e questo era un
segno) e diceva la frase classica: ‘Signorina, permette una parola?’ oppure ‘… la
posso accompagnare?’. Le più timide si schernivano un po’ per non sembrare
troppo facili, ma la tenera amicizia, se c’era corresponsione, era fatta. Dopo i
ragazzi professavano le loro intenzioni, ‘serie’ naturalmente. Dicevano il lavoro
che facevano, quanto guadagnavano, se potevano mantenere la famiglia o quando
lo avrebbero potuto. L’approccio per i figli dei contadini era più difficile perché
alle ragazze non piaceva lavora re la terra, abitare in cascina con la dura vita che
comportava; quindi se potevano non avrebbero sposato un contadino”.
Mia madre conobbe mio padre non in circostanze come quelle da lei raccontate.
Gastone, come si chiamava, faceva il garzone libero di un forno a Castelfiorentino.
Al mattino presto riempiva due cestini fissati davanti e dietro alla bicicletta di
pagnottelle, il ‘pane dei signori’, e girava le campagne a venderlo nelle case di
campagna. Le massaie, che in Emilia le chiamano resdore, facevano il pane in casa
una volta la settimana. Impastavano nelle ‘madie’ la farina col ‘lievito di birra’ al
venerdì per essere pronte a infornare il sabato mattina. La vigilia componevano su
lunghe tavole i pani in forme di perfette ellissi del peso di due chili ognuna.
Dovendo bastare per tutta la settimana, i pani erano squisiti appena sfornati, e la
domenica. Nei primi giorni era ancora soffice, e buono, ma dopo diveniva piuttosto
duro. Il pane delle panetterie, i ‘semelli’ del fornaio venduti sotto casa, venivano
considerati un lusso a cui però indulgevano volentieri. C’erano allo strutto, alla
salvia, al rosmarino oltre a quelli normali. Sotto le feste quelli con le noci. Ma
lascio parlare Erminia:
“Gastone arrivava con la sua bicicletta e gridava sotto le finestre: ‘Donne c’è il
semellaio… venite a prendere il pane fresco!’ Quasi tutti scendevamo dalle case –
anche per rompere la monotonia- e acquistavamo un paio di panini. Appena lo
incontrai la prima volta, egli teneva il manubrio della bicicletta stando tra le due
ceste di vimini che profumavano di forno, aveva la camicia linda bianca col colletto
e i polsini inamidati, rasato, col ciuffo di riccioli sulla fronte ed i capelli lunghi sul
collo come un capellone prima del tempo; ebbi il ‘colpo di fulmine’. Mi innamorai
subito di lui. Aveva gli occhi grigi, cangianti, più felini che umani. Anch’io feci
colpo su di lui che non si aspettava in quell’angolo sperduto della campagna di
incontrare una signorina elegante, signorile se non raffinata. Di mattino in mattino
fu evidente che ci piacevamo. Tuttavia alle sue richieste non diedi nessun seguito”.
Erminia voleva fare le cose per bene, senza fretta. Vivendo sola si sentiva
vulnerabile, pertanto usava maggiore prudenza di una ragazza di famiglia.
Gastone era ancora giovane, doveva anche fare il servizio militare. Ella vincolò la
relazione al ritorno, dopo averlo effettuato:
“Quando finì la ‘leva’ e tornò a casa eravamo già fidanzati. Egli mi aveva scritto di
continuo ed io gli avevo sempre risposto. Mi scriveva delle belle lettere d’amore,
ispirate o addirittura copiate dal Segretario Galante. Nei primi mesi gli rispondevo
in termini amicali firmando prima del nome ‘con sincera amicizia’. Alla fine mi
sciolsi di più e la firma divenne: ‘la tua fidanzata che ti vuole tanto bene’ “.
