lunedì 4 marzo 2013

I COLLEGAMENTI CON L’EVERSIONE NERA



Il periodo che corre tra il 1970 e il 1974 registra la proliferazione di movimenti extraparlamentari,
la nascita di sempre nuove organizzazioni eversive paramilitari o terroristiche, la moltiplicazione
di gravi delitti politici - secondo forme affatto nuove per il Paese - la rinnovata virulenza della
malavita comune e delle sue organizzazioni criminali.
Sono questi gli avvenimenti che formano il quadro entro cui si sviluppa quella che venne definita
la «strategia della tensione», favorita dalla crisi economica e dalla crescente instabilità del quadro
politico.
Quegli anni, oltre ad essere caratterizzati, come abbiamo già visto, dall'intensa opera di
politicizzazione della loggia svolta da Licio Gelli, si contraddistinguono anche per i collegamenti
che ci è consentito di identificare tra Licio Gelli, la Loggia P2, suoi qualificati esponenti ed il
complesso mondo dell'eversione nera.
Dal materiale in possesso della Commissione si trae infatti la ragionata convinzione, condivisa
peraltro da organi giudiziari, che la Loggia P2 attraverso il suo capo o suoi esponenti (le cui
iniziative non possono considerarsi sempre soltanto a titolo personale) si collega più volte con
gruppi ed organizzazioni eversive, incitandoli e favorendoli nei loro propositi criminosi con una
azione che mirava ad inserirsi in quelle aree secondo un disegno politico proprio, da non
identificare con le finalità, più o meno esplicite, che quelle forze e quei gruppi ponevano al loro
operato.
Al fine di procedere ad una lettura politica di queste relazioni e di questi collegamenti è d'uopo
individuare entro la vasta mole di materiale documentale - peraltro ampiamente incompleto: né
altrimenti poteva essere, in considerazione della vastità dell'argomento - che alla Commissione è
pervenuto, alcuni episodi che si ritengono più significativi ai fini della nostra indagine, secondo il
metodo di analisi espresso nell'introduzione al presente lavoro.
Prima tra tali situazioni nelle quali appare sicuramente documentato un coinvolgimento
significativo di Licio Gelli e di uomini della loggia, è il cosiddetto golpe Borghese, attuato nella
notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, sotto la spinta degli esponenti oltranzisti del Fronte Nazionale, i
quali avevano da ultimo prevalso all'interno dell'organizzazione.
La vicenda ha registrato un lungo e non facile iter processuale, concluso con sentenza passata in
giudicato, sul cui esito non è qui il caso di entrare, perché ai fini che a noi interessano quel che più
preme è porre l'accento su alcuni aspetti sicuramente documentati che suffragano l'ipotesi
prospettata della collusione esistente tra esponenti della loggia con questa situazione eversiva, tale
da consentire una valutazione attendibile del rilievo concreto che tali contatti ebbero a rivestire.
E’ così dato rilevare prima di tutto come molti dei personaggi che nel golpe ebbero un ruolo non
secondario appartengano alla Loggia P2 o alla massoneria: così infatti troviamo tra gli attori di
quella vicenda Vito Miceli, Duilio Fanali, Sandro Saccucci (da più fonti indicato come
appartenente alla massoneria) assieme ad altri imputati del golpe quali Lo Vecchio, Casero, De
Jorio, che tutti figurano nelle liste di Castiglion Fibocchi. Altre fonti poi riconducono alla
massoneria sia Salvatore Drago, accusato di aver disegnato la pianta del Ministero dell'interno, sia
il costruttore Remo Orlandini, che l'ispettore Santillo, nella sua terza nota informativa, indica più
specificamente come appartenente alla Loggia P2.
Questo primo dato di palese riscontro è suffragato da ulteriori testimonianze, anche documentali,
dalle quali si evince come ambienti massonìci si fossero posti in posizione di collateralità o
fiancheggiamento con i gruppi che al Borghese facevano capo. Esplicita in questo senso la lettera
di Gavino Matta (comunione di Piazza del Gesù) al principe Borghese: «Caro Comandante, debbo
comunicarle che la Loggia non intende assecondare la sua iniziativa, essendo per principio
fondamentalmente contraria ai metodi violenti. Con la presente, pertanto, vengo autorizzato ad annullare
ogni precedente intesa...».
