Il periodo
che corre tra il 1970 e il 1974 registra la proliferazione di movimenti
extraparlamentari,
la nascita
di sempre nuove organizzazioni eversive paramilitari o terroristiche, la
moltiplicazione
di gravi
delitti politici - secondo forme affatto nuove per il Paese - la rinnovata
virulenza della
malavita
comune e delle sue organizzazioni criminali.
Sono
questi gli avvenimenti che formano il quadro entro cui si sviluppa quella che
venne definita
la «strategia della tensione», favorita dalla crisi economica e dalla crescente
instabilità del quadro
politico.
Quegli
anni, oltre ad essere caratterizzati, come abbiamo già visto, dall'intensa
opera di
politicizzazione
della loggia svolta da Licio Gelli, si contraddistinguono anche per i
collegamenti
che ci è
consentito di identificare tra Licio Gelli, la Loggia P2, suoi qualificati
esponenti ed il
complesso
mondo dell'eversione nera.
Dal
materiale in possesso della Commissione si trae infatti la ragionata
convinzione, condivisa
peraltro
da organi giudiziari, che la Loggia P2 attraverso il suo capo o suoi esponenti
(le cui
iniziative
non possono considerarsi sempre soltanto a titolo personale) si collega più
volte con
gruppi ed
organizzazioni eversive, incitandoli e favorendoli nei loro propositi criminosi
con una
azione che
mirava ad inserirsi in quelle aree secondo un disegno politico proprio, da non
identificare
con le finalità, più o meno esplicite, che quelle forze e quei gruppi ponevano
al loro
operato.
Al fine di
procedere ad una lettura politica di queste relazioni e di questi collegamenti
è d'uopo
individuare
entro la vasta mole di materiale documentale - peraltro ampiamente incompleto:
né
altrimenti
poteva essere, in considerazione della vastità dell'argomento - che alla
Commissione è
pervenuto,
alcuni episodi che si ritengono più significativi ai fini della nostra
indagine, secondo il
metodo di
analisi espresso nell'introduzione al presente lavoro.
Prima tra
tali situazioni nelle quali appare sicuramente documentato un coinvolgimento
significativo
di Licio Gelli e di uomini della loggia, è il cosiddetto golpe Borghese,
attuato nella
notte tra
il 7 e l'8 dicembre 1970, sotto la spinta degli esponenti oltranzisti del
Fronte Nazionale, i
quali
avevano da ultimo prevalso all'interno dell'organizzazione.
La vicenda
ha registrato un lungo e non facile iter processuale, concluso con sentenza
passata in
giudicato,
sul cui esito non è qui il caso di entrare, perché ai fini che a noi
interessano quel che più
preme è
porre l'accento su alcuni aspetti sicuramente documentati che suffragano
l'ipotesi
prospettata
della collusione esistente tra esponenti della loggia con questa situazione
eversiva, tale
da
consentire una valutazione attendibile del rilievo concreto che tali contatti
ebbero a rivestire.
E’ così
dato rilevare prima di tutto come molti dei personaggi che nel golpe ebbero un
ruolo non
secondario appartengano alla Loggia P2 o alla
massoneria: così
infatti troviamo tra gli attori di
quella
vicenda Vito Miceli, Duilio Fanali, Sandro Saccucci (da più fonti indicato come
appartenente
alla massoneria) assieme ad altri imputati del golpe quali Lo
Vecchio, Casero, De
Jorio, che tutti figurano nelle liste di Castiglion Fibocchi.
Altre fonti poi riconducono alla
massoneria
sia Salvatore Drago, accusato di aver disegnato la pianta del Ministero
dell'interno, sia
il
costruttore Remo Orlandini, che l'ispettore Santillo, nella sua terza
nota informativa, indica più
specificamente
come appartenente alla Loggia P2.
Questo
primo dato di palese riscontro è suffragato da ulteriori testimonianze, anche
documentali,
dalle
quali si evince come ambienti massonìci si fossero posti in posizione di
collateralità o
fiancheggiamento
con i gruppi che al Borghese facevano capo. Esplicita in questo senso la lettera
di Gavino
Matta (comunione
di Piazza del Gesù) al principe Borghese: «Caro
Comandante, debbo
comunicarle che la Loggia non intende
assecondare la sua iniziativa, essendo per principio
fondamentalmente contraria ai metodi
violenti. Con la presente, pertanto, vengo autorizzato ad annullare
ogni precedente intesa...».
