giovedì 30 novembre 2023

L'eredita' di Fermi

 


Agli inizi degli anni Cinquanta si stava per compiere una delle più grandi avventure scientifiche italiane dello scorso secolo. Raccogliendo l’eredità che Fermi aveva lasciato, gli sforzi della fisica italiana erano concentrati sulla costruzione di un grande acceleratore di particelle, l’elettrosincrotrone, e la fondazione di un Laboratorio Nazionale dove far confluire i giovani ricercatori.


Tuttavia, Il decennio successivo vide nascere a Roma una nuova Scuola, quella della fisica della materia condensata (campo che si occupa di studiare le proprietà della materia, con un interesse particolare rivolto alla fase liquida e a quella solida) di cui Carlo Di Castro fu uno dei suoi maggiori esponenti.


Di Castro è attivo principalmente nel campo della meccanica statistica, della fisica a molti corpi e della materia condensata, dando contributi fondamentali nella sua disciplina, ad esempio aprendo la strada all’approccio del cosiddetto gruppo di rinormalizzazione dei fenomeni critici, estendendolo poi ai liquidi quantistici di Bose e ai liquidi di Fermi-Luttinger. Attualmente è professore emerito all’Università La Sapienza di Roma.


Nato il 14 agosto del 1937 da una famiglia di origine ebraiche, si scontrò già in tenerissima età con la crudeltà del regime dato che solamente un anno dopo furono promulgate in Italia le leggi razziali. Come ha ricordato:


“I miei primi ricordi sono quelli di un bambino prematuramente invecchiato, con il peso del mondo sulle spalle, preoccupato per il destino dell’umanità. Quando avevo sei anni siamo dovuti fuggire da casa e nasconderci sotto falso nome, vivendo nella costante paura di essere traditi. [..] Ricordo quando entrai per la prima volta in una scuola dopo la liberazione per sostenere un esame di ammissione alla seconda elementare, poiché mi era stato impedito di frequentare la prima. Sebbene fosse stato difficile per me, non essendo mai andato a scuola mentre mi nascondevo, ho sempre pensato a quanto deve essere stato difficile per i miei fratelli maggiori essere stati espulsi nel 1938. Da allora ho vissuto con l’idea che si può essere inghiottita dalle tenebre in qualsiasi momento. Sono convinto che il percorso professionale che ho scelto sia legato alla ferma convinzione che la paura di ciò che ci circonda, la paura dell’ignoto, debba essere superata attraverso la conoscenza e la ragione.”


Dopo aver frequentato il liceo classico, si trovò di fronte all’inevitabile bivio della scelta universitaria. Nonostante la sua formazione fosse più umanistica, l’indecisione era tra la filosofia e la fisica. Il padre, che non era molto felice né di una né dell’altra, lo spinse a cercare una soluzione e i due trovarono nell’ingegneria il giusto compromesso. Dopo aver concluso il biennio, la “fortuna, o sfortuna dal punto di vista di mio padre” volle che le lezioni di ingegneria non partissero nel mese di novembre ed iniziò così a frequentare i corsi di fisica, decidendo alla fine di fare il passaggio di facoltà. Non era una scelta completamente fuori dal mondo: basti pensare che la quasi totalità del gruppo dei Ragazzi di Via Panisperna proveniva da ingegneria.


Le materie che più lo interessavano erano la meccanica statistica e la fisica teorica della materia condensata, che era un campo di ricerca pressoché ignorato in quegli anni a Roma perché molti erano impegnati nello studio della fisica delle particelle. Il corso di meccanica statistica era tenuto dal “brillante e stimolante” Bruno Touschek (che contribuì in maniera decisiva a quella rivoluzione prima accennata) “che non insegnava in maniera tradizionale, ma piuttosto insegnava come un fisico teorico avrebbe dovuto affrontare i problemi, usando immaginazione, tecnica ed entusiasmo”. Nel 1959, deciso a fare una tesi in fisica teorica, chiese consigli a Marcello Cini, allora capogruppo della sezione di fisica teorica. Cini, che non poteva suggerire un argomento specifico, disse che stava per arrivare da Padova Giorgio Careri, che era impegnato in ricerche sperimentali sull’elio superfluido 4He. Cini fu comunque suo relatore, mentre l’esaminatore era Touschek che scrisse un commento sulla tesi con il suo inimitabile stile: “con i migliori complimenti dall’avvocato del diavolo”. Il risultato finale, non pubblicabile perché risultati simili erano già stati presentati sulla rivista Physical Review, incentivò lo studio di questo campo della fisica teorica che fino ad allora non aveva avuto un grande spazio.