Questi elementi di indubbio riscontro fanno da cornice a situazioni di più puntuale incisività in
ordine al ruolo che due personaggi quali Licio Gelli ed il Direttore del SID, Vito Miceli, ebbero a
ricoprire durante e dopo il golpe. Come noto, punto cruciale di quella vicenda fu l'inopinato, per
gli esecutori, arresto delle operazioni già avviate: Orlandini, stretto collaboratore del Borghese,
dirà che non poca fatica gli costò correre ai ripari per fermare quei gruppi che già erano entrati in
azione. Lo sconcerto provocato tra i congiurati da quella improvvisa inversione di marcia è del
resto ben testimoniato dalla reazione di Sandro Saccucci, che poche settimane dopo ebbe ad
esprimere l'auspicio che il responsabile venisse «preso», distinguendo nella vicenda la posizione
dei golpisti da quella di «altre piccole manichette, più o meno in divisa». Numerose comunque sono
le testimonianze dalle quali si evince la convinzione diffusa tra quanti avevano a vario titolo preso
parte all'operazione «che qualcosa non aveva funzionato», o, come affermò Mario Rosa, stretto
collaboratore di Borghese «...è la valvola di testa che non ha concorso a quello che doveva concorrere…».
Recentemente alcune deposizioni di appartenenti agli ambienti dell'eversione nera consentono di
indirizzare l'attenzione direttamente su Licio Gelli in relazione al contrordine operativo che
paralizzò l'azione insurrezionale. Si hanno infatti testimonianze secondo le quali il Venerabile era
ritenuto elemento determinante nel contrordine: tale il convincimento di Fabio De Felice, il quale
ne fece parte ad un giovane adepto, Paolo Aleandri, che poi provvide a mettere in contatto con
Licio Gelli. L'incarico era quello di tenere i contatti tra questi e l'avvocato De Jorio, allora latitante
a Montecarlo; e in tale veste l'Aleandri ebbe numerosi incontri con Licio Gelli, che si sarebbe
prodigato per «alleggerire» la posizione processuale degli imputati. Le deposizioni dell'Aleandri -
che trovano conferma in quelle di altri elementi quali Calore, Sordi, Primicino - hanno il pregio di
fornire la prova del contatto diretto tra Licio Gelli e quegli ambienti, aggiungendo un riscontro
preciso alle considerazioni generali già espresse.
E’ stato altresì testimoniato che Licio Gelli teneva il contatto con ufficiali dei carabinieri, e certo è
che tra i congiurati era diffusa l'opinione che ambienti militari sostenevano o quanto meno
tolleravano l'operazione. Certo, il Borghese si esprimeva nel suo proclama con decisione: «Le Forze
Armate sono con noi».
A loro volta questi elementi ben si inquadrano nel contesto di una serie di deposizioni dalle quali
emerge come la generazione immediatamente successiva a quella direttamente coinvolta nel golpe
Borghese vedeva nel Gelli l'espressione di ambienti «che in forma più o meno palese venivano
contattati, però non con l'esplicita richiesta di aderire ad un golpe, quanto per avvicinarli a posizioni che
implicassero un loro consenso per una svolta autoritaria o comunque per una democrazia forte». Tale
almeno l'interpretazione di Fabio De Felice.
Sta di fatto che nell'analisi che questa generazione forniva di quegli eventi si assumeva che
un'opera di strumentalizzazione fosse poi stata messa in atto proprio dal Gelli e da coloro che gli
erano vicino. Per tali considerazioni venne prospettata persino l'eventualità di eliminare
fisicamente il Venerabile della Loggia P2, segno questo che la presenza di Gelli in quegli ambienti
aveva assunto un rilievo non secondario, incidendo sulla loro operatività con conseguenze che
venivano valutate come deleterie per l'organizzazione.
