lunedì 2 settembre 2013

Miliardari, tutti in Svizzera alla fiera del paradiso fiscale


ECONOMIA

Jersey, Isole del Canale (Kirsty Wigglesworth, Ap/Lapresse)
A novembre, in un lussuoso albergo di Zurigo, si è svolto con discrezione un incontro molto particolare: i paradisi fiscali hanno corteggiato i più ricchi della Terra. Il racconto di Die Zeit.

“Solo persone seriamente agiate”, dice con un sorriso Robert Ferfecki, usando un avverbio che di solito viene usato per i malati. Purtroppo, e il suo sorriso diventa ancora più benevolo, non può scendere nei dettagli. Basta dire che i nomi dei suoi clienti sono molto familiari. Oltre che dalla Germania, i suoi committenti vengono in gran parte dall’Europa orientale e da paesi in via di sviluppo: zone in cui chi possiede molto denaro non deve temere solo il fiscalista ma anche criminali e terroristi.
Questa è già la terza volta che Henley & Partners, una ditta con sede a Jersey, organizza un congresso per chi è interessato a rinunciare alla propria nazionalità e trovare un rifugio sicuro per sé e il proprio denaro. Nel 2007 l’incontro si è svolto a Dubai, nel 2008 a Hong Kong e alla fine di novembre di quest’anno le “persone seriamente agiate” si sono riunite nella sala da ballo dell’albergo zurighese The Dolder Grand per lasciarsi illustrare le attrattive di nuovi domicili possibili.
I russi si riconoscono dalle giacche di pelle, i sudamericani dalle vistose fantasie delle loro camicie. I clienti del Medio ed Estremo Oriente hanno inviato avvocati e bancari. Lo stuolo di consulenti in abito scuro si muove con la scioltezza tipica di chi maneggia ogni giorno grosse somme di denaro. Come in un concorso di bellezza, i paesi salgono sul palco l’uno dopo l’altro per contendersi i favori dei miliardari presenti in sala con le tabelle delle imposte invece che con la circonferenza dei fianchi.
A ciascuno il suo
Il Belgio non impone tasse patrimoniali e concede senza tante complicazioni la cittadinanza a chiunque risieda da sette anni nel paese. L’Austria sbriga tutte le formalità per la naturalizzazione entro un minimo di dodici e un massimo di diciotto mesi, ma in cambio richiede una donazione di dieci milioni di dollari a un’istituzione pubblica. I nuovi austriaci non devono sapere il tedesco, e nemmeno conoscere l’inno nazionale o simulare sentimenti patriottici. Durante il congresso la nazionalità viene chiamata “prodotto” e il suo prezzo è oggetto di trattativa.
L’arcipelago caraibico di Saint Kitts e Nevis ha inviato appositamente a Zurigo il suo primo ministro. Denzil Douglas sale flemmatico sul podio con un quarto d’ora di ritardo: il suo è un esempio tangibile del rilassamento garantito dal suo paese. Sul video proiettato alle sue spalle le palme ondeggiano davanti a bungalow di legno mentre il mare azzurro riflette i raggi del sole su sorrisi dalla pelle scura. Al culmine dello spettacolo, sullo schermo appare la gigantografia di un passaporto, le lettere dorate che brillano su sfondo marrone.
Al momento non esiste documento legale più facile e veloce da ottenere: basta versare 250mila dollari sul conto del fondo caritatevole dell’industria zuccheriera nazionale e in tre mesi si diventa cittadini di Saint Kitts. Andare di persona nella nuova patria non è necessario, e a questo servizio ricorrono in massa soprattutto gli uomini d’affari dei cosiddetti stati canaglia, che in questo modo possono finalmente seguire le loro attività in ogni angolo del mondo senza dover sopportare lunghe attese per il rilascio dei visti e interminabili controlli doganali.
La Svizzera non concede rapidamente il suo passaporto, ma anche senza cittadinanza qui gli stranieri trovano esattamente quello che cercano: discrezione, pace e sicurezza. Valori particolarmente apprezzati dai tedeschi che hanno qualche situazione difficile alle spalle e raccontano le atrocità patite come se fossero profughi sfuggiti a una guerra. Una coppia della Renania ha subito cinque “aggressioni” in sei anni da parte di agenti del fisco e un celebre imprenditore è stato inseguito dai funzionari nella sua stessa azienda, “quasi fossi un delinquente”.
Paradisi in terra
Il secondo giorno del congresso è tutto dedicato ai vantaggi del sistema fiscale elvetico. Per gli ultra high net worth individuals, i detentori di un patrimonio netto più che consistente, la Svizzera è il paese d’immigrazione per eccellenza. Sullo schermo si proietta una scena idilliaca dopo l’altra: vigneti, laghi, romantici paesini e vette innevate. Un cantone può vantare la vicinanza all’aeroporto e la medicina d’avanguardia, un altro la densità di esclusive scuole private e “persone che faranno di tutto per rendervi felici”. E per giunta il tutto in inglese, la quinta lingua nazionale della Confederazione.