Spostatosi a Birmingham per fare il dottorato, tornò in Italia (nonostante ci fosse la possibilità di continuare gli studi negli Stati Uniti) nel 1965 nella sezione dell’INFN di Roma “beneficiando ancora una volta della lungimiranza di Amaldi nell’aprire l’Istituto a giovani ricercatori di altri campi e nel cercare di ricostruire la fisica nel suo insieme”. Nel 1969 divenne libero docente in fisica teorica, ricomprendo la cattedra dopo la dipartita di Persico. Di Castro ricordò:


“È stata una bella esperienza per me, perché mi è piaciuto introdurre argomenti che non erano mai stati insegnati prima a Roma. Non so se anche gli studenti si siano divertiti, ma mi hanno fatto un’ottima impressione.”


Il lavoro suo lavoro, insieme alle collaborazioni con Giovanni Jona-Lasino e Claudio Castellani sono difficili da riassumere e sono molto tecniche, ma è sufficiente pensare che Di Castro ha tenuto più di 120 conferenze internazionali e ha pubblicato più di 160 lavori.


In foto Di Castro (a destra) che consegna la Laurea Honoris Causa a Karl Alexander Müller (Premio Nobel per la fisica nel 1987) durante la cerimonia tenuta alla Sapienza nel 1993.

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CINCINNATO. L'UOMO CHE RIFIUTO' LA GLORIA, PER TORNARE NEI CAMPI

 




Nell'anno 458 a.C., Roma, la città eterna, era in tumulto. Due nemici feroci, gli Equi e i Sabini, avevano messo in scacco le legioni romane. Il console Lucio Minucio Esquilino Augurino era assediato nel suo accampamento dagli Equi, bloccato e senza speranza di fuga. 


L'altro console, Gaio Nauzio Rutilo, combatteva contro i Sabini e non poteva correre in suo aiuto. La Repubblica Romana tremava sotto il peso di una doppia minaccia.


In questo momento di disperazione, i patrizi di Roma si voltarono verso un uomo, un eroe della loro terra, Lucio Quinzio Cincinnato. Quest'uomo, noto per la sua integrità e per il suo impegno nel servizio alla Repubblica, viveva modestamente, lontano dalle ricchezze e dai lussi della città. 


Ai Prata Quinctia, a dodici miglia da Roma, Cincinnato lavorava la sua terra di quattro acri, con le mani callose e il sudore sulla fronte.


La leggenda narra che i messaggeri lo trovarono nell'atto di arare il suo campo. Con il sole che tramontava all'orizzonte, lo avvicinarono e gli comunicarono la volontà del Senato: era stato scelto per essere il dittatore di Roma, l'unico in grado di salvare la città dalla rovina. 


Cincinnato, l'umile contadino, si fermò, si deterse il sudore dalla fronte e indossò la toga praetexta, simbolo del suo nuovo ruolo. Accettò la carica con gravità, conscio del peso che ora gravava sulle sue spalle.


Con una determinazione feroce e una strategia fulminante, Cincinnato guidò le legioni romane alla vittoria. Riuscì a sconfiggere gli Equi, liberando l'esercito assediato e salvando la Repubblica dal collasso. Il suo ritorno a Roma fu trionfale; la città celebrò il suo eroe con onori e gloria.