Accanto alla figura di Licio Gelli, un altro elemento di spicco nell'analisi di questa vicenda è
costituito dal generale Vito Miceli, direttore del SID dal 1970 al 1974. In proposito quello che a noi
interessa è rilevare come sia accertata l'esistenza di contatti tra il generale Miceli, allora nella sua
veste di capo del SIOS, Orlandini e Borghese, contatti da far risalire al 1969, epoca nella quale il
generale entra nella Loggia P2. Tali eventi si accompagnano significativamente alla sua nomina al
vertice dei Servizi, che il Gelli si vantò, come sappiamo, di aver favorito e che precede di poco il
tentativo insurrezionale guidato dal principe nero.
Contatti aveva altresì il generale Miceli con Lino Salvini, al quale aveva consentito di mettersi in
contatto con lui sotto lo pseudonimo di «dottor Firenze».
Questi dati, unitariamente considerati, vanno letti in parallelo con la successiva inerzia del
generale nei confronti delle indagini sul Fronte Nazionale, condotte dal reparto D guidato dal
generale Maletti. Con questi il Miceli entrò poi in contrasto, avendo richiesto lo scioglimento del
nucleo operativo facente capo al capitano La Bruna; e va a tal proposito sottolineata la
svalutazione che il direttore del SID faceva dei risultati investigativi raggiunti sul golpe, come non
mancò di esternare all'onorevole Andreotti e all'ammiraglio Henke.
Gli elementi conoscitivi indicati, che non esauriscono di certo una situazione oggetto di una
contrastata vicenda giudiziaria, debbono essere a questo punto del discorso inquadrati nell'ambito
delle considerazioni alle quali siamo pervenuti analizzando il rapporto tra Gelli ed i Servizi
segreti.
Il dato relativo all'appartenenza di Licio Gelli a quegli ambienti va considerato alla luce delle
successive attività che vedono il Venerabile impegnato a venire in soccorso degli imputati,
svolgendo un'azione che si muove significativamente in perfetta sintonia con la documentata
inerzia del Direttore del SID. Il minimo che si possa dire è che questi non sembra aver seguito con
particolare accanimento le indagini sul Fronte Nazionale, pur avendo avuto contatti diretti con i
suoi massimi dirigenti.
Contatti che peraltro egli aveva giustificato proprio con la necessità di acquisire informazioni,
nella sua veste di dirigente di apparati informativi. E’ del pari in tale prospettiva che vanno
valutate sia le diffuse convinzioni maturate nell'ambiente golpista sul ruolo di Licio Gellí, quale
cerniera di raccordo con gli ambienti militari, che il risentimento maturato per il fallimento
dell'operazione.
Come si vede, anche muovendo da questa situazione l’analisi ci conduce alla figura di Licio Gelli,
al suo ruolo di elemento intrinseco ai Servizi, come del resto riteneva il De Felice, ma soprattutto
alla individuazione della Loggia P2 come struttura nella quale ed attraverso la quale si intrecciano
rapporti e si stabiliscono collegamenti la cui ortodossia lascia ampi margini di dubbio, anche
accedendo alla più benevola delle valutazioni.
Elementi di estremo interesse ai nostri fini emergono poi dalla inchiesta condotta dal giudice
Tamburino di Padova sul movimento denominato Rosa dei Venti, nel quale troviamo la presenza
di uomini iscritti al «Raggruppamento Gelli», secondo quanto affermato dall'ispettore Santillo
nelle sue note informative. Venivano in tali documenti considerati come appartenenti
all'organizzazione gelliana il generale Ricci, Alberto Ambesi e Francesco Donini. L'inchiesta
sulla «Rosa dei Venti» si segnala peraltro alla nostra attenzione per due testimonianze raccolte
dal giudice patavino che rivestono per noi un sicuro interesse se poste in relazione ad altri
elementi conoscitivi emersi nel corso del nostro lavoro.
Va ricordato in primo luogo che il giornalista Giorgio Zicari ha testimoniato di aver collaborato
con l'Arma dei carabinieri e con i Servizi segreti, entrando in contatto nel 1970 con Carlo
Fumagalli e Gaetano Orlando, elementi di spicco del gruppo dei MAR, ed ottenendo da costoro
informazioni per i detti apparati investigativi.