Questi
elementi di indubbio riscontro fanno da cornice a situazioni di più puntuale
incisività in
ordine al
ruolo che due personaggi quali Licio Gelli ed il Direttore del SID, Vito
Miceli, ebbero a
ricoprire
durante e dopo il golpe. Come noto, punto cruciale di quella vicenda fu
l'inopinato, per
gli
esecutori, arresto delle operazioni già avviate: Orlandini, stretto
collaboratore del Borghese,
dirà che
non poca fatica gli costò correre ai ripari per fermare quei gruppi che già
erano entrati in
azione. Lo
sconcerto provocato tra i congiurati da quella improvvisa inversione di marcia
è del
resto ben
testimoniato dalla reazione di Sandro Saccucci, che poche settimane dopo ebbe
ad
esprimere
l'auspicio che il responsabile venisse «preso», distinguendo nella vicenda la posizione
dei
golpisti da quella di «altre piccole manichette, più o meno in
divisa».
Numerose comunque sono
le
testimonianze dalle quali si evince la convinzione diffusa tra quanti avevano a
vario titolo preso
parte
all'operazione «che qualcosa non aveva funzionato», o, come affermò Mario
Rosa, stretto
collaboratore
di Borghese «...è la valvola di testa che non ha concorso
a quello che doveva concorrere…».
Recentemente
alcune deposizioni di appartenenti agli ambienti dell'eversione nera consentono
di
indirizzare
l'attenzione direttamente su Licio Gelli in relazione al contrordine operativo
che
paralizzò
l'azione insurrezionale. Si hanno infatti testimonianze secondo le quali il
Venerabile era
ritenuto
elemento determinante nel contrordine: tale il convincimento di Fabio
De Felice, il quale
ne fece
parte ad un giovane adepto, Paolo Aleandri, che poi provvide a mettere in contatto con
Licio
Gelli. L'incarico era quello di tenere i contatti tra questi e l'avvocato De
Jorio, allora latitante
a
Montecarlo; e in tale veste l'Aleandri ebbe numerosi incontri con Licio Gelli,
che si sarebbe
prodigato
per «alleggerire» la posizione processuale degli imputati. Le deposizioni
dell'Aleandri -
che trovano
conferma in quelle di altri elementi quali Calore, Sordi, Primicino - hanno il pregio di
fornire la
prova del contatto diretto tra Licio Gelli e quegli ambienti, aggiungendo un
riscontro
preciso
alle considerazioni generali già espresse.
E’ stato
altresì testimoniato che Licio Gelli teneva il contatto con ufficiali dei
carabinieri, e certo è
che tra i
congiurati era diffusa l'opinione che ambienti militari sostenevano o quanto
meno
tolleravano
l'operazione. Certo, il Borghese si esprimeva nel suo proclama con decisione: «Le Forze
Armate sono con noi».
A loro
volta questi elementi ben si inquadrano nel contesto di una serie di
deposizioni dalle quali
emerge
come la generazione immediatamente successiva a quella direttamente coinvolta
nel golpe
Borghese vedeva nel Gelli l'espressione di ambienti «che in forma più o meno palese venivano
contattati, però non con l'esplicita
richiesta di aderire ad un golpe, quanto per avvicinarli a posizioni che
implicassero un loro consenso per una svolta
autoritaria o comunque per una democrazia forte». Tale
almeno
l'interpretazione di Fabio De Felice.
Sta di
fatto che nell'analisi che questa generazione forniva di quegli eventi si
assumeva che
un'opera
di strumentalizzazione fosse poi stata messa in atto proprio dal Gelli e da
coloro che gli
erano
vicino. Per tali considerazioni venne prospettata persino l'eventualità di
eliminare
fisicamente
il Venerabile della Loggia P2, segno questo che la presenza di Gelli in quegli
ambienti
aveva
assunto un rilievo non secondario, incidendo sulla loro operatività con
conseguenze che
venivano
valutate come deleterie per l'organizzazione.
Accanto
alla figura di Licio Gelli, un altro elemento di spicco nell'analisi di questa
vicenda è
costituito
dal generale Vito Miceli, direttore del SID dal 1970 al 1974. In proposito
quello che a noi
interessa
è rilevare come sia accertata l'esistenza di contatti tra il generale Miceli,
allora nella sua
veste di
capo del SIOS, Orlandini e Borghese, contatti da far risalire al 1969, epoca
nella quale il
generale
entra nella Loggia P2. Tali eventi si accompagnano significativamente alla sua
nomina al
vertice
dei Servizi, che il Gelli si vantò, come sappiamo, di aver favorito e che
precede di poco il
tentativo
insurrezionale guidato dal principe nero.