Ma Cincinnato non era uomo di potere o vanità. Dopo soli sedici giorni, rifiutando di restare al potere per l'intera durata di sei mesi prevista dalla sua carica, abdicò. Si ritirò dalle luci della ribalta per tornare alla sua vita semplice, ai suoi quattro acri di terra. Lasciò un'eredità di virtù e umiltà che ancora oggi risuona attraverso i secoli.


E così, Cincinnato, l'eroe della Roma Repubblicana, l'uomo che salvò la città e poi tranquillamente tornò alla sua vita di contadino, rimarrà per sempre un simbolo di dedizione, di servizio disinteressato, e di vera grandezza.


Il racconto si basa su: Eutropio, Breviarum ab Urbe Condita Lib. I, 17

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GIACOMO PUCCINI

 



Il 29 novembre del 1924 moriva a Bruxelles il compositore italiano GIACOMO PUCCINI (1858-1924). Nato a Lucca, sestogenito dei nove figli di Michele Puccini e Albina Magi, da quattro generazioni i Puccini erano maestri di cappella del Duomo di Lucca. La morte del padre, avvenuta quando Giacomo aveva solo cinque anni, mise in condizioni di ristrettezze economiche la famiglia. Il giovane fu mandato a studiare presso lo zio materno che lo definì un «falento», ossia un fannullone senza talento. Del Puccini studente si è detto: "entra in classe solo per consumare i pantaloni sulla sedia… ». Terminati dopo cinque anni (uno in più di quelli necessari) gli studi di base, si iscrisse all'Istituto Musicale di Lucca dove il padre era stato insegnante. A quattordici anni poté già cominciare a contribuire all'economia familiare suonando l'organo in varie chiese di Lucca. Nel 1876 assiste al teatro Nuovo di Pisa all'allestimento di Aida di Giuseppe Verdi, esperienza decisiva per la futura carriera facendo convogliare i suoi interessi verso l'opera. Decise quindi di trasferirsi a Milano per proseguire gli studi musicali con Antonio Bazzini e Amilcare Ponchielli. In quel periodo realizzò la sua prima composizione, il Preludio sinfonico (1876) cui fece seguito nel 1880 la Messa di Gloria e nel 1883 il Capriccio sinfonico. Al teatro musicale approdò nel 1884 con la sua prima opera, Le Villi cui seguì nel 1889 Edgar. Conseguì una propria concezione estetica a partire dalla terza opera, Manon Lescaut (1893), la cui prima torinese dette l’avvio ad una serie di grandi successi culminati in La bohème (1896), Tosca (1900) e Madama Butterfly (1904). Passarono sei anni prima che il genio del musicista toscano conseguisse un importante rinnovamento stilistico con La fanciulla del west (1910), opera commissionatagli dal Metropolitan di New York, che con la sua quasi totale assenza di materiale melodico strofico denunciò precise influenze debussiniane e straussiane, aprendo per Puccini una nuova fase creativa. L’opera successiva, la commedia lirica La rondine (1917) offrì in effetti simili procedimenti compositivi ed in misura minore anche il Trittico (1918 - Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi) nel quale Puccini presentò un vero e proprio caleidoscopio stilistico: dal raffinato verismo de Il tabarro, al supremo lirismo ascetico di Suor Angelica fino al più grande esempio di opera buffa italiana dopo il Falstaff di Verdi, ossia Gianni Schicchi. L’ultima ed incompiuta opera di Puccini fu Turandot, scritta negli anni funestati da quel tumore alla gola che lo avrebbe condotto alla morte. L'opera fu poi ultimata da Franco Alfano. Nella produzione di Puccini si è soliti distinguere due fasi principali, oltre a quella giovanile dei tormentati esperimenti de Le Villi ed Edgar. Una prima fase romantica e borghese cui appartengono le opere fino al 1904, fondate sulla poetica delle piccole cose, sui personaggi di psicologia minuta inseriti in ambienti ben variati ed identificati dal colore musicale, e la fase del rinnovamento vocale e sinfonico realizzato nei lavori della piena maturità. Si delinea così un percorso che, tenendo fermo il primato del canto e della comunicazione col pubblico, va dalla modernità scapigliata dei primi lavori alla modernità novecentesca degli ultimi, all’insegna di un aggiornamento continuo che fa di Puccini il protagonista più inquieto della fase crepuscolare dell’opera italiana. Era nato a Lucca il 22 dicembre del 1858. Le 12 opere di Giacomo Puccini: Le Villi (1884), Edgar (1889), Manon Lescaut (1893), La bohème (1896), Tosca (1900), Madama Butterfly (1904), La fanciulla del west (1910), La rondine (1917), Tabarro, Suor Angelica,Gianni Schicchi (1918), Turandot (1924).