Quando nel 1974 lo Zicari venne riservatamente convocato dal giudice Tamburino, gli accadde di
ricevere nel giro di poche ore l'invito ad un colloquio con il generale Palumbo nel corso del quale
l'alto ufficiale ebbe ad esprimersi nei seguenti termini: «...il tema centrale fu che io non dovevo parlare,
che poteva succedermi qualcosa, dei fastidi, che io avevo tutto da perdere dalla vicenda, che i magistrati
stavano tentando di sostituirsi allo Stato, riempendo un vuoto di potere, che non si sapeva che cosa il giudice
Tamburino volesse cercare, che non ero obbligato a testimoniare...».
Questa iniziativa del generale Palumbo viene a collocarsi in modo preciso a sostegno della già
ricordata osservazione del generale Dalla Chiesa sulla collaborazione non particolarmente
motivata degli ambienti della divisione Pastrengo nell’azione che il generale conduceva contro il
terrorismo. Va altresì rilevato che l'atteggiamento del generale Palumbo riporta alla nostra
attenzione il tipo di risposta che l'ammiraglio Casardi, direttore del SID, forniva ai giudici che
indagavano sulla strage dell'Italicus quando si rivolsero al Servizio per ottenere notizie su Licio
Gelli, ottenendo un rinvio alle notizie apparse sulla stampa.
Sempre nel corso del 1974 il giudice Tamburino raccolse alcuni riferimenti testimoniali sul
cosiddetto SID parallelo, il cui procedimento si chiuse infine con la richiesta di archiviazione
formulata dal Procuratore della Repubblica di Roma, accolta dal giudice istruttore in data 22
febbraio 1980.
E’ di particolare interesse, nel contesto di tali deposizioni, quanto ebbe a dichiarare il generale
Siro Rossetti, uscito nel 1974 dalla Loggia P2 in posizione polemica nei confronti di Licio Gelli.
L'alto ufficiale in ordine al problema dell'esistenza di un'organizzazione parallela ai Servizi
affermò: «...la mia esperienza mi consente di affermare che sarebbe assurdo che tutto ciò non esistesse...» ed
ancora «...a mio avviso l'organizzazione è tale e talmente vasta da avere capacità operative nel campo
politico, militare, della finanza, dell’alta delinquenza organizzata...».
Questa descrizione letta oggi sulla base delle conoscenze acquisite in ordine alla Loggia P2, non
può non porsi per noi quale motivo di seria riflessione, soprattutto quando si ponga mente alla
sua provenienza da parte di un elemento che conosceva la loggia direttamente dall'interno e che
professionalmente si occupava di servizi di informazione.
Passando ad altro argomento di ben più impegnativo rilievo, ricordiamo che i gruppi estremistici
toscani compirono parecchi degli attentati (specialmente ai treni) che funestarono l'Italia tra il 1969
e il 1975. Il generale Bittoni (P2), comandante la brigata dei Carabinieri di Firenze, iniziò a
svolgere indagini, cercando di dare impulso all'inchiesta e di coordinare le ricerche dei comandi di
Perugia e di Arezzo. L'impegno degli ufficiali aretini si rivelò, peraltro, del tutto insufficiente,
come ebbe a lamentare lo stesso Bittoni e come risulta dalle deposizioni dei sottufficiali.
Rilevato come ben due degli ufficiali superiori del comando di Arezzo incaricati delle indagini
facessero parte della Loggia P2 (uno di essi parlò della relativa iscrizione come di una «necessità»)
e che Gelli rivolse al generale Bittoni discorsi sufficientemente equivoci da provocarne una accesa
reazione, non sembra azzardato mettere in rapporto di causa ed effetto l’infiltrazione della Loggia
nell'Arma e l'insufficienza dell'indagine. A questo si aggiunga che analoga situazione si verificava
per la questura della stessa città, essendosi potuta accertare l'iscrizione alla Loggia non solo di due
dei suoi funzionari, ma addirittura del questore pro tempore.
