Giovanni Arpino: “Non si morirà,
ma saranno grandi vaff...menti”
Una “confessione” ritrovata: all’inizio degli Anni 80 lo scrittore ripercorse il rapporto con la città
di cui testimoniava poeticamente
i cambiamenti
di cui testimoniava poeticamente
i cambiamenti
Dopo trent’anni esatti di esperienze narrative, posso dire con un soprassalto di stupore e di pudore che non mi sento nato in un luogo preciso, ma tra la gente. E che la contemporaneità, l’affrontare la vita d’oggi, sono stati l’unico sale della mia vita.
Ma dove sono andati a finire diversi miei personaggi, che forse erano poetici vent’anni fa, ed oggi risultano quasi preistorici? Quando scrissi due romanzi ambientati nel mondo operaio, Gli anni del giudizio nel ’58 e Una nuvola d’ira nel ’62, questo mondo operaio risultava ben delineato, percorribile, pronto ad essere esplorato, persin voglioso di essere esplorato. Oggi, quei personaggi mi risultano cristallizzati in una lontananza non più superabile. (...)
Via via cambiarono i quartieri, i mercati, i cibi, le abitudini, nacquero mistilinguismi dialettali che raggrumano espressioni di regioni diverse, il leggendario esercito dei «soldatini blu» si frantumò in una serie di battaglioni per nulla simili tra di loro. (...)
Per capire, per scrivere, anch’io dovetti cambiare. Mi si irritò la stessa scrittura sulla pagina, tentata di farsi più testimoniante e sulfurea. Anche questo mi venne rimproverato, ma chi ha attraversato gli anni della nostra città di frontiera sa che è cambiata non solo la scrittura, è cambiato persino il nostro modo di esprimersi al caffè. Le grandi migrazioni hanno snaturato Torino? Oppure l’anno costretta ad un salto immane di coscienza, di esame su e dentro se stessa?
Non lo so. Vorrei dire anche: mi proibisco di giudicare. Debbo ancora e finché mi restano forza e ispirazione, testimoniare. È il mio unico ruolo.
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