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COSI' LA DISCIPLINA DEI LEGIONARI ANNIENTO' LE ORDE DEI BRITANNI

 




In tempi epici, quando l'Impero Romano dominava le terre lontane e sconosciute, vi fu una battaglia epica che avrebbe fatto eco nei secoli a venire. Il grande storico Tacito ci narra di quella memorabile giornata, la battaglia di Watling Street, dove la gloria e la tragedia si intrecciarono in un dramma senza tempo.


La legione romana, formidabile in armatura e disciplina, si mantenne immota all'inizio della battaglia. Protetta dall'angustia del luogo, scagliarono giavellotti a colpo sicuro contro i nemici che si avvicinavano. Ma quando ebbero esaurito queste mortali munizioni, si precipitarono all'assalto, formando un cuneo di ferro che si abbatté implacabile contro le file britanniche.


Gli ausiliari romani seguirono con lo stesso slancio, mentre la cavalleria, con le aste distese contro il nemico, si lanciò come un fiume in piena, infrangendo tutto ciò che si opponeva. 


Ma i Britanni, animati da un feroce coraggio, non voltarono le spalle facilmente. I carri, disposti tutt'attorno al campo di battaglia, impedivano loro una fuga agevole.


Nella furia del combattimento, i soldati romani non si astennero neppure dal massacrare le donne britanniche, e il terreno si tinse del rosso del sangue versato, mentre i corpi dei cavalli, trafitti dai dardi nemici, si unirono al cumulo dei morti.


Ma quella giornata fu anche una luminosa vittoria per l'Impero Romano, paragonabile alle glorie antiche. Si racconta che poco meno di ottantamila Britanni persero la vita, mentre le perdite romane furono solo quattrocento, con poco meno di feriti.


La regina britannica Budicca, nella disperazione della sconfitta, si tolse la vita con il veleno, mentre il Prefetto del campo della seconda legione, Penio Postumo, per aver trasgredito contro la disciplina militare e aver defraudato la sua legione della gloria della vittoria, si trafisse con la propria spada, portando un macabro epilogo a questa epica battaglia.


E così, la battaglia di Waitling Street rimase scolpita nella memoria dei tempi antichi, un esempio di coraggio, gloria e tragedia che avrebbe continuato a ispirare le generazioni a venire.


Il racconto si basa su: Tacito, Annali, XIV, 37

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Doveva portate i bambini dal MacDonald

 


“Era previsto maltempo e i bambini mi stavano aspettando”.


Magnifica. La difesa di Lollobrigida messa in piedi ieri in Parlamento è magnifica: tira dentro pure i bambini che non poteva far aspettare. Per questo ha ordinato a un frecciarossa di fermarsi. 


Da Ministro dell'Agricoltura a Babbo Natale de noantri. 

Siamo a livelli di film natalizio. 


Uno ci scherza ma che uno strumentalizzi i bambini così è grave. 

Ma tanto a questi signori è concesso di tutto.

Leonardo Cecchi 

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"Metodi Matematici della Meccanica Classica”.

 


"Lo scopo di una lezione di matematica non dovrebbe essere la derivazione logica di alcune asserzioni incomprensibili da altre altrettanto incomprensibili. È necessario spiegare al pubblico di cosa tratti la discussione e insegnare a usare, non solo i risultati presentati, ma i metodi e le idee”.


Vladimir Igorevič Arnol'd, uno dei più grandi matematici della scuola sovietica. Fu un docente estremamente coinvolgente che scrisse molti libri, tra cui il famoso “Metodi Matematici della Meccanica Classica”. 


