L’articolo su Papa Francesco ha rappresentato il record storico per questo sito. Direttamente vi sono state circa 45.000 letture dell’articolo con quasi 56.000 pagine visualizzate nella sola giornata di ieri. Sfiorano invece le 7.000 (settemila) le condivisioni sui social network. Appena dieci giorni fa la scomparsa di Hugo Chávez aveva superato il record precedente dell’articolo sulla beatificazione di Karol Wojtyla, che resisteva da due anni. A tutto ciò vanno aggiunte le tante ribattute su un numero che non sono in grado di calcolare di siti e i 3.000 iscritti stabili alla newsletter. È un piccolo Samizdat che gira spontaneamente, si riproduce, a volte elidendo il nome dell’autore ma lasciando i contenuti, per rappresentare un pulviscolo della coda della cometa informativa.
Sono numeri che testimoniano quello che scrissi nel 2009 in Storia critica dell’informazione e che spiego ai miei studenti sia a Unimc che alla Bocconi: che il giornalismo partecipativo può competere anche per lettori con il mainstream ad un costo vicino a zero. Nonostante si sia online da ben 18 anni www.gennarocarotenuto.it continua a crescere ed è sempre nella top ten italiana tra i blog gestiti o intitolati a una sola persona dietro i vari Grillo, Sofri, Mantellini, Lerner e pochi altri. Solo nell’ultimo mese, oltre a Bergoglio e Chávez, anche i pezzi su Beppe Grillo e le reti di fiducia e su Chiara di Domenico e Giulia Ichino hanno visto oltre 20.000 lettori e migliaia di condivisioni sociali. In tutti e quattro i casi, su eventi enormi o piccolissimi, dal papa alla scomparsa di un leader storico fino ad approfondimenti su vicende minori della campagna elettorale, ho cercato di rappresentare in maniera documentata un punto di vista che il mainstream pensava di aver diritto di cancellare negando -piccola-grande eccezione Radio3- il pluralismo dell’informazione.
Grazie a tutti, lettori storici e nuovi, ma in particolare al grande Dario Caregnato, che ieri ha vigilato che restassimo online nonostante il grande sovraccarico verso l’Islanda, l’isola della libertà d’espressione, dove materialmente risiede il server.
Redazione su http://www.gennarocarotenuto.it
Il Papa argentino. Francesco I, il conservatore popolare nei torbidi della dittatura
Jorge Bergoglio, Papa Francesco I, è quello che in Argentina si definisce un “conservatore popolare”, un esponente tipico –e dichiarato- della destra peronista. Sinceramente attento alla povertà, umile a sua volta, ha già rinnovato con successo la chiesa argentina senza modificarne il segno politico conservatore. È l’erede materiale e spirituale di Karol Wojtyla e, per i cardinali che lo hanno eletto in conclave, deve essere apparso una scelta perfetta su più d’uno dei fronti aperti per la chiesa cattolica.
Infatti può essere davvero l’uomo in grado di metter fine ai veleni curiali che secondo lo Spiegel hanno portato al “fallimento” Benedetto XVI. È quello che i giornali stanno indicando come esponente del partito della trasparenza. Lo ha fatto, e bene, in alcuni contesti. Allo stesso tempo rilancia il cattolicesimo in un continente letteralmente assalito dalle chiese protestanti conservatrici. La percezione europea di una chiesa cattolica egemone in America latina è gravemente viziata dalla mancanza di notizie su di un fenomeno che sfiora il 50% dei fedeli in alcuni paesi e figlio della guerra senza quartiere alla teologia della liberazione che ha portato i poveri a cercare una spiegazione altra in un dio meno lontano. Inoltre Bergoglio può rappresentare allo stesso tempo un’alternativa conservatrice ai governi progressisti e integrazionisti latinoamericani dei quali in molti si aspettano che possa diventare un leader alternativo continentale. Per qualcuno –chi scrive non ne è convinto anche se l’idea ha un suo fascino- Bergoglio può stare all’America latina integrazionista come Wojtyla stava all’Europa dell’Est del socialismo reale. Nonostante abbia spesso puntato il dito contro la politica, la corruzione di questa e la disattenzione ai problemi delle periferie, Bergoglio si è scontrato ripetutamente anche coi governi della sinistra peronista di Néstor Kirchner e Cristina Fernández. Gli scontri più duri, ma questo non può sorprendere, sono stati sull’aborto e sul matrimonio egualitario. Le nozze gay per papa Francesco sono «la distruzione del piano di dio».