“Qui troverete il vostro nuovo rifugio!”, è lo slogan del Canton Lucerna, accompagnato dall’immagine di una nave che solca il Lago dei Quattro Cantoni. “Dal deserto al paradiso fiscale!”, esclama invece il Canton Obvaldo, che ha varato un drastico piano di sgravio fiscale con grande sdegno degli altri cantoni. Pur non essendo mete ideali per gli stranieri facoltosi, questi due stati svizzeri sono comunque “il primo luogo in cui rifugiarsi quando bisogna trovare una rapida soluzione”, dice Peter Krummenacher, uno dei soci svizzeri di Henley & Partners, fissando l’interlocutore da dietro il bordo della sua montatura inglese. “Qui la burocrazia è meno fossilizzata”.
Dell’“emotional engineering” degli immigrati si occupa Robert Ferfecki, il direttore del ramo immobiliare della Henley in Svizzera. Rilassato, disponibile e premuroso, Ferfecki è un uomo che alle persone seriamente agiate piace avere intorno. Per lui anche i desideri abitativi più impossibili sono un ordine: una pista d’atterraggio privata per gli elicotteri nel bel mezzo di un quartiere popoloso come quello delle ville più esclusive, per, oppure l’idilliaca residenza di campagna in riva al Lago di Ginevra che durante un volo di ricognizione il cliente ha indicato con tanto entusiasmo.
Certo, anche il professionista ha dei limiti: nella maggior parte dei casi non può fare altro che telefonare invano ai proprietari. Quando la villa non appartiene alla famiglia reale saudita, è di proprietà di Michael Schumacher o della famiglia Chaplin. Con i suoi quasi cento miliardari, il lago di Ginevra è l’habitat per magnati più densamente popolato del mondo.
Accomodante anche con i giornalisti, Robert Ferfecki racconta particolari succosi della sua vita quotidiana. Ai russi non deve mostrare ambienti alti meno di quattro metri e le case per gli indiani non devono misurare meno di diecimila metri quadri. E quando una famiglia cinese o egiziana acquista finalmente la sua nuova dimora svizzera, il trasloco inizia fin da subito. Ferfecki si occupa di arredare la villa e di assumere il cuoco, il giardiniere e le domestiche. Sulla sua scrivania ci sono tutti i documenti necessari, dai contratti di lavoro ai permessi di soggiorno fino alle polizze assicurative. Le automobili sono parcheggiate nel garage, il posto dei bambini al collegio è già prenotato e anche al club del golf è stata presentata domanda d’ammissione.
Fort Knox in Svizzera
Durante le pause caffè i congressisti ciondolano tra gli stand dell’atrio, che pubblicizzano yacht con sale da pranzo simili a cattedrali gotiche ed edifici-alveari affacciati sul lago i cui appartamenti costano almeno quindici milioni di franchi l’uno. Nulla di tutto questo gli risulta nuovo: solo del monte Rüblihorn non avevano mai sentito parlare. Un plastico della montagna bernese è mostrato diviso in due e nelle sue viscere si scorgono bunker antiatomici e antigas. Questa montagna cava è stata scoperta da Christoph Oschwald ai tempi in cui prestava servizio come ufficiale dei paracadutisti svizzeri.
“All’epoca si trattava di un segreto assoluto”, spiega l’espositore, ma poi Oschwald ha comprato mezzo monte dall’esercito e ora nelle sue caverne conserva i dati computerizzati e i documenti sensibili di migliaia di clienti. Qui le informazioni sono protette da terroristi, guerrafondai e investigatori del fisco. A differenza del segreto bancario svizzero, il “Fort Knox elvetico” è inaccessibile per chiunque. Un percorso a ostacoli di cento metri conduce nel sacrario, oltre una serie interminabile di barriere e porte blindate da tre tonnellate, confronti di impronte digitali e verifiche della temperatura corporea. I computer sono raffreddati da un lago sotterraneo e, in caso di necessità, i dati e i documenti possono essere trasportati nell’arco di ventiquattr’ore in qualunque luogo della Terra a partire da una pista d’atterraggio per elicotteri scavata nel fianco della montagna.