Contatti
aveva altresì il generale Miceli con Lino Salvini, al quale aveva consentito di
mettersi in
contatto
con lui sotto lo pseudonimo di «dottor Firenze».
Questi
dati, unitariamente considerati, vanno letti in parallelo con la successiva
inerzia del
generale
nei confronti delle indagini sul Fronte Nazionale, condotte dal reparto D guidato dal
generale Maletti. Con questi il Miceli entrò poi in
contrasto, avendo richiesto lo scioglimento del
nucleo
operativo facente capo al capitano La Bruna; e va a tal proposito sottolineata la
svalutazione
che il direttore del SID faceva dei risultati investigativi raggiunti sul
golpe, come non
mancò di
esternare all'onorevole Andreotti e all'ammiraglio Henke.
Gli
elementi conoscitivi indicati, che non esauriscono di certo una situazione
oggetto di una
contrastata
vicenda giudiziaria, debbono essere a questo punto del discorso inquadrati
nell'ambito
delle
considerazioni alle quali siamo pervenuti analizzando il rapporto tra Gelli ed
i Servizi
segreti.
Il dato
relativo all'appartenenza di Licio Gelli a quegli ambienti va considerato alla
luce delle
successive
attività che vedono il Venerabile impegnato a venire in soccorso degli
imputati,
svolgendo
un'azione che si muove significativamente in perfetta sintonia con la
documentata
inerzia
del Direttore del SID. Il minimo che si possa dire è che questi non sembra aver
seguito con
particolare
accanimento le indagini sul Fronte Nazionale, pur avendo avuto contatti diretti
con i
suoi
massimi dirigenti.
Contatti
che peraltro egli aveva giustificato proprio con la necessità di acquisire
informazioni,
nella sua
veste di dirigente di apparati informativi. E’ del pari in tale prospettiva che
vanno
valutate
sia le diffuse convinzioni maturate nell'ambiente golpista sul ruolo di Licio
Gellí, quale
cerniera
di raccordo con gli ambienti militari, che il risentimento maturato per il
fallimento
dell'operazione.
Come si
vede, anche muovendo da questa situazione l’analisi ci conduce alla figura di
Licio Gelli,
al suo
ruolo di elemento intrinseco ai Servizi, come del resto riteneva il De Felice,
ma soprattutto
alla
individuazione della Loggia P2 come struttura nella quale ed attraverso la
quale si intrecciano
rapporti e
si stabiliscono collegamenti la cui ortodossia lascia ampi margini di dubbio,
anche
accedendo
alla più benevola delle valutazioni.
Elementi
di estremo interesse ai nostri fini emergono poi dalla inchiesta condotta dal giudice
Tamburino di Padova sul movimento denominato Rosa dei Venti,
nel quale troviamo la presenza
di uomini
iscritti al «Raggruppamento Gelli», secondo quanto affermato dall'ispettore
Santillo
nelle sue
note informative. Venivano in tali documenti considerati come appartenenti
all'organizzazione
gelliana il generale Ricci, Alberto Ambesi e Francesco Donini. L'inchiesta
sulla «Rosa dei Venti» si segnala peraltro alla nostra attenzione
per due testimonianze raccolte
dal
giudice patavino che rivestono per noi un sicuro interesse se poste in
relazione ad altri
elementi
conoscitivi emersi nel corso del nostro lavoro.
Va
ricordato in primo luogo che il giornalista Giorgio Zicari ha testimoniato di aver collaborato
con l'Arma
dei carabinieri e con i Servizi segreti, entrando in contatto nel 1970 con Carlo
Fumagalli e Gaetano Orlando, elementi di spicco del gruppo dei MAR, ed
ottenendo da costoro
informazioni
per i detti apparati investigativi.
Quando nel
1974 lo Zicari venne riservatamente convocato dal giudice Tamburino, gli
accadde di
ricevere
nel giro di poche ore l'invito ad un colloquio con il generale
Palumbo nel corso
del quale
l'alto
ufficiale ebbe ad esprimersi nei seguenti termini: «...il tema
centrale fu che io non dovevo parlare,
che poteva succedermi qualcosa, dei fastidi,
che io avevo tutto da perdere dalla vicenda, che i magistrati
stavano tentando di sostituirsi allo Stato,
riempendo un vuoto di potere, che non si sapeva che cosa il giudice
Tamburino volesse cercare, che non ero
obbligato a testimoniare...».