Infatti può essere davvero l’uomo in grado di metter fine ai veleni curiali che secondo lo Spiegel hanno portato al “fallimento” Benedetto XVI. È quello che i giornali stanno indicando come esponente del partito della trasparenza. Lo ha fatto, e bene, in alcuni contesti. Allo stesso tempo rilancia il cattolicesimo in un continente letteralmente assalito dalle chiese protestanti conservatrici. La percezione europea di una chiesa cattolica egemone in America latina è gravemente viziata dalla mancanza di notizie su di un fenomeno che sfiora il 50% dei fedeli in alcuni paesi e figlio della guerra senza quartiere alla teologia della liberazione che ha portato i poveri a cercare una spiegazione altra in un dio meno lontano. Inoltre Bergoglio può rappresentare allo stesso tempo un’alternativa conservatrice ai governi progressisti e integrazionisti latinoamericani dei quali in molti si aspettano che possa diventare un leader alternativo continentale. Per qualcuno –chi scrive non ne è convinto anche se l’idea ha un suo fascino- Bergoglio può stare all’America latina integrazionista come Wojtyla stava all’Europa dell’Est del socialismo reale. Nonostante abbia spesso puntato il dito contro la politica, la corruzione di questa e la disattenzione ai problemi delle periferie, Bergoglio si è scontrato ripetutamente anche coi governi della sinistra peronista di Néstor Kirchner e Cristina Fernández. Gli scontri più duri, ma questo non può sorprendere, sono stati sull’aborto e sul matrimonio egualitario. Le nozze gay per papa Francesco sono «la distruzione del piano di dio».
Infine: Francesco I ha una missione difficile ma chiara ed appare avere la solidità ed esperienza per portarla avanti, ma è sufficientemente anziano -77 anni- per rappresentare un nuovo papato di transizione in termini di durata. Tuttavia Bergoglio viene da lontano e, nonostante non abbia avuto un ruolo apicale nella chiesa argentina complice della dittatura, emerge da quella storia con un passato che potrebbe fiaccarne l’autorità e che è corretto conoscere fuor da demonizzazioni e santificazioni. Per iniziare dalle demonizzazioni: la foto che gira da ore in Internet e che è al momento in apertura sul sito del settimanale messicano Proceso, dove si vede un prelato dare la comunione al dittatore Videla, è un falso: non è Bergoglio. Inoltre, tra le accuse che esamineremo, al contrario di quanto si trova ripetutamente affermato, non ve ne sono che abbiano condotto alla morte di alcuno.
È difficile essere stati un prelato importante in Argentina negli anni ’70 essendo estraneo ad una storia di lacerazioni, drammi, crimini, persecuzioni quale quella della chiesa argentina. Questa, al contrario di quella cilena e quella brasiliana, che poterono vantare più luci che ombre, fu sicuramente la peggiore, complice e spesso perfino mandante tra tutte le chiese cattoliche, dei crimini commessi dalle dittature civico-militari che devastarono l’America latina negli anni ’60 e ‘70. Appena un mese fa fu messa nero su bianco in una sentenza della magistratura la piena complicità della chiesa cattolica, incluso il primate dell’epoca, Cardinal Raúl Primatesta e del nunzio apostolico Pio Laghi, nell’assassinio del vescovo Enrique Angelelli e dei sacerdoti Carlos de Dios Murias e Gabriel Longueville. La sentenza confermava quanto si sapeva da mille testimonianze e documenti. All’interno del genocidio la chiesa cattolica argentina non fu solo complice ma i suoi vertici operarono una sorta di sterminio interno facendo eliminare preti e suore vicini all’opzione preferenziale per i poveri decisa nella Conferenza Eucaristica di Medellin del 1968 o semplicemente scomodi. Furono almeno 125 i sacerdoti impegnati a fianco degli ultimi a morire o essere fatti sparire. Molti di quelli che persero la vita furono indicati ai carnefici dalle stesse gerarchie cattoliche, Tortolo, Primatesta, Aramburu, che collaborarono attivamente sia ai crimini che al successivo occultamento.