Il matrimonio era nell’aria, ella intuiva che quello sarebbe stato l’esito certo della
relazione. Cominciò a sentirsi grande e volle predisporre le cose in maniera da
agevolarsi la vita futura: “Consegnai con tante grazie tutti i ragazzini alle loro
mamme e presi un’altra decisione: fare la sarta di mestiere. Un po’ conoscevo
l’arte del taglio e del cucito ma non era sufficiente per servire una clientela
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estranea se non esigente. Per due mesi andai a fare l’aiutante d’una sarta della
Fontanella e poi mi misi in proprio. La macchina da cucire ce l’avevo già
lasciatami da mia mamma Santina. Bastò fare il giro delle mamme che mi davano i
loro figli in custodia per informarle ‘che ora a Meleto c’era anche la sarta’ per
avere i primi vestiti da cucire. Quelle donne invece dei bambini mi affidavano le
loro stoffe, comprate e pagate. Mi accorsi che l’impegno se non la responsabilità
erano maggiori e l’esito più difficoltoso. I primi tempi furono duri e più d’una
volta, tornando male le ‘prove’ bagnavo di lacrime gli scampoli.
L’orgoglio, la volontà, e la tenacia infine prevalsero. Col passaparola (ero
certamente la sarta più economica della piazza) le clienti aumentarono e così ce la
feci anche questa volta. Gastone dopo il militare aveva ripreso il suo lavoro di
‘semellaio’ itinerante; tra tutti e due le entrate erano buone, potevamo mettere su
casa. D’altronde eravamo molto innamorati l’una dell’altro, era stupido
attendere… (prima non si andava al di la dei baci e delle effusioni). Io appagavo la
mia vanità di fidanzata: ‘Tu sei fornaio, ma io sono sarta… anche io guadagno’.
Ci sposammo nel terribile inverno freddo del 1929. Viaggio di nozze a Pisa che non
terminammo per i geloni che ci tormentavano”.
La casa di Meleto venne nuovamente chiusa. Erminia aveva 20 anni e Renato, 18.
Dire che il fratello fosse felice del suo matrimonio sarebbe una inutile bugia. La
gelosia naturale di vedersi soppiantato negli affetti giocò la sua parte. Tuttavia
Renato seguì la sorella in silenzio andando ad abitare nella nuova casa degli sposi a
Castelfiorentino (sobbarcandosi il sacrificio di fare il pendolare giornaliero della
Fattoria di meleto ove continuava il suo lavoro di falegname). Ma almeno la cosa
giovò alla casa che stavolta non venne lasciata in balia dei topi. Renato la sentiva
sua; sapeva che quando anche lui si sarebbe sposato, lì sarebbe andato ad abitare.
Pertanto non passava giorno che non ci facesse visita, preparasse qualche
mobiletto, la migliorasse mantenendola in ordine sentendola come la ‘sua’ vera
casa non quella della sorella in cui da quando si era sposata si sentiva ospite
provvisorio, soffrendo del suo naturale distacco affettivo prima pieno ed esclusivo
ed ora soltanto premurosamente fraterno.
Dopo sposata, andarono a vivere a Castelfiorentino, un paese che a lei nata nella
profonda campagna Toscana pareva una stupenda metropoli. I primi tempi furono
gli anni più felici della sua vita. Terminarono presto, però, accorgendosi ella di un
lato imprevisto del carattere di Gastone. Aveva dentro un irrequietezza ai limiti
della patologia: il meglio, per lui, era sempre altrove. Non riusciva a gettare
l’ancora, placare l’insoddisfazione. Ambiva in forma spasmodica cambiare,
cercare il nuovo, l’Eldorado costruito nella sua immaginazione:
“La mia casa era molto bella, arredata di mio gusto. Ero felicissima ma questa
felicità durò poco. Finì quando a mio marito venne la voglio di mettersi a fare il
panettiere in proprio. Rilevò un forno a Tavarnelle Val di Pesa, un paese molto
carino della zona del vino Chianti, dove ci trasferimmo. Un triste trasloco per me
che lasciavo solo mio fratello Renato, ed anche mia suocera Elisa, alla quale mi ero
molto affezionata ritrovando in lei molte qualità di mia madre Santina”.
Una cosa che non successe invece col suocero, il padre di Gastone, Edoardo uomo
molto avaro e duro, completamente arido nei sentimenti (in casa moglie e figli –tre
maschi ed una femmina- gli si rivolgevano col ‘voi’). Era politicamente e
ostentatamente anarchico, seguace di Pietro Gori di cui declamava le nobili poesie,
senza minimamente cercare la coerenza tra il dire e il fare.
“Ero incinta del primo figlio, una bambina che morì a soli tre mesi. Ne ebbi un
gran dolore, ma come tutti i dolori della vita si superano quando vengono leniti da
nuove vicende. Nel mio caso fu la nascita del maschio che chiamammo Pier Luigi.”