Nella lunga lista di riconoscimenti conseguiti manca solo la Medaglia Fields. Arnol’d venne nominato nel 1974 ma l’assegnazione fu boicottata da Lev Pontryagin, che era il rappresentante sovietico dell’Unione Matematica Internazionale, e dallo stesso governo Sovietico. Una probabile motivazione è da ricercare ne fatto che Arnol’d firmò, nel 1968, una lettera insieme a 98 colleghi in difesa di Alexander Esenin-Volpin, matematico e dissidente russo.

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Canadian Queen Jackie Redmond

 






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𝐔𝐤𝐮𝐥𝐞𝐥𝐞 𝐞 𝐬𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐨𝐫𝐚𝐥𝐞: 𝐥𝐞 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐝𝐢 𝐆𝐞𝐨𝐫𝐠𝐞 𝐇𝐚𝐫𝐫𝐢𝐬𝐨𝐧

 



Il sesso orale, un'arte amata non solo dalle rockstar. 


David Bowie, ad esempio, sosteneva di preferirlo ad un rapporto completo, trovandolo più piacevole e meno impegnativo. 


Per Gene Simmons dei Kiss, invece, rappresentò una svolta nella vita:

"Sono stato sempre indeciso se fare il dentista o il cantante; 

ho scelto la seconda carriera perché i dentisti fanno più fatica a farsi fare un pompino" - un tocco raffinato da parte di Gene, come al solito.


Quasi tutte le star hanno ammesso di aver cominciato a cantare o suonare per arrivare a questo piacere senza impegno. 


Negli anni '60, uno dei più accaniti sostenitori di questa pratica era George Harrison.


La leggenda narra che una sera, durante una festa, George stesse tranquillamente suonando il suo ukulele tra una canna e l'altra quando venne avvicinato da una ragazza avvenente e molto disponibile.


George non si fece pregare e la invitò al piano di sopra, dove la ragazza accettò l'invito senza esitazione.


Dopo circa venti minuti, tornata al piano di sotto, la ragazza iniziò a lamentarsi con le amiche. Durante tutto il "monologo" della ragazza, George aveva continuato a suonare il suo ukulele.


Un simpatico aneddoto per ricordare George Harrison, scomparso a Los Angeles il 29 novembre 2001.

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Il tempo scorre inesorabilmente!

 


"Lavori 8 ore per vivere 4.

Lavori 6 giorni per goderti 1.

Lavori 8 ore per mangiare in 15 minuti.


Lavori 8 ore di sonno 5.

Lavori tutto l'anno solo per prenderti una o due settimane di vacanza.


Lavori tutta la vita per andare in pensione in vecchiaia.

E guarda solo i tuoi ultimi respiri.


Col tempo ti rendi conto che la vita non è altro che una parodia di te stesso che pratichi il proprio oblio.


Ci siamo abituati così tanto alla schiavitù materiale e sociale che non vediamo più le catene... "

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OASport, Quando Panatta sfidò Pinochet: la Coppa Davis del 1976, 2017



 47 anni fa la Coppa Davis sempre italiana.....

MAGLIETTE ROSSE NELLO STADIO DELLA MORTE.

IL GIORNO CHE PANATTA SFIDÒ PINOCHET 


Ritengo che pochi eventi quanto i rifiuti, o le proteste, degli sportivi siano in grado di raccontare l'orrore delle dittature sudamericane degli anni settanta del secolo scorso.

Questa volta non c'è un pallone da inseguire o una palla ovale insanguinata. In questo racconto non c'è un hombre vertical che si oppone a un regime. 

Questa volta ci sono delle racchette da tennis e delle magliette rosse.

Ricostruiamo gli eventi che portarono quelle maglie rosse nella storia. 

Tra il 24 e il 27 settembre del 1976 si svolsero le semifinali di coppa Davis. A Roma si incontrarono l'Italia e l'Australia. Vinse la nostra nazionale 3 - 2 grazie alle vittorie nei singolari di Panatta e Barazzutti ed alla vittoria del doppio composto da Bertolucci e lo stesso Panatta.