Questa
iniziativa del generale Palumbo viene a collocarsi in modo preciso a sostegno
della già
ricordata
osservazione del generale Dalla Chiesa sulla collaborazione non particolarmente
motivata
degli ambienti della divisione Pastrengo nell’azione che il generale conduceva
contro il
terrorismo.
Va altresì rilevato che l'atteggiamento del generale Palumbo riporta alla
nostra
attenzione
il tipo di risposta che l'ammiraglio Casardi, direttore del SID, forniva ai giudici che
indagavano
sulla strage dell'Italicus quando si rivolsero al Servizio per ottenere
notizie su Licio
Gelli,
ottenendo un rinvio alle notizie apparse sulla stampa.
Sempre nel
corso del 1974 il giudice Tamburino raccolse alcuni riferimenti testimoniali
sul
cosiddetto
SID parallelo, il cui procedimento si chiuse infine con la richiesta
di archiviazione
formulata
dal Procuratore della Repubblica di Roma, accolta dal giudice istruttore in
data 22
febbraio
1980.
E’ di
particolare interesse, nel contesto di tali deposizioni, quanto ebbe a
dichiarare il generale
Siro Rossetti, uscito nel 1974 dalla Loggia P2 in
posizione polemica nei confronti di Licio Gelli.
L'alto
ufficiale in ordine al problema dell'esistenza di un'organizzazione parallela
ai Servizi
affermò: «...la mia esperienza mi consente di affermare che sarebbe assurdo che
tutto ciò non esistesse...»
ed
ancora «...a mio avviso l'organizzazione è tale e talmente vasta da avere
capacità operative nel campo
politico, militare, della finanza, dell’alta
delinquenza organizzata...».
Questa
descrizione letta oggi sulla base delle conoscenze acquisite in ordine alla
Loggia P2, non
può non
porsi per noi quale motivo di seria riflessione, soprattutto quando si ponga
mente alla
sua
provenienza da parte di un elemento che conosceva la loggia direttamente
dall'interno e che
professionalmente
si occupava di servizi di informazione.
Passando
ad altro argomento di ben più impegnativo rilievo, ricordiamo che i gruppi
estremistici
toscani
compirono parecchi degli attentati (specialmente ai treni) che funestarono
l'Italia tra il 1969
e il 1975.
Il generale Bittoni (P2), comandante la brigata dei Carabinieri di Firenze,
iniziò a
svolgere
indagini, cercando di dare impulso all'inchiesta e di coordinare le ricerche
dei comandi di
Perugia e
di Arezzo. L'impegno degli ufficiali aretini si rivelò, peraltro, del tutto
insufficiente,
come ebbe
a lamentare lo stesso Bittoni e come risulta dalle deposizioni dei
sottufficiali.
Rilevato
come ben due degli ufficiali superiori del comando di Arezzo
incaricati delle indagini
facessero parte della Loggia P2 (uno di essi parlò della relativa iscrizione
come di una «necessità»)
e che
Gelli rivolse al generale Bittoni discorsi sufficientemente equivoci da
provocarne una accesa
reazione,
non sembra azzardato mettere in rapporto di causa ed effetto l’infiltrazione
della Loggia
nell'Arma
e l'insufficienza dell'indagine. A questo si aggiunga che analoga situazione si
verificava
per la
questura della stessa città, essendosi potuta accertare l'iscrizione alla
Loggia non solo di due
dei suoi
funzionari, ma addirittura del questore pro tempore.
Anche in
tal caso appare legittimo mettere in rapporto di causa ed effetto il fenomeno
di
infiltrazione
piduista con disfunzioni «mirate»: così, ad esempio, nel caso della informativa
su
Gelli e Marsili
e sui rapporti del
primo con il gruppo Sogno e Carmelo Spagnuolo, richiesta dal
giudice
istruttore di Torino alla questura di Arezzo e mai ottenuta. Fu rinvenuta,
però, tra le carte
di
Castiglion Fibocchi copia dello scritto anonimo che aveva sollecitato alla
richiesta i giudici
torinesi:
il Venerabile era stato quindi tempestivamente informato ed aveva potuto
predisporre le
sue
difese. In definitiva, sembra potersi concludere sul punto che le infiltrazioni
piduistiche ad
Arezzo
nella Polizia e nei Carabinieri (ed il sospetto di infiltrazione anche nella
magistratura,
come si
vedrà in seguito) servirono in quegli anni a conferire al Gelli un'aura di
intangibilità,
lasciandogli
mano libera per tutte le proprie - non certo lecite - attività.