Con quanta velocità cambino i valori del mondo dei ricchi globalizzati lo dimostra il passaporto statunitense. Un tempo le donne in gravidanza avanzata visitavano a frotte gli Stati Uniti per garantire automaticamente la cittadinanza americana al figlio fin dalla nascita. Oggi invece è risaputo che la nazionalità statunitense può essere pericolosa. Registrandosi in un albergo mediorientale con un documento rilasciato negli Usa si rischia la vita. La detenzione di un passaporto americano era l’unico crimine commesso dalle persone morte nelll’albergo di Mumbai. Ma come disfarsene?
America addio
Marshall J. Langer, statunitense di nascita ma oggi residente a Londra, elargisce consigli. Questo avvocato dallo sguardo vagamente ironico tipico di chi non si stupisce più di nulla ha già aiutato decine di persone a sbarazzarsi di quella “bomba a orologeria”. Nella sua relazione, Langer illustra le difficoltà dell’operazione dipingendo gli Stati Uniti come una furia che sommerge di pretese vendicative i suoi cittadini infedeli: persino delle tasse di successione bisogna tener conto, perché in fin dei conti il disertore potrebbe anche morire da un momento all’altro.
Il proprietario di un’industria tessile texana ha affrontato la sua rinuncia alla cittadinanza con più ingenuità. “Ne è proprio sicuro?”, gli ha chiesto il funzionario statunitense, e il suo tono era insistente come se avesse appena espresso il desiderio di suicidarsi. Ora l’industriale è cittadino di Saint Kitts e Nevis. “Oh, Saint Kitts è a posto”, osserva abbassando la voce: per nessun motivo si sognerebbe di urtare le sorelle e i fratelli neri della sua nuova patria. Ma l’isola è piccola, e dopo quattro settimane uno vorrebbe vedere qualcos’altro oltre al mare e alle palme. Ora sta considerando il Canada, ma da quando ha scoperto nella sua suite d’albergo a Zurigo che anche qui si ricevono dodici canali televisivi in lingua inglese gli sembra decisamente fattibile anche l’idea di stabilirsi in Svizzera.
Gli organizzatori del convegno erano molto preoccupati che la cattiva fama della Confederazione elvetica si fosse ripercossa anche sulla sua immagine di meta ideale degli stranieri facoltosi. Il leggendario segreto bancario svizzero non è ormai che l’ombra di se stesso e neanche i cittadini elvetici sono più come in passato. Fino a poco tempo fa sul loro solido senso degli affari si poteva contare ciecamente, ma ora gli zurighesi hanno deciso con un referendum di abolire la tassazione forfettaria concessa agli stranieri ricchi: gli pareva troppo ingiusto che questi magnati potessero concordare con lo stato l’entità delle imposte da pagare, solo una minima parte della cifra sborsata annualmente dagli svizzeri benestanti. Se non si dispone della cittadinanza, in Svizzera persino un miliardario non è tenuto a versare all’erario più di 23 milioni di franchi all’anno.
L’esempio di Zurigo si sta rivelando contagioso, e ora altri cantoni, come quello di Ginevra, vogliono seguirlo. Ma Peter Krummenacher osserva questi sviluppi con tranquillità: “Nessun altro cantone sarà ottuso come quello zurighese”. In fin dei conti, i cinquemila stranieri che si sottopongono alla tassazione forfettaria consegnano ogni anno allo stato mezzo miliardo di franchi, e poi il loro stile di vita crea 35mila posti di lavoro, a partire dall’autista fino al caddie, al chirurgo estetico e all’insegnante del collegio privato.
Sintomi di disamore, comunque, al congresso non se ne vedono: in Svizzera la qualità della vita è troppo eccellente. Ogni nuovo attentato terroristico, ogni rivoluzione, ogni annuncio di rincari fiscali produce, in qualunque angolo del mondo, una nuova ondata migratoria di persone seriamente agiate che si riversano in prontamente Svizzera. In questo momento nel paese stanno arrivando frotte di inglesi: da registi come Michael Caine all’ex guru della Formula Uno Eddie Jordan. In Gran Bretagna, infatti, sui redditi più elevati incombe un innalzamento dell’imposta sul reddito dal 40 al 50 per cento.
Com’è ovvio, all’hotel The Dolder Grand, sopra il mare di nebbia che sommerge Zurigo, l’indelicata espressione “evasione fiscale” non viene mai pronunciata. Qui si preferisce parlare di “global residence and citizenship”. Naturalmente Henley & Partners non possono escludere che i loro clienti si trovino nella spiacevole situazione di ricevere accuse di evasione fiscale e mancanza di coscienza sociale e solidarietà. Ma per casi del genere il servizio completo della società ha pronta una frase significativa, che è una citazione di Benjamin Franklin: “Dove c’è libertà, quello è il mio paese”.
Questo articolo di Margrit Sprecher è apparso su Die Zeit con il titolo Die Fluchthelfer

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