Nell'altra semifinale avrebbero dovuto incontrarsi l'Unione Sovietica e il Cile ma l'Unione Sovietica si rifiutò di scendere in campo in segno di protesta contro il regime di Pinochet: il Cile passò quindi in finale senza aver disputato l'incontro. 

In conseguenza al boicottaggio della semifinale, l'URSS fu sospesa dalle due seguenti edizioni della Coppa Davis.

Subito dopo il successo in semifinale, in Italia cominciò un dibattito circa l'opportunità di partecipare alla finale. La gara, infatti, si sarebbe disputata in Cile, paese retto dalla dittatura di Pinochet e il campo di gioco si trovava nel complesso dello Stadio Nazionale, divenuto uno dei simboli della repressione del regime perché, negli anni precedenti, era stato usato come campo di concentramento per gli oppositori politici. 

La partecipazione italiana era contestata da numerosi gruppi politici, soprattutto di sinistra, con proteste a mezzo stampa e in piazza.

Un gruppo di giovani arrivò ad occupare i locali della Federtennis urlando "Non si giocano volée con il boia Pinochet". Cortei e cori presero di mira Panatta, reduce da una stagione felice in cui aveva conquistato i due più importanti tornei del mondo su terra rossa: Roma, sconfiggendo l'argentino Guillermo Vilas; e Parigi, battendo l'americano Harold Solomon. 

"Panatta milionario, Pinochet sanguinario", era lo slogan più frequente. Adriano, animo di sinistra per tradizione familiare, soffrì la contestazione. Il governo, guidato da Giulio Andreotti, e il Coni preferirono non prendere posizione, lasciando la decisione alla Federazione italiana tennis. In tutto questo fragore chi giocò un ruolo fondamentale fu Berlinguer. Panatta, raccontò con queste parole l'intervento del leader del Pci: "Per il segretario del Pci non sarebbe stato giusto che la Coppa finisse nelle mani del Cile del regime-Pinochet piuttosto che nelle nostre. Da lì in poi la strada verso la partenza si fece in discesa. Fu come un libera-tutti. Il governo Andreotti disse che lasciava libero il Coni di decidere, quest'ultimo lasciò libera la Federazione e di fatto ci ritrovammo a Santiago, liberi di vincere. Grazie a Berlinguer". 

Adriano conobbe alcuni dettagli solo anni dopo, "Come il fatto che Berlinguer si era in qualche modo sentito con il leader comunista cileno Luis Corvalan e che quest'ultimo lo aveva messo in guardia sulle ricadute politiche, favorevoli al dittatore, di un eventuale boicottaggio". In realtà, dietro l'intervento del segretario del Pci ci fu il concreto rischio che l'ipotesi boicottaggio potesse saldare un improvviso consenso nazionalistico in Cile, utilizzabile poi da Pinochet. 

In conclusione la Federazione italiana Tennis autorizzò la partecipazione. 

Il 17 dicembre 1976 l'Italia si giocò la Coppa Davis in Cile, in un clima surreale. 

I primi due singolari furono vinti da Barazzutti e Panatta. Il giorno seguente era un programma il doppio. Il mattino Panatta chiese a Bertolucci, suo compagno, d'indossare una maglietta rossa e non la classica divisa. Dopo un'accesa discussione tra i due, Paolo Bertolucci accettò la provocazione di Panatta.

Fillol e Cornejo indossarono polo bianche e calzoncini celesti; Panatta e Bertolucci magliette rosso fuoco e calzoncini bianchi. 

Gli italiani vinsero il doppio e la Coppa Davis onorando le vittime della repressione di Pinochet. 

Perché utilizzarono le magliette di color rosso?

ll rosso era il colore dell’opposizione a Pinochet.

il colore che le donne portavano nelle piazze, il colore della protesta, del coraggio e del sangue. 

Il colore utilizzato dalle donne cilene, i cui figli, fratelli, padri o mariti erano stati torturati, uccisi.


