giovedì 19 aprile 2012

Franco Falasca, LA FELICITÁ E LE ABERRAZIONI (poesie 2001-2010), Fabio D’Ambrosio Editore, Milano, 2011



Recensione di Jacqueline Risset




La nozione di felicità non è tra quelle più frequentate dalla poesia contemporanea. Franco Falasca  invece prende questa nozione dimenticata per titolo, e la accompagna ad un’altra nozione,  questa al plurale, “le aberrazioni”. A partire da queste parole messe inaspettatamente insieme, si presenta alla memoria del lettore il ricordo di un universo letterario e filosofico in apparenza molto lontano dall’orizzonte di questo libro La felicità e le aberrazioni.
            In una parte poco nota dell’opera di Bataille, la parola “felicità” (bonheur) si rivela un potente centro di riflessione quando, intorno al testo Le pur bonheur, pubblicato in “Botteghe Oscure” XXI, nel 1958, costituisce sotto lo stesso titolo tutto un dossier di appunti vari (che saranno pubblicati postumi, nel dodicesimo volume delle Oeuvres complètes, Gallimard, 1988). “Le pur bonheur est dans l’instant”, scrive Bataille in “Botteghe Oscure”… “Esso è, nel senso più insensato, la poesia. Il linguaggio, intestarditosi in quel rifiuto che è la poesia, si volge contro se stesso”.
Non so se Franco Falasca concorderebbe con questa definizione, ma nel furore che anima i suoi versi, nelle enumerazioni inventive, pressanti, profondamente eterogenee che formano il tessuto del suo linguaggio poetico, avverto uno slancio simile a quel volgersi del linguaggio contro se stesso che è il bonheur di Bataille.
            Furore contro le “aberrazioni” multiple che invadono lo spazio mentale da ogni parte; furore contro una degradazione che si attacca al meccanismo ben oleato dell’immagine in copertina - fotografia di Falasca stesso,  che rappresenta un ingranaggio in perfetto stato di funzionamento, dai bei colori che ricordano insieme Fernand Léger e i costruttivisti russi. Una degradazione è avvenuta di fronte al “rimato e bituminoso occhio di illuminista allampanato”.  Tra esseri e oggetti del mondo i rapporti prendono la forma di incubo e di assenza:

            “le liane riflettevano sui segni assenti
come incubo ricorrente del nulla potenziale”.

Si afferma tranquillamente ormai un senso di fine, di fine di senso:

“Che non v’è tragedia è l’ultima tragedia”

E la poesia si sviluppa in associazioni sorprendenti, ossimori zoppicanti, metafore ripudiate:

“le differenze nullificate da una luna retorica”.

Ogni tanto, si presenta uno spettacolo:

“il fanciullino rovescia montagnette di rifiuti
 sugli assembramenti di comunisti vocianti
 nella perenne aporia della storia”

 E questi versi ricordano l’inizio della Divina Mimesis di Pasolini, quando in una periferia romana domenicale illuminata dal sole il pellegrino Dante-Pierpaolo riconosce da lontano un comizio di Togliatti. Ma

 “l’inganno simbolico è anticomunista,
   e il senso ruota dentro un cono
   di rivoluzioni d’acciaio, incompiuto.”

(forse il cono dell’immagine  in copertina). “Luna retorica”, “fanciullino”, “inganno simbolico” complottano insieme. Avviene una degradazione proprio lì

 “nel comunismo divorante delle idiozie vaticane”

Rivolta del poeta:

“Questa non è arte
 e questa non è poesia
 e questa non è gioia
 e questo non è sapere
 e questo non è l’essere
 e questo non è l’uomo
 e questa non è l’intelligenza
 e questo non è il tempo,
 mi stai ingannando come uno stupido”

Sicchè restano ormai in vista  solo rovine di vita e rovine di poesia:

 “luce d’amore spietata, osso di seppia distrutto”

Tuttavia una speranza si delinea; la speranza in un risveglio filosofico:

 “e si sveglino finalmente le sospirate
filosofie”

Il poeta si scopre destinato al ruolo di osservatore leopardiano

 “a caso estratto affinché ti vedessi,
  iperbrivido del nulla costante”

Ciò che egli prova è un’oscillazione continua tra la sicurezza intellettiva dell’esperienza che gli fa affermare:

             “se passeggera è l’estasi , non passeggero è il senso dell’estasi”

e una percezione infantil-zanzottiana della scomparsa finale del mondo:   

               “in punta di piedi, ti sento, o mondo, sparire”.

Fino alla fine (ultima poesia, “Il filosofo sulla veranda”), rabbia cristallina e silenziosa  lucidità
si ritirano insieme modestamente, con gesto gentile, nella nebbia che le cancella insieme:

                “… dinanzi alle dimore
                 del dio ribelle, colmo di rabbia cristallina
                 in un inefficace squarcio della mente lucida,
                 un caduco siparietto,
                 in una valle senza nome”.

(Jacqueline Risset è critico letterario, traduttrice, e docente universitaria. È una specialista di Dante, riguardo al quale ha all'attivo una traduzione di riferimento in francese della Divina Commedia.
Dal 1967 al 1982, è stata membro del comitato di redazione della rivista Tel Quel.
Già allieva dell'École Normale Supérieure, è docente di letteratura francese all'Università Roma Tre, dove dirige il Centro di Studi italo-francesi[1], nato nel 1996 dalla donazione con cui lo stato francese ha trasferito all'ateneo romano il fondo bibliotecario dell'ex Centre Culturel Française di Palazzo Capizucchi.
È inoltre nel comitato di redazione della rivista Poesia "Mensile internazionale di cultura poetica")

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