L’hacker australiano e Snowden sono in fuga ma si moltiplicano le piattaforme ispirate a Wikileaks. Sostenute da associazioni che difendono chi fa trapelare documenti riservati
Uno, cento, mille Wikileaks. A tre anni dal mega scoop del sito di Julian Assange, si moltiplicano le piattaforme ispirate al metodo dell’hacker australiano. «In Inghilterra è di moda dire che Wikileaks è morto», dice Gavin MacFadyen, direttore del Center for inve-stigative journalism (Cij), con sede a Londra. «Invece sono già nati 38 nuovi Wikileaks. Si trovano soprattutto negli Stati Uniti e in Sud America. E sono in crescita». MacFadyen è sicuro che presto ci saranno altre grandi rivelazioni: «Assange ha aperto una porta, e molte persone la stanno usando». Amico personale dell’attivista australiano, che oggi è ancora rifugiato nell’ambasciata ecuadore-gna a Londra, MacFayden l’ha anche ospitato a casa. Soprattutto il Centro da lui diretto è schierato da sempre nella battaglia per la trasparenza e la responsabilità dei governanti: «Abbiamo sempre sostenuto il lavoro di Assange e Snowden, ribadendo il loro diritto a rendere pubblici documenti riservati. Abbiamo difeso anche il Guardian e le altre testate che hanno pubblicato le loro rivelazioni». Il portavoce dei giornalisti d’inchiesta inglesi nega che la divulgazione dei cablo del Dipartimento di Stato o delle intercettazioni della National security agency abbiano danneggiato singoli cittadini: «Quei documenti non sono stati resi pubblici in modo indiscriminato, ma con grande attenzione alla privacy e solo quando c’era un interesse pubblico a conoscerli».
La vera urgenza, per il direttore del Center for investigative journalism, è una legislazione che protegga davvero i whistleblower (quelli che fanno trapelare informazioni riservate): «La tutela oggi è molto limitata. Soprattutto nelle questioni di sicurezza nazionale: chi svela informazioni in quel settore, è solo». Non a caso l’ex dipendente del Cij Sarah Harrison, che ha accompagnato Snowden nella sua fuga sino a Mosca e che adesso si trova a Berlino, non può rientrare in Inghilterra: «È troppo pericoloso», dice MacFadyen. «Con la legge inglese sulla cospirazione rischia il carcere». Il Cij sostiene i whistleblowerassistendoli nei tribunali, fornendo aiuto psicologico e facendoli incontrare tra di loro, che siano infermieri, impiegati pubblici, medici o poliziotti. Pilastro del network schierato in loro difesa è il Government accountability project, con sede a Washington.
Mentre si rafforza la rete di sostegno a chi trova il coraggio di denunciare abusi di interesse pubblico, aumentano i giornali e le associazioni che aprono spazi per raccogliere documenti riservati in forma protetta. Del resto, il metodo usato da Snowden è lo stesso adottato da Assange: codifica crittata e software anonimo Tor. Tra le testate giornalistiche che hanno messo in piedi un sistema simile spicca la storica rivista liberal americana The New Yorker, nota per i suoi testi letterari ma anche per le sue inchieste, come il famoso scoop di Seymour Hersh sulle torture di Abu Ghraib. Da maggio è possibile inviare in redazione documenti confidenziali rimanendo rigorosamente anonimi grazie al sistema Strongbox (vedi sopra, ndr). Nemmeno i giornalisti che scrivono l’articolo conoscono l’identità della loro fonte: «Sta funzionando bene», ci racconta Nicholas Thompson, caporedattore del sito web della rivista. «La gente ha capito che Strongbox è un mezzo sicuro per comunicare con noi e i nostri reporter lo stanno usando per parlare con le fonti. È uno strumento importante perché le persone si sentono sempre meno sicure in tema di privacy. Sono convinto che la ragione per cui è stato messo a punto sia proprio la diffusa sensazione che la sorveglianza sia in crescita». Può nascere così un nuovo Wikileaks? «Sì, speriamo che la gente lo usi anche per rivelazioni di forte impatto. La principale caratteristica è che nemmeno noi sappiamo chi ci invia quel materiale. Questo fatto dà a chi sta fuori la garanzia definitiva che se qualcuno si presenta in redazione chiedendoci i loro nomi, non potremo mai divulgarli. Nemmeno volendo». Strongbox ha però una controindicazione: rende più difficile verificare l’affidabilità della notizia: «Certo, non puoi più controllare la credibilità della fonte, visto che non sai chi è. Devi procedere in modo diverso, contattando le persone che possono conoscere quei documenti. Come giornalista hai un onere in più, ma ne vale la pena».
Anche la californiana Freedom of the press Foundation in ottobre ha lanciato una piattaforma che garantisce l’anonimato di chi vuole diffondere documenti: si chiama SecureDrop e può essere installata da qualunque testata giornalistica. Tante piccole iniziative in giro per il mondo. Ed è solo l’inizio.

http://www.left.it/2013/11/14/wikileaksi-nipotini-assange/13549/