Stiamo parlando di un crinale difficile tra la complicità e la morte ed è in quest’ambito che azioni ed omissioni vanno misurate. L’ordine di appartenenza di Papa Francesco I, quello gesuita, resta al margine della complicità con la dittatura dei 30.000 desaparecidos e della guerra intestina nella stessa chiesa. Tuttavia non sono poche le accuse che colpiscono l’oggi papa argentino per quei sei anni da provinciale gesuita dal 1973 al 1979. Quella più grave e circostanziata gli viene mossa in particolare da Horacio Verbitsky, l’autore di “El Vuelo”, il primo libro che denunciava i voli della morte, sempre scrupoloso nelle sue denunce, e oggi presidente del CELS, la più importante istituzione in difesa dei diritti umani del paese, è l’aver privato di protezione alcuni giovani parroci del suo ordine, troppo esposti nel lavoro sociale con i più poveri. Due di loro furono sequestrati per cinque mesi. Uno di questi, Orlando Yorio, denunciò a Verbitsky di essere stato consegnato da Bergoglio allo stesso Massera e sono molte le testimonianze sull’amicizia tra il nuovo papa e l’Ammiraglio piduista: «Bergoglio se ne lavò le mani. Non pensava che uscissi vivo». Per Emilio Mignone, una delle più cristalline figure di difensore dei diritti umani in Argentina, che conferma i dettagli della denuncia di Verbitsky, e autore di uno dei testi tuttora fondamentali su chiesa e dittatura, Bergoglio «è uno di quei pastori che hanno consegnato le loro pecorelle». Le accuse di Verbitsky sono confermate anche da Olga Wornat, il lavoro della quale è in genere suffragato da un numero enorme di testimonianze.
Dopo la dittatura, anche negli ultimi anni, Bergoglio fu chiamato a testimoniare in molteplici circostanze in inchieste e processi per violazioni di diritti umani. Non ha mai parlato. Chi scrive ha personalmente verificato in queste ore il suo silenzio con il PM che indagava sul sequestro di una giovane incinta. Se quelli indicati sono precedenti che ne fanno un complice pieno della dittatura sta al lettore deciderlo. A chi scrive il puntare il dito sembra troppo e l’assoluzione troppo poco. Bergoglio non fu né un Aramburu né un Von Wernich ma neanche un padre Mujíca, uno dei sacerdoti assassinati. Sta in una zona grigia, un quarantenne in ascesa, con un ruolo importante ma non ancora di spicco, in una chiesa argentina dove si mandava ad uccidere o si rischiava di essere uccisi.
Bergoglio era dal 1973 provinciale dei gesuiti. In un ordine tradizionalmente progressista, e condotto da Padre Arrupe, il papa nero che nei primi anni ‘80 si scontrava e veniva ridotto all’impotenza da Giovanni Paolo II, è Bergoglio ad essere emarginato dai suoi. Per Luís “Perico” Pérez Aguirre, prestigioso gesuita uruguayano, fondatore del SERPAJ e consigliere dell’ONU in materia di diritti umani, che chi scrive ha avuto occasione di conoscere e ammirare, prima della morte nel 2000, in una testimonianza raccolta da Olga Wornat: «Bergoglio [che si era da tempo votato ad una relazione di obbedienza asosluta a Karol Wojtyla] stravolse completamente il segno della Compagnia da progressista in conservatrice e retrograda. Ho rotto ogni rapporto con lui, soprattutto rispetto al suo agire durante la dittatura».
