venerdì 27 aprile 2012

Il segreto del modello Barça

Modello, dicono tutti così. Il calcio ha bisogno di certezze e le trova sempre nei vincenti. E’ così che ha cominciato a girare questa storia, che poi è fatta di tre domande: il Barcellona si può copiare? Ci si può ispirare? Si può esportare? Ecco, si sintetizza tutto così, alla fine: il Barça è un modello? Se lo chiedono in Spagna, in Inghilterra, ce lo chiediamo noi in Italia. La sintesi di tre domande in una negli ultimi dieci giorni è finita sul Wall Street Journal, sul Guardian, sul Paìs. Tutti lì, a girare attorno al perno, come se fosse il centravanti boa che il Barcellona non ha, ma che costituisce con l’idea. Ecco, nella filosofia che si fa su questa squadra e su questo club, la boa è il modello: la riproducibilità di uno stampo calcistico, la serigrafia di una concezione di gioco.
E’ una costante. A un certo punto, nella storia del pallone, torna l’idea che si possa trasformare una squadra e una società che funzionano nella locomotiva alla quale s’aggancia tutto il movimento. Tira il Barcellona e tira da un po’. La motrice è Guardiola con tutta la sua banda: Messi, Xavi, Iniesta, Villa, Busquets, Pedro, Puyol, Piqué, Fabregas, poi il presidente, poi i tifosi, poi le giovanili. Un blocco monolitico eppure sfaccettato che s’è preso 13 trofei in tre anni. Allora tutti hanno cominciato a pensare che importando quel concetto di squadra si possa vincere. C’è il mondo che studia il Barcellona. Che cos’è?
E’ futuro, soldi, marketing, strategia, pianificazione. E’ sostanzialmente l’opposto di quello che raccontano: perché ci hanno detto della diversità, dell’alternativa umana al disumano mercato pallonaro, dell’ultimo brandello di artigianalità in un mondo da calciatori in batteria. Ci hanno raccontato lo spicchio di verità che funziona perché rende diversi, opposti, democratici, liberali. Perché il Barcellona è la costruzione geniale dell’estremismo modernista mascherato da neoumanesimo culturale e sportivo. E’ un disegno, una creazione, un’architettura. Non c’è nulla di casuale, né di spontaneo: fa tutto parte di un disegno che ha messo al centro l’identità catalana e la passione per il calcio. Attorno è nato il mito della tradizione che si oppone al modernismo sfrenato dei rivali del Real Madrid. Diverso? La verità è che tra Barça e Real la differenza è il sistema: si parte da punti distinti per arrivare allo stesso obiettivo: vincere e guadagnare, creare business, far circolare soldi e popolarità. Perché il Barcellona questo fa: non ha scopi umanitari, né solidali, fabbrica campioni da usare come mezzo per macinare milioni o facendoli giocare nelle sue squadre oppure vendendoli a chi offre di più. Il resto è un abito costruito abilmente da un mondo che flirta con il modello Barça perché è meno sfacciato di quello degli altri club, perché permette di realizzare sogni, perché garantisce la bellezza del gioco oltre allo spettacolo, perché i suoi strateghi hanno capito che conservando una parvenza di umanità avrebbero ottenuto un risultato migliore. Barcellona è un modello, ecco la parola che ritorna. Quella, sempre quella. Quella per tutto. Uno chiede: che cos’ha di speciale il Barça? E tutti: il modello. E’ la carta coprente della realtà. E’ tutto vero, però è leggermente diverso. Se sposti il foglio e guardi da un’angolazione solo un po’ alternativa sei lì: il cuore batte sempre vicino al portafogli. A Madrid, a Milano, a Londra, a Barcellona. La differenza è la capacità di non farsene accorgere, di essere più bravi e furbi a non sbatterlo in faccia al mondo. Il Barça c’è riuscito, ci riesce. Ha comprato Zlatan Ibrahimovic spendendo un mare di milioni, non quanti ne abbia spesi il Real per prendere Kakà, Cristiano Ronaldo e Benzema, ma li ha spesi lo stesso e forse li ha anche buttati. Però non avrebbe potuto fare diversamente, perché il Barça deve reggere il confronto con gli avversari anche sul mercato, però ha la capacità di far pensare al mondo di essere speciale. Ha sempre comprato, ha sempre speso: Cruyff, Maradona, Koeman, Romario, Stoichkov, Figo, Ronaldo, Ronaldinho. Fece un’asta impressionante per Beckham, anzi il presidente Laporta, quello che adesso è considerato il vate dell’economia giudiziosa del pallone, lo promise in pompa magna per farsi eleggere alla guida del club. La realtà è che se il Barça non vincesse, comprerebbe come il Real, come il Manchester City, come il Paris Saint Germain o come facevano fino poco tempo fa l’Inter e il Chelsea.