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Parla di me. Difatti sono nato a Tavarnelle Val di Pesa in quella circostanza
occasionale, comune che non vidi più in tutta la mia vita se non per una visita di
passaggio per conoscerlo e farlo conoscere a mia moglie dopo sposati. Ci
fermammo a pranzo in un ristorante dove ci servirono un prelibato piccione
arrosto che serbo ancora nella memoria.
La mia nascita avvenne il 1 aprile 1932 alle sei del mattino. Babbo era al forno già
da qualche ora (apriva alle quattro). Quando i vicini andarono a chiamarlo
annunciandogli l’evento la sua risposta fu: ‘Ovvia, e gl’è i prim’aprile… o che
m’avete preso pe’ bbischero?” Non ci credeva assolutamente. Se ne convinse solo
sul tardi arrendendosi alle insistenza d’una coinquilina.
“Restammo a Tavarnelle tre anni e qualche mese. Il nuovo trasloco allietò di molto
nonna Elisa, ma meno me che mi trovai con un nuovo cambiamento di vita e di
abitudini. Poco dopo a Castelfiorentino nacque Edi, la sorellina. Avevo due
stupende creature che erano l’ammirazione del paese. Il maschietto paffuto, occhi
azzurri, con una testata di riccioli biondi. La femminuccia nera di capelli e di occhi
come il carbone, ed anche l’incarnato pareva perennemente abbronzato. Intanto
mio fratello Reato si era sposato con Leda ed aveva riaperto la casa di Meleto.
Tutto andava bene, per il meglio. Almeno così mi pareva. Invece ci si mise di
mezzo la politica a turbare la quiete della mia famiglia (non quella di Renato che
ne era completamente disinteressato)”.
L’anarchico Edoardo, soprannominato ‘diecino’ (la moneta di rame con la mosca
da dieci centesimi) per la sua avarizia, aveva dovuto chiudere il suo negozio di
stoffe in Borgo, e per vivere addestrava e vendeva bastardini da tartufi. Li cercava
lui stesso, i tartufi, girando le campagne con la ‘Morina’ la cagnetta che non
vendette mai, e che gli serviva per gli altri animali come la ‘madre’ per fare
l’aceto. Guadagnava bene, i tartufi sono un genere sempre stato caro; ma visse
come un misantropo solitario lesinando i soldi alla moglie, che per arrangiarsi
affittava le camere alle compagnie di giro, circensi o di lunapark, che ogni tanto
arrivavano in paese . Insofferenti di codesto andazzo gli altri figli se ne erano
andati via tutti escluso Gastone. Torquato, il più grande, già segretario della
Camera del lavoro di Piombino, allo stabilizzarsi della dittatura di Mussolini, si
era messo in sonno nel Manicomio di San Niccolò a Siena, impiegandosi come
operaio della manutenzione elettrica. Guglielmo faceva il macchinista delle
Ferrovie dello Stato e viveva a Livorno. Iris, l’ultima nata, aveva sposato un
guardiano notturno e viveva a Siena anche lei.
Finchè Gastone fu occupato giorno e notte col forno , nel nuovo paese, lontano
dalle parentele e amicizie di infanzia; non ebbe rogne coi nuovi potenti. Tornando
al paese in cerca di un nuovo lavoro, le sue idee antifasciste professate senza
prudenza né ritegno, gli nocquero alquanto: “Comandavano i fascisti e siccome
mio marito non volle mai essere fascista perché quel partito non gli piaceva per
nulla, non trovava da lavorare per quanto cercasse e si desse di torno. Mancando
di una occupazione fissa cercò di guadagnare mettendosi nel commercio degli
ambulanti con un furgone ed banchetto di giocattoli. Cominciammo a girare i
mercati, tutta la famiglia insieme per aiutarlo, che non volevo lasciarlo solo a fare
tutto”.