Il cambiamento sarà strutturale, nella retrograda Chiesa argentina la Compagnia non fa più eccezione. Lui però guarda oltre ed è al di fuori del suo ordine che saprà tornare in pista. Formalmente ancora gesuita, dal 1979 in avanti si muoverà al di fuori. Della sua carriera Bergoglio deve molto al successore di Primatesta, Antonio Quarracino. Differente da Primatesta, e con un lontano passato progressista concluso già alla fine degli anni ’60, Quarracino era tutt’altro che un santo. L’ostentazione della ricchezza, basta pensare ad Aramburu, è un altro tratto delle gerarchie argentine dal quale il nuovo papa è completamente esente. Scegliere come ausiliare Bergoglio, quel vescovo semplice e irreprensibile, era per Quarracino una maniera di coprirsi il fianco da tante critiche.
Non si comprometteva Bergoglio con le feste che frequentava il Cardinal Quarracino nella casa di Olivos e dove s’intratteneva come un Apicella qualsiasi suonando la chitarra per Carlos Menem. Erano altri anni oscuri per l’Argentina, quelli del menemismo. Molte cose distanziavano i due prelati. Il primate aveva interessi mondani, l’ausiliare faceva il vescovo, centrando la propria missione nella formazione del clero e nell’attenzione al popolo delle villa miseria che circondano tutt’ora il gran Buenos Aires. Bergoglio seppe mantenere con Quarracino relazioni cordiali ma distanti. Forse era l’unica maniera di tener fede sia ai voti di castità e povertà che a quello di obbedienza.
Fu in questa relazione tra due prelati così diversi che Bergoglio si costruì un ruolo di punto di riferimento per una nuova generazione di sacerdoti argentini anche quando, primo gesuita della storia, succederà a questo nel 1998. Sulle sue spalle cadrà di nuovo il peso di riscattare una chiesa cattolica dal passato tenebroso. Emergeranno però anche le caratteristiche che oggi lo portano al soglio pontificio: la mano di ferro con la quale ha condotto la chiesa argentina (e che ne fa uno spauracchio ora per la curia romana), la marcata preoccupazione sociale, la critica alla politica. Soprattutto Bergoglio –ed è un punto di forza rilevante- risulta straordinariamente interessato alla vita del suo clero. Si preoccupa per le necessità materiali, è presente, è vicino e accessibile. Perfino Clelia Luro (testimonianza a chi scrive), la terribile compagna del vescovo Jerónimo Podestá, salva solo Bergoglio di tutto il clero argentino che aveva isolato il prelato che aveva deciso di combattere la battaglia per la fine del celibato. Bergoglio, nonostante non condividesse la decisione del vescovo, che fu infine ridotto allo stato laicale, gli rimase vicino umanamente fino alla fine.
Il passato ritorna però e il profilo di Bergoglio resta basso. Tenta di difendere se stesso e la chiesa argentina. In particolare per quest’ultima c’è poco da difendere. Primatesta e Aramburu avevano eretto un muro di inaccessibilità ai familiari delle vittime che neanche in chiesa –al contrario di quanto era successo con la Vicaría della Solidaridad a Santiago del Cile- avevano trovato sicurezza. Una macchia indelebile che continua a distanziare molti fedeli dalla Chiesa cattolica. Lui ha scelto di denunciare in maniera generica e spesso netta i peccati (con una posizione non lontana dalla teoria dei due demoni) ma di salvare i peccatori, sia quando è stato chiamato a testimoniare in tribunale, sia quando ha scritto o ha preso decisioni politiche. Quando nel 2007 fu chiamato a prendere provvedimenti nei confronti di Christian Von Wernich, il sacerdote condannato all’ergastolo per avere sequestrato personalmente 42 persone, assassinate 7 e torturate 32, espresse parole forti ma non comminò alcuna sanzione come tutto il mondo democratico e dei diritti umani chiedeva. Von Wernich sta oggi scontando l’ergastolo ma è a tutti gli effetti un sacerdote e nessun provvedimento disciplinare è stato preso nei confronti del carnefice che le vittime descrivono come un vero demonio.
