La cifra che definisce l’uso dei nuovi media è una: presenziare. Per esistere, in rete, non basta esserci, occorre moltiplicarsi. Siamo già oltre l’era dell’apparenza, perché anche l’apparire si misura sulla quantità: l’applicazione di una delle piattaforme di condivisione che adesso vanno per la maggiore come Twitter ci aggiorna — noi e tutti i nostri cari followers — del numero di conquiste accaparrate dall’ultima settimana: abbiamo tot nuovi amici, siamo stati tot volte citati, tot volte nominati.
“Siamo” tot volte tutte queste cose messe insieme. Ma per compiere tutto questo occorre investire un pari tot di tempo. Nello scatenamento generale di post, sottopost, tweet, retweet e mille allegati (music, blog, news) non si capisce dove la gente ricavi il tempo per leggerli, ascoltarli, curiosarli, commentarli: una massa enorme ed eterogenea di materiale le cui dimensioni crescono in proporzione alla nostra esposizione, esposizione che proprio di questa messe informativa si nutre, invischiandoci in un ciclo vorticoso di infotainment martellante le cui spire alimentano la dipendenza.
Non è in discussione il ruolo di formidabile acceleratore della comunicazione, e dunque detonatore di mille opportunità, che la rete rappresenta, specialmente in campo lavorativo, ma bisogna ripensare l’opportunità dell’investimento temporale nelle nostre vite, di tutto quel materiale di risulta che è il sottoprodotto di un uso “leggero” e viziato della rete: la singolarità demenziale da commentare a tutti i costi, la nota spiritosa da allegare sempre e comunque, la volgarità plateale da applaudire senza riserve, il tutto da rigirare puntualmente e indistintamente ai propri amici perché il vero e solo scopo di queste piattaforme è inebriarsi di spirito di partecipazione, partecipazione che si traduce in conquista di visibilità. Ma anche in una irrimediabile sottrazione di tempo prezioso alle nostre vite e a quelle di chi ci è più caro.
Si obietta che tutto questo è il frutto dell’intrinseca vocazione alla socializzazione che da sempre ispira l’animo umano, eppure lì, dove investiamo più tempo — cioè i social media — il dialogo è morto. Non cerchiamo veri scambi di idee ma solo conferme, cerchiamo una spalla che stia al nostro gioco, la critica è bandita e il critico disamicato subito.
Ci ubriachiamo delle nostre “saggezze” aspettandoci tanti complimenti in ritorno e quando non arrivano la nostra autostima cala bruscamente. Non solo i personaggi più noti ma, nel loro piccolo, tutti soffrono da sindrome di autoinfatuazione. Quando le amicizie sono solo frutto di un tornaconto promozionale e dedichiamo a queste — per fare massa — un tempo sproporzionato rispetto ai nostri veri affetti, ai nostri legami più significativi, si può davvero parlare di un oggettivo progresso sociale? E se sì, a che costo?
Non sarà il caso di rivolgere le nostre esistenze verso esperienze concrete, capaci di cementare legami e affetti più durevoli e che non diano solo la fugace sensazione di pienezza ma destinate implacabilmente a portarci, oltre la beffa di rapporti segnati dall’inconsistenza affettiva, anche il danno di tutto quel tempo andato perduto?
(C Martini Grimaldi)
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