Dovettero ben presto smettere anche quel lavoro che si rese impraticabile per il
mio infantile atteggiamento: “Piero strillava a più non posso ogni volta che
qualcuno acquistava un giocattolo: “No, no !!! E’ mio, è mio…” gridava a
squarciagola creandoci molto trambusto e grandi difficoltà. Così decidemmo di
cambiare genere optando per la maglieria. Ma a Gastone il lavoro di ambulante
non gli piaceva per nulla. E poi parlava troppo e qualcuno riferiva alla Casa del
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Fascio. Il Federale l’aveva preso di traverso e lo faceva molestare di continuo dai
suoi scherani, rendendogli la vita impossibile tanto che Gastone decise di emigrare
in Francia.”
Non potendo avere il passaporto regolare, quando stavano per arrestarlo per
essersi picchiato (ed aver avuto la meglio) con due di quei provocatori fascisti
mandati dal Federale; fuggì nottetempo dal paese ed attraversò clandestinamente
il confino a Ventimiglia riparando a Tolone ove risiedeva la famiglia Baldini,
socialisti, che lo avrebbero ospitato ed istradato nei primi tempi dell’emigrazione:
“Io rimasi al paese coi due figli. Per risparmiare mi trasferii in casa della suocera,
Nonna Lisa, attraversando un altro periodo di grande infelicità”.
Gastone, in Francia, allo scoppio della Guerra Civile Spagnola si arruolò nelle
Brigate Internazionali, pertanto non mandava notizie di se alla famiglia. Riallacciò
i rapporti quando, intuita la fine della Repubblica con l’ineluttabile vittoria
franchista, rientrò a Tolone partecipando alla vita dei socialisti italiani in esilio. Il
partito lo aiutava a mandare missive in doppia busta, attraverso interposte
persone, dalla Svizzera al paese. I cui destinatari, poi, recapitavano la lettera a
Erminia. Contatti sporadici che altrimenti sarebbe caduta l’attenzione su di essi da
parte della censura fascista. Mia madre non sopportava quello stillicidio. A Tolone
sapeva che mio padre si era sistemato, aveva trovato un lavoro da muratore presso
un imprenditore edile, diceva di aspettarci. Il fatto è che anche mia ma dre non
poteva chiedere il passaporto secondo i canoni regolari. Parlandone con Renato,
che ora, da falegname della fattoria era passato a fare l’autista e accudire al garage
dei ‘signori’; ebbe da lui una idea: ‘Fatti raccomandare dal duca. I Canevaro sono
in diplomazia e se si interesano alla pratica il assaporto lo hai in quattro e
quattr’otto’ la consigliò ‘però vacci tu a parlare, perché non voglio assolutamente
figurare” aggiunse giudiziosamente ben sapendo che il passo era abbastanza
insidioso permeato com’era di politica sovversiva. Si rendeva conto che come
dipendente, mettendosi in mezzo, ne avrebbe subito delle conseguenze allorché lo
scandalo eventualmente fosse scoppiato.
Mia madre in virtù di ex ‘famiglia’ del Castello fu ricevuta dal Duca e ascoltata.
Lei ne fece una questione di urgenza estrema, chiedendo se poteva farle avere il
passaporto nel più breve tempo possibile. Il Duca, lontano da ogni sospetto di
implicazioni politiche, si mosse cortesemente ed in due giorni ella ebbe il
documento. Che aspettava trepidante con le valige già pronte. Così non indugiò un
minuto; partì coi due figli alla volta di Ventimiglia, passando il confine senza alcun
intoppo. Mezza giornata più tardi non sarebbe più stato possibile: era venuto fuori
alle autorità fasciste che il passaporto era stato consegnato alla moglie di un
antifascista ricercato dalla polizia, transfuga e clandestino in Francia per di più.
Il Duca ebbe noie, e se ne dolse con Renato, che naturalmente cadde dalle nuvole.
“Arrivai in Francia, alla stazione di Tolone, alla fine dell’inverno del 1938. Misi
subito i figli all’asilo così potei iniziare anche io a lavorare in casa. Mi chiamavano
la ‘sartina italiana’ e venivano in molti più che a ordinare dei vestiti, a farsi
aggiustare quelli compra ti nelle confezioni. Nonostante le grandi difficoltà ci
ambientammo presto e bene data la grande voglia di lavorare che avevamo. Dalla
prima casa che aveva preparato Gastone passammo alla seconda, e definitiva, che
era all’ultimo piano di rue Agustin Dumas 26, nella città vecchia, l’angiporto tra il
boulevard e i moli sul mare. Piero imparò immediatamente il francese
mischiandosi ai ragazzini della strada. Frequentò le prime due classi elementari
sempre promosso. La Francia della fine anni ’30 era una nazione ricca, agiata.