Un
discorso a parte merita, poi, la strage perpetrata con la collocazione di un
ordigno esplosivo
sul treno Italicus,
ordigno esploso nella notte fra il 3 ed il 4 agosto 1974.
I fatti
relativi sono stati già giudicati in primo grado dalla corte d'assise di
Bologna con sentenza
assolutoria
dubitativa che, pur se non passata in cosa giudicata, costituisce per la
Commissione
doveroso -
anche se non esclusivo - punto di' riferimento.
Le
istruttorie di una Commissione di inchiesta e quelle dell'autorità giudiziaria
penale hanno
infatti la
comune caratteristica di utilizzare prove storiche e prove critiche per
giungere, attraverso
un
processo logico esternato di libero convincimento, a determinate conclusioni.
Gli elementi
differenziali
riguardano invece l'oggetto e lo scopo dell'indagine. Quanto al primo occorre
rilevare
che la
giustizia penale ha come limite di accertamento realtà oggettivate od
oggettivabili, mentre
la
Commissione parlamentare può (e deve) tener conto anche di più soggettive
emergenze come
modi di
pensare, opinioni e convincimenti diffusi1.
Quanto al
secondo appare evidente che, mentre la giustizia penale ha un compito di accertamento
strumentale
rispetto ad affermazioni di responsabilità personali, la Commissione ha invece
quello
di un
accertamento funzionalizzato ad un più puntuale futuro esercizio dell'attività
legislativa, e
1 Corte
costituzionale, sentenza 231/75.
in esso vi
è dunque spazio per affermazioni di responsabilità che siano di tipo morale o
politico,
secondo la
natura propria dell'istituto.
Tanto
doverosamente premesso ed anticipando le conclusioni dell'analisi che ci si
appresta a
svolgere,
si può affermare che gli accertamenti compiuti dai giudici bolognesi, così come
sono stati
base per
una sentenza assolutoria per non sufficientemente provate responsabilità
personali degli
imputati,
costituiscono altresì base quanto mai solida, quando vengano integrati con ulteriori
elementi
in possesso della Commissione, per affermare:
1) che la strage dell'Italicus è ascrivibile
ad una organizzazione terroristica di ispirazione
neofascista o neonazista operante in Toscana;
2) che la Loggia P2 svolse opera di
istigazione agli attentati e di finanziamento nei confronti
dei gruppi della destra extraparlamentare
toscana;
3) che la Loggia P2 è quindi gravemente
coinvolta nella strage dell'Italicus e può ritenersene
anzi addirittura responsabile in termini non
giudiziari ma storico-politici, quale essenziale
retroterra economico, organizzativo e morale.
Gioverà a
tal fine riportarsi direttamente agli accertamenti giudiziari. Già nella
sentenza-ordinanza
bolognese
di rinvio a giudizio (14. 4. 1980) si leggeva: «Dati, fatti e
circostanze autorizzano
l'interprete a fondatamente ritenere essere
quella istituzione (la
Loggia P2 n.d.r.), all'epoca degli eventi
considerati, il più dotato arsenale di
pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale: e ciò in
incontestabile contrasto con le proclamate
finalità statutarie dell'istituzione».
Più
puntualmente nella sentenza assolutoria d'Assise 20.7.1983-19.3.1984 si legge
(i numeri tra
parentesi
indicano le pagine del testo dattiloscritto della sentenza):
«(182) A giudizio delle parti civili, gli attuali imputati, membri dell'Ordine
Nero, avrebbero eseguito la
strage in quanto ispirati, armati e
finanziati dalla massoneria, che dell'eversione e del terrorismo di destra si
sarebbe avvalsa, nell'ambito della
cosiddetta "strategia della tensione" del paese creando anche i
presupposti
per un eventuale colpo di Stato. La tesi di
cui sopra ha invero trovato nel processo, soprattutto con
riferimento alla ben nota Loggia massonica
P2, gravi e sconcertanti riscontri, pur dovendosi riconoscere una
sostanziale insufficienza degli elementi di
prova acquisiti sia in ordine all'addebitalità della strage a Tuti
Mario e compagni, sia circa la loro
appartenenza ad Ordine Nero e sia quanto alla ricorrenza di un vero e
proprio concorso di elementi massonici nel
delitto per cui è processato».