Anche in tal caso appare legittimo mettere in rapporto di causa ed effetto il fenomeno di
infiltrazione piduista con disfunzioni «mirate»: così, ad esempio, nel caso della informativa su
Gelli e Marsili e sui rapporti del primo con il gruppo Sogno e Carmelo Spagnuolo, richiesta dal
giudice istruttore di Torino alla questura di Arezzo e mai ottenuta. Fu rinvenuta, però, tra le carte
di Castiglion Fibocchi copia dello scritto anonimo che aveva sollecitato alla richiesta i giudici
torinesi: il Venerabile era stato quindi tempestivamente informato ed aveva potuto predisporre le
sue difese. In definitiva, sembra potersi concludere sul punto che le infiltrazioni piduistiche ad
Arezzo nella Polizia e nei Carabinieri (ed il sospetto di infiltrazione anche nella magistratura,
come si vedrà in seguito) servirono in quegli anni a conferire al Gelli un'aura di intangibilità,
lasciandogli mano libera per tutte le proprie - non certo lecite - attività.
Un discorso a parte merita, poi, la strage perpetrata con la collocazione di un ordigno esplosivo
sul treno Italicus, ordigno esploso nella notte fra il 3 ed il 4 agosto 1974.
I fatti relativi sono stati già giudicati in primo grado dalla corte d'assise di Bologna con sentenza
assolutoria dubitativa che, pur se non passata in cosa giudicata, costituisce per la Commissione
doveroso - anche se non esclusivo - punto di' riferimento.
Le istruttorie di una Commissione di inchiesta e quelle dell'autorità giudiziaria penale hanno
infatti la comune caratteristica di utilizzare prove storiche e prove critiche per giungere, attraverso
un processo logico esternato di libero convincimento, a determinate conclusioni. Gli elementi
differenziali riguardano invece l'oggetto e lo scopo dell'indagine. Quanto al primo occorre rilevare
che la giustizia penale ha come limite di accertamento realtà oggettivate od oggettivabili, mentre
la Commissione parlamentare può (e deve) tener conto anche di più soggettive emergenze come
modi di pensare, opinioni e convincimenti diffusi1.
Quanto al secondo appare evidente che, mentre la giustizia penale ha un compito di accertamento
strumentale rispetto ad affermazioni di responsabilità personali, la Commissione ha invece quello
di un accertamento funzionalizzato ad un più puntuale futuro esercizio dell'attività legislativa, e
1 Corte costituzionale, sentenza 231/75.
in esso vi è dunque spazio per affermazioni di responsabilità che siano di tipo morale o politico,
secondo la natura propria dell'istituto.
Tanto doverosamente premesso ed anticipando le conclusioni dell'analisi che ci si appresta a
svolgere, si può affermare che gli accertamenti compiuti dai giudici bolognesi, così come sono stati
base per una sentenza assolutoria per non sufficientemente provate responsabilità personali degli
imputati, costituiscono altresì base quanto mai solida, quando vengano integrati con ulteriori
elementi in possesso della Commissione, per affermare:
1) che la strage dell'Italicus è ascrivibile ad una organizzazione terroristica di ispirazione
neofascista o neonazista operante in Toscana;
2) che la Loggia P2 svolse opera di istigazione agli attentati e di finanziamento nei confronti
dei gruppi della destra extraparlamentare toscana;
3) che la Loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell'Italicus e può ritenersene
anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale
retroterra economico, organizzativo e morale.
Gioverà a tal fine riportarsi direttamente agli accertamenti giudiziari. Già nella sentenza-ordinanza
bolognese di rinvio a giudizio (14. 4. 1980) si leggeva: «Dati, fatti e circostanze autorizzano
l'interprete a fondatamente ritenere essere quella istituzione (la Loggia P2 n.d.r.), all'epoca degli eventi
considerati, il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale: e ciò in
incontestabile contrasto con le proclamate finalità statutarie dell'istituzione».
Più puntualmente nella sentenza assolutoria d'Assise 20.7.1983-19.3.1984 si legge (i numeri tra
parentesi indicano le pagine del testo dattiloscritto della sentenza):
«(182) A giudizio delle parti civili, gli attuali imputati, membri dell'Ordine Nero, avrebbero eseguito la
strage in quanto ispirati, armati e finanziati dalla massoneria, che dell'eversione e del terrorismo di destra si
sarebbe avvalsa, nell'ambito della cosiddetta "strategia della tensione" del paese creando anche i presupposti
per un eventuale colpo di Stato. La tesi di cui sopra ha invero trovato nel processo, soprattutto con
riferimento alla ben nota Loggia massonica P2, gravi e sconcertanti riscontri, pur dovendosi riconoscere una
sostanziale insufficienza degli elementi di prova acquisiti sia in ordine all'addebitalità della strage a Tuti
Mario e compagni, sia circa la loro appartenenza ad Ordine Nero e sia quanto alla ricorrenza di un vero e
proprio concorso di elementi massonici nel delitto per cui è processato».