C’era lavoro per tutti, e tutti stavano bene se volevano. Facemmo domanda per la
naturalizzazione, quindi, se non fosse scoppiata la guerra, la nostra famiglia da
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toscana sarebbe divenuta francese. Purtroppo ancora una volta la felicità finì
perseguitati dalla sventura della politica. Quando Mussolini dichiarò guerra alla
Francia il 10 settembre del 1940 la nostra situazione precipitò parallelamente agli
eventi della nazione francese”.
A questo punto anche io ho vivi ricordi di quel periodo. Per esempio, nei primi
anni, in tempo di pace, la maggioranza dei cittadini francesi ammirava Mussolini.
Non poche signore clienti di mia madre, sapendo che era fuggita dall’Italia, se ne
usciva con parole di biasimo verso gli esuli antifascisti ‘ingrati verso chi aveva reso
grande l’Italia’. Le medesime persone dopo ‘la pugnalata alla schiena’ davano la
caccia agli italiani per insultarli ed anche bastonarli. I miei genitori restarono
chiusi in casa per due settimane e facevo io gli acquisti nei negozi dato che passavo
per francese. Ricordo l’affondamento delle navi da guerra nel porto; i loro
marinai che scorrazzavano per la città a distruggere i negozi con nome e insegne
italiane. Ricordo quando la polizia di Petain venne alle tre di notte in casa nostra
ad arrestare mio padre che era negli elenchi delle persone, pericolosi sovversivi, di
cui il regime fascista esigeva il rimpatrio coatto. Babbo venne internato in un forte
medievale, alte mura, torrioni e ponte levatoio; e poi spedito in Italia dentro un
vagone piombato.
“Ancora una volta rimasi sola, stavolta in terra straniera. Tutte le spese di vitto e
alloggio caricavano sulle mie spalle; vedendo che non ce la potevo fare decisi di
fare di nuovo le valige e tornare in Italia. Rimpatriammo (noi eravamo in regola
coi documenti) lasciando casa. Da un giorno all’altro persi tutto, con mio grande
patimento. Noi a Castelfiorentino, mio marito a Firenze, nel carcere delle Murate,
in attesa del processo”.
Il Tribunale Speciale di Firenze con Ordinanza della Regia Prefettura nella seduta
del 28 gennaio 1941 assegnò al confino di polizia a Ventotene il ‘pericoloso’
Baglioni Gastone. Noi ci sistemammo i casa dei nonni paterni, Edoardo e Lisa. Io e
mia sorella non parlavamo più una parola di italiano. Ciò nonostante,
retrocedendomi di una classe, ripresi le Elementari nella scuola davanti alla chiesa
di Santa Verdiana. Avevamo vissuto una guerra, ancorché breve, coi momenti di
miseria e terrore che comporta. L’Italia, ed il paese, non ne erano ancora toccati.
Anzi, il regime era in piena euforia bellica; pareva che le cose andassero bene e la
vittoria dell’Asse fosse vicina.
“Dopo la guerra prese campo in tutto il mondo. Gastone dopo l’8 settembre 1943
era scappato dall’isola e tornato in paese. Fu assunto alla Montecatini,e subito
eletto a furor di popolo segretario della Commissione Interna. Brevissimo
interludio di riacquistata felicità. La nascita della RSI precipitò nuovamente la
situazione. Mio marito aiutato dal PSI, partito al quale aveva sempre simpatizzato
ed ora anche aderito, riuscì a fuggire prima che le Brigate Nere lo arrestassero. Si
rifugiò a Santa Fiora, sul Monte Amiata, come partigiano organico alle formazioni
del Corpo Volontari della Libertà. Di nuovo sola a guadagnarmi la vita con le
unghie e coi denti. I ‘bollini’ del tesseramento non bastavano e Piero aveva un
appetito da lupi. In più i bombardamenti arrivarono anche da noi.