Significativamente,
poi, si precisa in proposito:
«
(183-184) Peraltro risulta adeguatamente dimostrato:
a) come la Loggia P2, e per essa il suo capo
Gelli Licio (dapprima "delegato" dal Gran Maestro della
famiglia massonica di Palazzo Giustiniani,
poi - dal dicembre 1971 - segretario organizzativo della
Loggia, quindi - dal maggio 1975 - Maestro
Venerabile della stessa), nutrissero evidenti propensioni al
golpismo;
b) come tale formazione aiutasse e
finanziasse non solo esponenti della destra parlamentare (all'udienza in
data 27.10.1982 il generale Rosseti Siro,
già tesoriere della Loggia, ha ricordato come quest'ultima
avesse, tra l'altro, sovvenzionato la
campagna elettorale del "fratello" ammiraglio Birindelli), ma anche
giovani della destra extraparlamentare,
quanto meno di Arezzo (ove risiedeva appunto il Gelli);
c) come esponenti non identificati della
massoneria avessero offerto alla dirigenza di Ordine Nuovo la
cospicua cifra di L. 50 milioni al
dichiarato scopo di finanziare il giornale del movimento (vedansi sul
punto le deposizioni di Marco Affatigato, il quale ha specificato essere stata tale offerta declinata da
Clemente
Graziani);
d) come nel periodo ottobre-novembre 1972 un sedicente massone della
"Loggia del Gesù" (si ricordi che a
Roma, in Piazza del Gesù, aveva sede
un'importante "famiglia massonica" poi fusasi con quella di
Palazzo Giustiniani), alla guida di un'auto
azzurra targata Arezzo, avesse cercato di spingere gli
ordinovisti di Lucca a compiere atti di
terrorismo, promettendo a Tomei e ad Affatigato armi, esplosivi
ed una sovvenzione di L. 500.000».
Aggiunge
significativamente il magistrato: «appare quanto meno estremamente probabile» - si legge a
pag. 193 -
che anche tale «fantomatico massone appartenesse alla Loggia
P2».
La
conclusione, su questo punto corre - significativamente - come segue: «(194) Peraltro tali
importanti dati storici non sembrano
ulteriormente elaborabili ai fini della costruzione di una indiscutibile
prova di colpevolezza dei prevenuti circa la
strage del treno Italicus».
La
statuizione - che non spetta alla Commissione valutare - appare ispirata al
principio di
personalità
della responsabilità penale ed a quello di presunzione di innocenza: letta in
controluce
e con
riferimento alla responsabilità storico-politica delle organizzazioni che
stanno dietro agli
esecutori
essa suona ad indiscutibile condanna della Loggia P2. Una condanna rafforzata
dalle
enunciazioni
contenute nella prima parte della sentenza ove si esterna il convincimento del
giudice
sulla matrice ideologica ed organizzativa dell'attentato, una matrice
ovviamente
irrilevante
in sede penale finché non si individuino mandanti, organizzatori od esecutori
ma
preziosa
in questa sede.
Scrivono
ancora, infatti, i giudici bolognesi: «(13-14) Premesso
doversi ritenere manifesta la natura
politica dell'orrendo crimine di che
trattasi (anche in assenza di inequivoche rivendicazioni), data la natura
dell'obiettivo colpito e la gravità delle
prevedibili conseguenze della strage sul piano della pacifica
convivenza civile (fortunatamente poi
risultate assai modeste per la “tenuta” della collettività) e dato
l'inserimento dell'attentato in un contesto
di analoghi crimini politici verificatisi in Italia negli anni 1974-
1975 (si pensi alla strage di Piazza della
Loggia ed alle bombe di Ordine Nero)»; ed ancora: «(15) è pacifica
l'immediata ascrivibilità del fatto ad
un'organizazzione terroristica che intendeva creare insicurezza
generale, lacerazioni sociali, disordini
violenti e comunque (nell'ottica della cosiddetta strategia della
tensione) predisporre il terreno adatto per
interventi traumatici, interruttivi della normale, fisiologica e
pacifica evoluzione della vita politica del
Paese.