Ma chi è davvero Jorge Bergoglio, Papa Francesco I che comincia il suo cammino di Vescovo di Roma con un passato così pesante? Integralista di destra mette i poveri al centro del suo apostolato. Vicino alla dittatura militare rende omaggio ai sacerdoti assassinati da questi ultimi. Ha fatto una carriera tutta controcorrente, conservatore in un ordine considerato progressista, primo gesuita primate argentino, primo gesuita papa, primo papa latinoamericano. Nemico dei progressisti e di tutti i politici (li detesta e non lo manda a dire, quasi grillino in questo) e lontano dagli organismi per i diritti umani, esige dallo Stato educazione cattolica ed è contrario ai contraccettivi, ma nessuno può accusarlo di non onorare i propri voti, in particolare quello di povertà. Chi scrive sconsiglia di incastrarlo nella figura a lui aliena di sacerdote proveniente da una “chiesa giovane” e varie altre semplificazioni giornalistiche che domattina troveremo. Viene da una chiesa strutturata e complessa e da una realtà metropolitana dura. L’associazione con Medellin poi è del tutto fuori luogo. L’attenzione di Bergoglio per i poveri è di stampo infaticabilmente caritatevole, mai politico. Tuttavia bisogna rifuggere anche l’interpretazione tenebrosa del complice della dittatura tout court, come quella di una papa scelto per fermare il cambiamento in America. Nonostante sia una figura ben diversa da quella di Ratzinger, è un papa con tratti di forte continuità soprattutto con Karol Wojtyla. Questo combatté e vinse la battaglia con la teologia della liberazione senza comprendere le ragioni di questa, per perdere poi quella con le chiese protestanti. È lì che va atteso fin dal prossimo viaggio in Brasile il nuovo papa.
A Buenos Aires, dicono gli amici ma senza che alcun detrattore lo contesti, sparisce ogni volta che può per infilarsi in orfanotrofi, carceri, ospedali a compiere il suo apostolato. Chissà se potrà farlo anche a Roma.
Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo
Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia della sinistra. È stato uno di quei dirigenti politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria grande latinoamericana. Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.
L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”. Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale. Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali. Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica, massacrava nell’89 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia, ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari. Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da operetta europea non ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia. È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte degli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.
Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonico rispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito. Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.
Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in unamaquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!
Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa. La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.
Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo
Karol Wojtyla: quello che i media evitano di ricordare
Questo articolo è stato pubblicato in originale sul settimanale Brecha di Montevideo
Il primo maggio, occupando in maniera per niente casuale una data tradizionale del mondo del lavoro e della sinistra laica, Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II, sarà beatificato appena sei anni dopo la morte. Per la chiesa cattolica è uno scalino necessario verso la santità.
Anche se circa due milioni di fedeli starebbero viaggiando verso Roma in queste ore, l’opera di Wojtyla mantiene aspetti polemici, rigorosamente dimenticati in questi giorni per le sue omissioni nelle denunce dei casi di pedofilia, per la sua alleanza con le dittature latinoamericane e con prelature discusse come l’Opus Dei e i Legionari di Cristo o per la sua guerra senza quartiere contro la modernità, la chiesa di base e lo spirito del Concilio Vaticano II.