Renato venne a prenderci per portarci da lui a Meleto ove saremo stati più sicuri
(e più sfamati). Ben presto, con l’avanzare del fronte, anche il borgo di Meleto
divenne pericoloso. Gli anglo americani cannoneggiavano le case ad ogni
movimento di persone. Nell’estate del 1944 tutte le famiglie decisero di rifugiarsi
nel bosco, in una grotta dove svernavano le pecore. Gli uomini posero in terra le
fascine, misero sopra i materassi, ed allineati come in una corsia si formò un unico
dormitorio”.
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Per noi bambini era più un divertimento che altro. Nel bosco, lontano da noi verso
la cima del monte, si erano accampati i giovani renitenti alla leva del circondario
che se la filavano da ‘patrioti ’. In verità non si mossero mai di lì fin all’arrivo
degli alleati. Noi andavamo a trovarli per ascoltare i loro discorsi. Progettavano
imboscate alle pattuglie tedesche; prendere dei prigionieri per consegnarli agli
americani… Ripeto, non si mossero mai da lì. Con quelle chiacchiere ingannavano
il tempo in attesa delle mamme che portavano loro ceste piene di cibo come per i
‘dejuner sur l’erbe’ (del classico quadro di Manet mancavano solo le ragazze ).
Le cose stavano molto diversamente dove era mio padre, tra Badia San Salvatore,
Castel del Piano e Santa Fiora. Lì operava la Brigata d’Assalto Garibaldi
‘Spartaco Lavagnini’ guidata da Viro Fortunato Avanzati che era il comandante di
Gastone. Fecero numerose temerarie azioni, anche dentro le mura di Siena, tanto
da portare a casa la pelle con grande fortuna.
Quando le truppe alleate liberarono Siena, il generale Mc Clark assunse molti
partigiani del CVL per svolgere compiti complementari, di servizio, all’esercito.
Mio padre venne messo nelle cucine, dove non mancava nulla dalla polvere d’uovo
australiana, al latte condensato inglese. Sacchi di fagioli, derrate, zucchero… Da
buon italiano non c’era sera che non venisse a casa (abitava dalla sorella Iris) con
la sporta piena. Un giorno in bicicletta attraversò il fronte (era un incosciente, lo
avrete capito) facendo il viaggio attraverso la terra di nessuno da Poggibonsi a
Castelfiorentino. I suoi vecchi, Edoardo e lisa che non s’erano mossi di casa, gli
dissero dove ci eravamo rifugiati ed un mattino lo vedemmo arrivare davanti alla
grotta. ‘Venite’ ci disse ‘Ho trovato casa…a Siena dove oramai la guerra è finita’.
Il giorno dopo eravamo in viaggio tutti e quattro; guadagnando Siena per strade
secondarie, spesso minate; coi pericoli insiti in momenti e luoghi (il fronte bellico)
dove la legge è occasionalmente assente. Credo avrebbe servito a poco la Mauser
tenuta dopo la consegna delle armi, che mio padre portava alla cintola.
“A Siena abitammo pochi anni. Gastone sognava una cità di mare, gli ricordava il
tempo felice di Tolone prima della guerra. Partì in avanscoperta per Genova, e,
come aveva sempre fatto, appena ebbe piantate le radici con casa e lavoro, ci
chiamò presso di se. Fu l’ultima volta che traslocammo, finalmente”.
Le note di mia madre si chiudono qui, ma con una chiosa alla ‘nipotina’:
“Il mio racconto ti sembrerà lungo, ma è la mia vita che è stata lunga di
avvenimenti che non ti ho neppure raccontato tutti. Ora sono finiti. Cominciano le
ansie per i nipoti, per te cara Marcella. Ti raccomando di non avere premura di
fare la grande, resta più bambina che puoi; è meglio per te. Dai retta a mamma e
papà perché loro ti vogliono bene e vogliono difenderti dai pericoli di questo brutto
mondo. Solo la famiglia è il tesoro più bello, dove ti devi sentire protetta anche se ti
sgridano per il bene che ti vogliono”.
Due anni dopo Nonna Meme anche Marcella lasciava questo mondo. Una
operazione per un calcinoma all’utero (compiuta nell’ospedale di Sampierdarena
sotto inchiesta per decessi post operatori fuori dalla norma statistica) l’ha
stroncata all’età di 38 anni. Questi appunti della Nonna, Erminia Carpignani,
persi tra le carte e le robe vecchie della casa, non ebbe purtroppo la ventura di
leggere.

Pier Luigi baglioni

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