E’ successo e succederà. Solo che ora vince e nessuno se ne accorge. Il Barcellona parte da un presupposto diverso per essere come gli altri: bisogna capire se conta più l’obiettivo oppure il mezzo per ottenerlo. Adesso si punta sul secondo. Lo fa il Barça e quindi lo fanno tutti. Perché bisogna stare sempre dalla parte di chi è migliore. Così si racconta la Cantera, cioè la fabbrica dei talenti, il posto dove il Barça costruisce i suoi campioni. Quello che ora è il paradiso. Così funziona: il vivaio sembra l’unica soluzione l’antidoto al calcio drogato di milioni e di fama che gira dalle parti di Madrid e delle altre capitali europee. Però che differenza c’è tra comprare un campione, strapagarlo, fargli firmare un contratto multimilionario e prenderlo quando è bambino, allevarlo e fargli firmare lo stesso contratto multimilionario dell’avversario dell’altro club?
La distinzione è più sottile di quanto si immagini, eppure diventa un fossato insormontabile: è lo spazio che passa tra il male e il bene, tra i cattivi e i buoni. Leo Messi arrivò a Barcellona a poco più che bambino perché il River Plate non voleva pagare novecento dollari al mese di medicine per farlo crescere. Il Barcellona sì. Altrove sarebbe stato sfruttamento, lì no. Il modello prevede la simpatia a prescindere. Il Barça lo è per il semplice fatto che è il nemico di quei cattivi/antipatici/imperialisti del Real. La stima di riflesso alimenta il mito già altissimo per indiscutibili meriti: vincere come hanno fatto i catalani in questi anni è pressoché impossibile. Un caso incredibile e straordinario: vivere questa stagione barcellonista per chi ama il calcio significa essere al centro del centro del centro della storia del pallone. “La squadra più forte di tutti i tempi”, dicono in molti. Forse è vero, o forse è soltanto uno slogan che serve ad alimentare la leggenda. La grandezza del Barça è il punto centrale del suo modello. Chi si ispira prende tutto: vorrebbe giocare come la squadra di Guardiola, vorrebbe segnare come la squadra di Guardiola, vorrebbe essere come la squadra di Guardiola. Il fatto che tutti parlino della Cantera pensando di poterla riprodurre ovunque è un sintomo. Ci sono club che non ne hanno adottato soltanto i principi filosofico-calcistici, ma persino il nome. Come se togliere “settore giovanile” e sostituirlo con Cantera possa avere un influsso positivo sui risultati.
Si sfiora il grottesco eppure è un meccanismo automatico. Vale anche per il gioco. Esempio: il Barcellona gioca senza punta centrale. Guardiola dice: “Il nostro centravanti è lo spazio”. Ecco, adesso molti vogliono giocare così. Il modello del modulo, in sostanza. La Roma di Spalletti lo faceva già prima del Barcellona, ma lo scoprono tutti ora. Fa parte del pacchetto completo al quale ispirarsi: imitare per credere di essere simili. Importare per pensare di essere migliori di ciò che si è. Il problema qui diventa anche la soluzione. Copiare, riprodurre, scimmiottare non serve. “L’influenza del Barcellona di questo tempo si estende in tutti i continenti”, ha scritto il Pais Semanal un po’ sorpreso. “Gli allenatori delle giovanili di tutto il pianeta hanno cambiato le classiche urla ‘entra duro’ con la più innovativa ‘passa la palla’”. E’ l’effetto scimmiottamento, esemplificazione autentica del presunto prototipo di riferimento da seguire in ogni angolo del pianeta. Solo che il calcio ha già provato e ha perso. Il Barça non è un modello come non lo sono state l’Ungheria di Puskas, il Real Madrid di Di Stefano, il Brasile di Pelé, l’Ajax di Cruyff, l’Olanda di Van Basten, il Milan di Sacchi. Ognuna di queste squadre è stata trasformata in qualcosa di più di quello che era: un’idea di mondo, prima che un’idea di calcio. Sconfitti tutti coloro che hanno cercato di duplicare. Ogni stagione ha il suo punto di riferimento, ogni era ha la sua dimensione: miti, nel pallone, si diventa per il combinato disposto tra il contesto e il contenuto. Il sacchismo è strettamente connesso al suo tempo: sarebbe diventato ciò che è stato soltanto a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta. Così gli altri.
Non ci sono rivoluzioni, nel calcio. Non ci sono neanche invenzioni. I modelli in realtà sono la prosecuzione l’uno dell’altro. Si alimentano dei successi che spesso sono figli di dettagli. Funziona una cosa, poi qualcuno trova la contromisura, a quel punto il pallone trova la forza di un’alternativa. E’ il darwinismo dello sport e a un certo punto deve per forza trovare il suo equilibrio. E’ lì che si crea una specie forte e per attrazione finisce quasi sempre tutto nello stesso posto: l’Ajax degli anni Settanta aveva una quantità di campioni tutti concentrati nella stessa squadra che faceva spavento. Lo stesso valeva per l’Olanda di Gullit, Rijkaard, Van Basten. Era una prosecuzione del Milan sacchiano. Tutti insieme per fare tutto. Così è il Barcellona oggi. Inimitabile perché non è un’invenzione. E’ solo un' evoluzione. Ma che evoluzione.....

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