Significativamente, poi, si precisa in proposito:
« (183-184) Peraltro risulta adeguatamente dimostrato:
a) come la Loggia P2, e per essa il suo capo Gelli Licio (dapprima "delegato" dal Gran Maestro della
famiglia massonica di Palazzo Giustiniani, poi - dal dicembre 1971 - segretario organizzativo della
Loggia, quindi - dal maggio 1975 - Maestro Venerabile della stessa), nutrissero evidenti propensioni al
golpismo;
b) come tale formazione aiutasse e finanziasse non solo esponenti della destra parlamentare (all'udienza in
data 27.10.1982 il generale Rosseti Siro, già tesoriere della Loggia, ha ricordato come quest'ultima
avesse, tra l'altro, sovvenzionato la campagna elettorale del "fratello" ammiraglio Birindelli), ma anche
giovani della destra extraparlamentare, quanto meno di Arezzo (ove risiedeva appunto il Gelli);
c) come esponenti non identificati della massoneria avessero offerto alla dirigenza di Ordine Nuovo la
cospicua cifra di L. 50 milioni al dichiarato scopo di finanziare il giornale del movimento (vedansi sul
punto le deposizioni di Marco Affatigato, il quale ha specificato essere stata tale offerta declinata da
Clemente Graziani);
d) come nel periodo ottobre-novembre 1972 un sedicente massone della "Loggia del Gesù" (si ricordi che a
Roma, in Piazza del Gesù, aveva sede un'importante "famiglia massonica" poi fusasi con quella di
Palazzo Giustiniani), alla guida di un'auto azzurra targata Arezzo, avesse cercato di spingere gli
ordinovisti di Lucca a compiere atti di terrorismo, promettendo a Tomei e ad Affatigato armi, esplosivi
ed una sovvenzione di L. 500.000».
Aggiunge significativamente il magistrato: «appare quanto meno estremamente probabile» - si legge a
pag. 193 - che anche tale «fantomatico massone appartenesse alla Loggia P2».
La conclusione, su questo punto corre - significativamente - come segue: «(194) Peraltro tali
importanti dati storici non sembrano ulteriormente elaborabili ai fini della costruzione di una indiscutibile
prova di colpevolezza dei prevenuti circa la strage del treno Italicus».
La statuizione - che non spetta alla Commissione valutare - appare ispirata al principio di
personalità della responsabilità penale ed a quello di presunzione di innocenza: letta in controluce
e con riferimento alla responsabilità storico-politica delle organizzazioni che stanno dietro agli
esecutori essa suona ad indiscutibile condanna della Loggia P2. Una condanna rafforzata dalle
enunciazioni contenute nella prima parte della sentenza ove si esterna il convincimento del
giudice sulla matrice ideologica ed organizzativa dell'attentato, una matrice ovviamente
irrilevante in sede penale finché non si individuino mandanti, organizzatori od esecutori ma
preziosa in questa sede.
Scrivono ancora, infatti, i giudici bolognesi: «(13-14) Premesso doversi ritenere manifesta la natura
politica dell'orrendo crimine di che trattasi (anche in assenza di inequivoche rivendicazioni), data la natura
dell'obiettivo colpito e la gravità delle prevedibili conseguenze della strage sul piano della pacifica
convivenza civile (fortunatamente poi risultate assai modeste per la “tenuta” della collettività) e dato
l'inserimento dell'attentato in un contesto di analoghi crimini politici verificatisi in Italia negli anni 1974-
1975 (si pensi alla strage di Piazza della Loggia ed alle bombe di Ordine Nero)»; ed ancora: «(15) è pacifica
l'immediata ascrivibilità del fatto ad un'organizazzione terroristica che intendeva creare insicurezza
generale, lacerazioni sociali, disordini violenti e comunque (nell'ottica della cosiddetta strategia della
tensione) predisporre il terreno adatto per interventi traumatici, interruttivi della normale, fisiologica e
pacifica evoluzione della vita politica del Paese.