Ebbene, non è dubbio che, nel variegato quadro
delle organizzazioni terroristiche operanti in Italia negli anni
in cui fu eseguito il crimine al nostro
esame, l'impiego delle bombe e la loro collocazione preferenziale su
obiettivi "ferroviari"
caratterizzasse, usualmente, gruppi di ispirazione neofascista e neonazista (si
ricordino
gli attentati sulla linea ferroviaria
Roma-Reggio Calabria in occasione dei disordini di Reggio Calabria e dei
successivi raduni, il mancato attentato in
cui venne ferito Nico Azzi, l'attentato di Vaíano, rivendicato dalle
Brigate Popolari Ordine Nuovo, gli attentati
dicembre 1974-gennaio 1975, per cui furono condannati dalla
corte di assise di Arezzo proprio Tuti e
Franci) e che fra tali gruppi debba annoverarsi come già vivo e vitale,
nell'agosto 1974, quello ricomprendente Tuti
e Franci».
Concludono
peraltro malinconicamente i giudici bolognesi con la constatazione di un limite
invalicabile
alla loro indagine, costituito dal fatto che «l'imputazione
riguarda solo esecutori materiali e
non, ahimè, lontani mandanti».
Già tanto
potrebbe bastare per legittimare le conclusioni sopra anticipate. A ciò si
aggiunga che
sospetti
di protezione dell'ultra-destra eversiva gravano su ben individuati uffici
della
magistratura
aretina. Persino la sentenza di Bologna (pag. 191) ne riferisce, confermando il
convincimento
degli eversori neri di poter contare sull'importante protezione di un
magistrato
affiliato
ad una potentissima loggia massonica, e risultano agli atti dichiarazioni assai
gravi
relative
ad autorizzazioni di intercettazioni telefoniche non concesse ed ordini di
cattura non
emessi2. Il dato - al di là di responsabilità individuali su
cui non è questa la sede per disquisire – è
dimostrativo
di una di quelle «opinioni» o «stati d'animo» significativi - fondati o meno
che siano -
che
legittimamente una commissione d'inchiesta accerta e da cui altrettanto
legittimamente trae
motivi di
convincimento.
Le
affermazioni dei giudici competenti vanno adesso riportate alle conoscenze
proprie della
Commissione
ed in particolare a due dati di conoscenza emersi con particolare significato
in
questa
relazione.
2 Deposizioni
Cherubini e Carlucci. Vedasi anche deposizione Filastò 3 luglio 1981 resa al
dott. Cappelli della Procura
della Repubblica di Arezzo.
Il primo è
che la pista della Loggia P2 e di Licio Gelli fu seguita in fase istruttoria
dai magistrati
bolognesi
che indagavano sulla strage dell'Italicus e che chiesero notizie in proposito
al SID: il
Servizio,
che, come ben messo in risalto in altra parte della relazione, era assai più
che
documentato
in proposito, altra risposta non forni se non quella, già ricordata, di nulla
sapere
riportandosi
a quanto diffuso dalla stampa.
Secondo
elemento di estremo interesse è quello riguardante i rapporti fra l'Ispettorato
antiterrorismo
ed i già ricordati ambienti della magistratura aretina. Il commissario
De Francesco
che, per
incarico di Santillo, seguiva la pista piduistica di Arezzo, in stretta
collaborazione con i
magistrati
bolognesi, ebbe uno scontro violentissimo con un magistrato aretino che lo
accusò –
convocandolo
in questura nel cuore della notte - di violare il segreto istruttorio3. L'incidente, che
comprometteva
in loco i rapporti tra magistratura e polizia, condusse al richiamo a Roma del
commissario
De Francesco da parte di Santillo per ordine superiore (cfr. deposizione del De
Francesco
al dott. Persico 9-6-1981), con conseguente accantonamento di una «pista» pur
così
sagacemente
fiutata dal capo dell'antiterrorismo.
Non è
difficile vedere sulla base degli elementi sinora riportati come le
considerazioni svolte dai
giudici
bolognesi si pongano in piena armonia con le conclusioni alle quali il presente
lavoro è
pervenuto
in altra sezione. Non è chi non veda infatti che, ricondotte ad un singolo
episodio
concreto
quale quello in esame, le affermazioni prima argomentate trovano puntuale
conferma.