Entrate nella cattedrale di San Salvador, in realtà poco più di una parrocchia di periferia rispetto allo splendore dell’Antigua Guatemala, la sede della Capitania dell’impero, e guardate alla destra della navata centrale. Non confondetevi! Quel sacerdote sorridente rappresentato in quella gigantesca pittura non è monsignor Oscar Arnulfo Romero, il vescovo assassinato nel 1980 dagli squadroni della morte del governo di ultradestra. Quel prete, lo sguardo mansueto del quale è impossibile evitare di incrociare, è San José María Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, l’organizzazione che riunisce cattolici eccellenti e della quale Karol Wojtyla fu sdoganatore e sicuro alleato politico. Tanto alleato da santificare il polemico sacerdote basco senza considerare la vicinanza di questo alla dittatura franchista spagnola, l’antisemitismo, lo scandaloso acquisto di un titolo nobiliare, le denunce sulla manipolazione dello stesso processo di santità. Quello che importava era offrire un santo alla classe dirigente cattolica, fieramente anticomunista, che interpretasse un cattolicesimo nel quale denaro e potere fossero celebrati come un cammino verso la salvezza.
Per trovare segni che ricordino monsignor Romero, il viaggiatore che visiti El Salvador –tra questi Barack Obama arrivato fin lì lo scorso marzo- deve cercare una cappellina, spesso chiusa, collocata all’esterno di una cattedrale rigorosamente controllata dall’Opus. Anche se i fedeli umili e il piccolo mercatino all’esterno è tutto per Romero, la gloria di dio –del dio ufficiale- appare tutta riservata a Escrivá.
Escrivá, santo; Wojtyla (per ora) beato; e Romero… niente. Pochi mesi prima del suo martirio, il 7 maggio del 1979, il vescovo centroamericano aveva presentato a Giovanni Paolo II un dossier sulle violazioni dei diritti umani nel suo paese. Tra i documenti vi erano le foto del corpo di un giovane sacerdote torturato e assassinato dai militari. Dall’udienza Romero era uscito dicendosi “costernato” per il gelo col quale la sua denuncia era stata accolta dal papa: “deve avere relazioni migliori col suo governo” furono le categoriche parole del pontefice.
Con quelle parole il cammino verso la santità aveva smesso di essere un mistero per rispondere a una logica politica terrena che in America latina per Karol Wojtyla significò l’alleanza con molti Augusto Pinochet e con i carnefici del Piano Condor. Così si spiega perché, dopo 31 anni, il processo di beatificazione di Romero si sia perduto negli archivi della Congregazione per le cause dei santi, mentre la causa del fondatore dell’Opus seguiva un cammino accelerato. Molteplici testimoni, tra i quali Ernesto Cardenal, sacerdote e ministro della Cultura nel Nicaragua sandinista, raccontano che lo stesso Wojtyla spiegò pubblicamente che la beatificazione di un martire come Romero non era opportuna perché “sarebbe stata strumentalizzata dalla sinistra”.
Allo stesso cammino percorso da Escrivá era destinato un altro alleato di Wojtyla e tra gli uomini simbolo della chiesa anticonciliare, Marcial Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo, una sorta di Opus alla destra dell’Opus, oggi molto vicina al governo di Felipe Calderón in Messico. Anche se è dimostrato che dal 1976 il futuro papa fosse informato di severe critiche a Maciel, anche questo era destinato a una santità fast track, nonostante le sue due concubine, i vari figli che personalmente stuprò per anni, le accuse di furto, malversazioni, appropriazioni indebite e altri delitti. Solo dopo la morte di Wojtyla Maciel smise di essere un santo vivente e solo dopo la scomparsa di questo, avvenuta nel 2008, la chiesa cattolica si vide obbligata a smettere di coprire le colpe di questo. Con Maciel si era ripetuta per decenni la pratica wojtylista del silenzio assoluto: il papa era con certezza informato e aveva svolto un ruolo attivo nell’occultare i crimini di Maciel, che andavano ben oltre gli abusi sessuali come quelli di centinaia di preti pedofili, cominciando dal cardinale austriaco Hans Hermann Groër e lo statunitense Bernard Law.