Ebbene, non è dubbio che, nel variegato quadro delle organizzazioni terroristiche operanti in Italia negli anni
in cui fu eseguito il crimine al nostro esame, l'impiego delle bombe e la loro collocazione preferenziale su
obiettivi "ferroviari" caratterizzasse, usualmente, gruppi di ispirazione neofascista e neonazista (si ricordino
gli attentati sulla linea ferroviaria Roma-Reggio Calabria in occasione dei disordini di Reggio Calabria e dei
successivi raduni, il mancato attentato in cui venne ferito Nico Azzi, l'attentato di Vaíano, rivendicato dalle
Brigate Popolari Ordine Nuovo, gli attentati dicembre 1974-gennaio 1975, per cui furono condannati dalla
corte di assise di Arezzo proprio Tuti e Franci) e che fra tali gruppi debba annoverarsi come già vivo e vitale,
nell'agosto 1974, quello ricomprendente Tuti e Franci».
Concludono peraltro malinconicamente i giudici bolognesi con la constatazione di un limite
invalicabile alla loro indagine, costituito dal fatto che «l'imputazione riguarda solo esecutori materiali e
non, ahimè, lontani mandanti».
Già tanto potrebbe bastare per legittimare le conclusioni sopra anticipate. A ciò si aggiunga che
sospetti di protezione dell'ultra-destra eversiva gravano su ben individuati uffici della
magistratura aretina. Persino la sentenza di Bologna (pag. 191) ne riferisce, confermando il
convincimento degli eversori neri di poter contare sull'importante protezione di un magistrato
affiliato ad una potentissima loggia massonica, e risultano agli atti dichiarazioni assai gravi
relative ad autorizzazioni di intercettazioni telefoniche non concesse ed ordini di cattura non
emessi2. Il dato - al di là di responsabilità individuali su cui non è questa la sede per disquisire – è
dimostrativo di una di quelle «opinioni» o «stati d'animo» significativi - fondati o meno che siano -
che legittimamente una commissione d'inchiesta accerta e da cui altrettanto legittimamente trae
motivi di convincimento.
Le affermazioni dei giudici competenti vanno adesso riportate alle conoscenze proprie della
Commissione ed in particolare a due dati di conoscenza emersi con particolare significato in
questa relazione.
2 Deposizioni Cherubini e Carlucci. Vedasi anche deposizione Filastò 3 luglio 1981 resa al dott. Cappelli della Procura
della Repubblica di Arezzo.
Il primo è che la pista della Loggia P2 e di Licio Gelli fu seguita in fase istruttoria dai magistrati
bolognesi che indagavano sulla strage dell'Italicus e che chiesero notizie in proposito al SID: il
Servizio, che, come ben messo in risalto in altra parte della relazione, era assai più che
documentato in proposito, altra risposta non forni se non quella, già ricordata, di nulla sapere
riportandosi a quanto diffuso dalla stampa.
Secondo elemento di estremo interesse è quello riguardante i rapporti fra l'Ispettorato
antiterrorismo ed i già ricordati ambienti della magistratura aretina. Il commissario De Francesco
che, per incarico di Santillo, seguiva la pista piduistica di Arezzo, in stretta collaborazione con i
magistrati bolognesi, ebbe uno scontro violentissimo con un magistrato aretino che lo accusò –
convocandolo in questura nel cuore della notte - di violare il segreto istruttorio3. L'incidente, che
comprometteva in loco i rapporti tra magistratura e polizia, condusse al richiamo a Roma del
commissario De Francesco da parte di Santillo per ordine superiore (cfr. deposizione del De
Francesco al dott. Persico 9-6-1981), con conseguente accantonamento di una «pista» pur così
sagacemente fiutata dal capo dell'antiterrorismo.
Non è difficile vedere sulla base degli elementi sinora riportati come le considerazioni svolte dai
giudici bolognesi si pongano in piena armonia con le conclusioni alle quali il presente lavoro è
pervenuto in altra sezione. Non è chi non veda infatti che, ricondotte ad un singolo episodio
concreto quale quello in esame, le affermazioni prima argomentate trovano puntuale conferma.