Emerge
infatti che in primo luogo venne dai Servizi negata ai giudici bolognesi la
conoscenza
delle
notizie su Licio Gelli che essi detenevano e che nei loro confronti venne
attivato quel cordone
sanitario
informativo le cui ragioni abbiamo prima individuato, e che adesso vediamo
operante
nei
confronti del giudice inquirente che indagava sul caso dell'Italicus. Appare in
secondo luogo
che il
filone investigativo Gelli-Loggia P2 venne anche in questo caso specifico
individuato
dall'unico
apparato investigativo - l'ispettore Santillo - che autonomamente arrivò ad
intuire il
valore di
questa organizzazione e del suo capo perseguendola con costanza nel tempo.
Quanto
sopra esposto ci mostra che, alla certezza raggiunta dai giudici bolognesi sul
coinvolgimento
piduista nella strage dell'Italicus attraverso prove storiche, si aggiungono i
risultati
ai quali la Commissione è pervenuta attraverso prove critiche tutte gravi,
precise,
concordanti
e che quella certezza già acquisita, quindi, corroborano ed arricchiscono di
particolari.
Nel
periodo compreso tra la fine del 1973 ed il marzo del 1974 viene ad
evidenziarsi un'altra
iniziativa
nella quale si trovano coinvolti uomini risultati iscritti alla P2 o indicati,
nella più volte
ricordata
relazione Santillo del 1976, come aderenti alla stessa quali Edgardo
Sogno, Remo
Orlandini, Salvatore Drago e Ugo Ricci.
Dai
documenti in nostro possesso si può avanzare l'ipotesi che il gruppo facente
capo a Sogno, pur
non ignorando
le iniziative più tipicamente eversive, abbia sviluppato sin dalla fine degli
anni
Sessanta,
per proseguire nella prima metà degli anni settanta, una linea più legalitaria,
che però
muove
sempre dalle premesse di un grave pericolo delle istituzioni provocato dagli
opposti
estremismi
e dalla incapacità delle forze politiche di farvi fronte. Tele linea quindi si
pone gli
obiettivi
di realizzare riforme anche costituzionali e mutamenti degli equilibri -
politici al fine di
dare vita
ad un governo forte e capace di resistere alle minacce incombenti sul, paese.
Possono
citarsi in
questo contesto la costituzione dei Comitati di resistenza democratica sorti nel 1971 per
iniziativa
di Edgardo Sogno e le proposte avanzate nei periodici Resistenza democratica e
Progetto
80.
Quello che
più interessa ai fini della nostra indagine è che la complessa tematica legata
al gruppo
Sogno, le
proposte di riforme costituzionali avanzate, come pure, in parte, la strategia
adottata,
rivelano
punti di contatto con il Piano di rinascita democratica e la strategia di Gelli
dopo il 1974.
Ricordiamo
infine che nella busta «Riservata personale» che Gelli custodiva a Castiglion
Fibocchi
era
custodita copia di un anonimo, per il quale ci fu richiesta di informativa su
Gelli inviata alla
3 Vedansi
la deposizione Zanda 23 novembre 1982 al sostituto procuratore della Repubblica
di Bologna e Carlucci 10
febbraio 1982 alla Assise di Bologna, per non citarne
che due.
questura
di Arezzo nel marzo del 1975 dal giudice Violante che indagava sulla eversione di
destra.
Nell'anonimo leggiamo tra l'altro:
«Il Gelli sembra inoltre collegato al gruppo Sogno e ad altri ambienti che
fanno capo all'ex procuratore
Spagnuolo oltre che ad ambienti finanziari
internazionali».
Un'ultima
notazione sul delitto del giudice Occorsio, il quale avrebbe iniziato ad investigare
sui
possibili
collegamenti tra l'Anonima sequestri ed ambienti massonici ed ambienti
dell'eversione.
Tale
almeno fu la confidenza che Occorsio fece ad un giornalista il giorno prima di
essere, ucciso.
Per quanto
a nostra conoscenza il questore Cioppa, iscritto alla Loggia P2, ha dichiarato
alla
Commissione
di aver incontrato Licio Gelli nell'anticamera del giudice Occorsio, due giorni
prima
dell'omicidio
del magistrato. L'esito dell'istruttoria relativa esclude collegamenti tra la
Loggia P2
ed il
delitto; rimane peraltro da spiegare per quale motivo il giudice avesse
convocato il Gelli,
secondo il
dato in nostro possesso.
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