Così domani sarà beatificato il Wojtyla alleato dei Maciel e degli Escrivá, nemico di Romero, lasciato solo nel suo martirio, e implacabile cacciatore di streghe nella chiesa cattolica latinoamericana uscita dal Congresso Eucaristico di Medellin del 1968 con quell’intollerabile “opzione preferenziale per i poveri”. Fu contro la Teologia della Liberazione che Giovanni Paolo II compì il primo dei suoi innumerevoli viaggi all’estero. Nel gennaio del 1979 andò a Puebla, Messico, per la terza conferenza episcopale latinoamericana, alla quale impresse una svolta duramente conservatrice. Da allora centinaia e centinaia di religiosi progressisti furono rimossi e ridotti al silenzio da Giovanni Paolo II. Il primo fu uno dei massimi teologi conciliari, Bernard Häring. Tra le figure di maggior spicco vi fu Pedro Arrupe, preposito generale gesuita, il vescovo dei migranti e delle prostitute, il francese Jacques Gaillot, che umiliò assegnandolo all’inesistente diocesi di Partenia, al vescovo di San Cristóbal de las Casas, Samuel Ruiz, sensibile al mondo indigeno e zapatista.
È così che tra gloria e fumi d’incenso si arriva ad una beatificazione ritardata il minimo indispensabile per mantenere la decenza di un processo che lo slogan “santo subito” pretendeva di saltare. A Roma un merchandising più o meno kitsch sul “beato Wojtyla” invade Via della Conciliazione. Lo stesso succede a Wadowice, nel sud della Polonia dove il papa nacque 91 anni fa e secondo punto più importante delle celebrazioni. Oltre mezzo milione di pellegrini visitano ogni anno conventi e hotel, chiese e ristoranti e il museo dedicato a Giovanni Paolo II che proprio domani inaugurerà altri mille metri di spazi espositivi.
Anche in questo contesto l’immagine di Wojtyla, con un messaggio generico di pace e amore che non fa onore alla complessità e alla statura indiscutibile del personaggio, nasconde la realtà di una chiesa cattolica polacca appiattita ogni giorno di più sul partito di ultradestra, razzista, antisemita, ultranazionalista del defunto Lech Kaczynsky e del suo gemello Jaroslav. L’appiattimento sulla destra reazionaria più volgare, il Pis (Legge e Giustizia) dei gemelli Kaczynsky, come i messaggi antisemiti lanciati ogni giorno da Radio Maria sono la testimonianza della miserabile fine dell’incontro tra il cattolicesimo e il Secolo impostato su ben altri canoni dal Wojtyla di Solidarnosc.
Non è un caso che la situazione polacca sia simile a quella dell’altro paese dove il wojtylismo incise più profondamente: l’Italia. Le gerarchie cattoliche non si sono mai distanziate dal governo di Silvio Berlusconi nonostante i continui scandali sessuali e di corruzione, l’alleanza con la Lega Nord e l’assoluta mancanza di carità verso i migranti. Il primo ministro continua a comprare il loro silenzio concedendo enormi vantaggi economici in termini di finanziamenti alla scuola privata o esenzioni fiscali e impedendo qualunque dibattito su temi etici come la fecondazione assistita, i matrimoni omosessuali, le cure palliative. Ciò anche se vari scienziati, tra i quali l’anestesista Lina Pavanelli, abbiano studiato come lo stesso Wojtyla abbia deliberatamente interrotto le sue cure, accelerando la morte, cosa che la chiesa considera peccato mortale per i comuni fedeli. È il Wojtyla conservatore, sempre irriducibilmente contro qualunque tipo di contraccezione e contro l’uso del preservativo nella lotta all’AIDS. È il Wojtyla che preferiranno non ricordare domenica a Roma.
Leggi anche: Chiaroscuro di un papa (3 aprile 2005)