Emerge infatti che in primo luogo venne dai Servizi negata ai giudici bolognesi la conoscenza
delle notizie su Licio Gelli che essi detenevano e che nei loro confronti venne attivato quel cordone
sanitario informativo le cui ragioni abbiamo prima individuato, e che adesso vediamo operante
nei confronti del giudice inquirente che indagava sul caso dell'Italicus. Appare in secondo luogo
che il filone investigativo Gelli-Loggia P2 venne anche in questo caso specifico individuato
dall'unico apparato investigativo - l'ispettore Santillo - che autonomamente arrivò ad intuire il
valore di questa organizzazione e del suo capo perseguendola con costanza nel tempo.
Quanto sopra esposto ci mostra che, alla certezza raggiunta dai giudici bolognesi sul
coinvolgimento piduista nella strage dell'Italicus attraverso prove storiche, si aggiungono i
risultati ai quali la Commissione è pervenuta attraverso prove critiche tutte gravi, precise,
concordanti e che quella certezza già acquisita, quindi, corroborano ed arricchiscono di particolari.
Nel periodo compreso tra la fine del 1973 ed il marzo del 1974 viene ad evidenziarsi un'altra
iniziativa nella quale si trovano coinvolti uomini risultati iscritti alla P2 o indicati, nella più volte
ricordata relazione Santillo del 1976, come aderenti alla stessa quali Edgardo Sogno, Remo
Orlandini, Salvatore Drago e Ugo Ricci.
Dai documenti in nostro possesso si può avanzare l'ipotesi che il gruppo facente capo a Sogno, pur
non ignorando le iniziative più tipicamente eversive, abbia sviluppato sin dalla fine degli anni
Sessanta, per proseguire nella prima metà degli anni settanta, una linea più legalitaria, che però
muove sempre dalle premesse di un grave pericolo delle istituzioni provocato dagli opposti
estremismi e dalla incapacità delle forze politiche di farvi fronte. Tele linea quindi si pone gli
obiettivi di realizzare riforme anche costituzionali e mutamenti degli equilibri - politici al fine di
dare vita ad un governo forte e capace di resistere alle minacce incombenti sul, paese. Possono
citarsi in questo contesto la costituzione dei Comitati di resistenza democratica sorti nel 1971 per
iniziativa di Edgardo Sogno e le proposte avanzate nei periodici Resistenza democratica e Progetto
80.
Quello che più interessa ai fini della nostra indagine è che la complessa tematica legata al gruppo
Sogno, le proposte di riforme costituzionali avanzate, come pure, in parte, la strategia adottata,
rivelano punti di contatto con il Piano di rinascita democratica e la strategia di Gelli dopo il 1974.
Ricordiamo infine che nella busta «Riservata personale» che Gelli custodiva a Castiglion Fibocchi
era custodita copia di un anonimo, per il quale ci fu richiesta di informativa su Gelli inviata alla
3 Vedansi la deposizione Zanda 23 novembre 1982 al sostituto procuratore della Repubblica di Bologna e Carlucci 10
febbraio 1982 alla Assise di Bologna, per non citarne che due.
questura di Arezzo nel marzo del 1975 dal giudice Violante che indagava sulla eversione di
destra. Nell'anonimo leggiamo tra l'altro:
«Il Gelli sembra inoltre collegato al gruppo Sogno e ad altri ambienti che fanno capo all'ex procuratore
Spagnuolo oltre che ad ambienti finanziari internazionali».
Un'ultima notazione sul delitto del giudice Occorsio, il quale avrebbe iniziato ad investigare sui
possibili collegamenti tra l'Anonima sequestri ed ambienti massonici ed ambienti dell'eversione.
Tale almeno fu la confidenza che Occorsio fece ad un giornalista il giorno prima di essere, ucciso.
Per quanto a nostra conoscenza il questore Cioppa, iscritto alla Loggia P2, ha dichiarato alla
Commissione di aver incontrato Licio Gelli nell'anticamera del giudice Occorsio, due giorni prima
dell'omicidio del magistrato. L'esito dell'istruttoria relativa esclude collegamenti tra la Loggia P2
ed il delitto; rimane peraltro da spiegare per quale motivo il giudice avesse convocato il Gelli,
secondo il dato in nostro possesso.

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