Fabio Casalini 


Bibliografia 


OASport, Quando Panatta sfidò Pinochet: la Coppa Davis del 1976, 2017


Il Foglio, Di rabbia e racchette. La Coppa Davis 40 anni dopo secondo Tonino Zugarelli, 2016


Corriere della Sera, Coppa Davis, i moschettieri che sconfissero il Cile e le idee del Pci, 2016

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Essere nemico di Totti è una perdita di tempo

 


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Il femminicidio di Ipazia, matematica, astronoma e filosofa.

 




Ipazia fu barbaramente uccisa ad Alessandria d’Egitto l’8 marzo del 415 d.C. "Venne fatta a pezzi dal clero di Alessandria per compiacere l'orgoglio, l'emulazione e la crudeltà del loro Vescovo" Cirillo, successivamente proclamato santo dalla Chiesa.


"L'invidia si armò contro di lei. Alcuni, dall'animo surriscaldato, guidati da un lettore di nome Pietro, si misero d'accordo e si appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario: qui, strappatale la veste, la uccisero colpendola con i cocci. Dopo che l'ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati questi pezzi al cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia di lei nel fuoco".


Ipazia fu uccisa per la sua autorevolezza. Fu assassinata, brutalmente, per invidia e gelosia e, sicuramente, il suo essere donna fu un aggravante per la sua posizione di persona di libero pensiero. Ipazia è considerata una vittima del fanatismo religioso, dei giochi di potere e una martire del pensiero scientifico.


Ma chi era veramente Ipazia d’Alessandria? Era una scienziata e una filosofa. Una delle prime donne di scienza dell'antichità. Fu una protagonista del movimento di rinascita politica e culturale che si ispirava ai valori della tradizione classica e si contrapponeva alla politica della chiesa gerarchica degli episcopi. 


Da alcuni suoi contemporanei fu riconosciuta come la terza grande caposcuola del platonismo dopo Platone e Plotino. Fu l’ultima grande astronoma dell’antica scuola matematica di Alessandria. Senza ombra di dubbio Ipazia era una donna eccezionale.


Purtroppo non possiamo leggere gli scritti di Ipazia, sono tutti andati perduti dopo l’ennesimo incendio della biblioteca di Alessandria e la distruzione del Serapeo, la biblioteca minore della città. Tutti i contributi della scuola alessandrina furono bruciati a seguito dei decreti emessi da Teodosio I tra il 391 dC e 392 dC. 


Possiamo solo rifarci ai frammenti del suo pensiero desumibili dalle lettere e dagli scritti degli studiosi dell’epoca. Ci si riferisce, in particolare, agli scritti di Sinesio di Cirene, l'allievo più caro d'Ipazia, al quale si devono molte delle notizie della vita e delle opere della scienziata alessandrina, ma anche ai trattati degli storici Socrate Scolastico, Damascio, Filostorgio e Sozomeno.


Ipazia nacque ad Alessandria d’Egitto intorno al 370. Fu introdotta alla filosofia dal padre, Teone, insegnante della scuola d’Alessandria. Iniziò il suo percorso culturale dallo studio delle scienze matematiche – che, secondo la concezione platonica, sono le scienze propedeutiche alla filosofia – per poi giungere alle scienze filosofiche. 


Negli anni succedette al padre nell'insegnamento di queste discipline nella comunità alessandrina e, già nel 393 dC, era a capo della scuola d’Alessandria, insegnando a suoi allievi a considerare la filosofia “uno stile di vita, una costante, religiosa e disciplinata ricerca della verità".


Ipazia è stata l’antesignana della scienza sperimentale: studiò e realizzò l’astrolabio piano (per localizzare o calcolare la posizione di corpi celesti), l'idroscopio (per misurare il peso dei liquidi) e l'aerometro (per determinare i gradi della rarefazione o della condensazione di un dato volume d’aria). 


Lei stessa non considerava l'opera di Tolomeo come l'ultima e definitiva parola in fatto di conoscenza del cosmo, al contrario, questa era ritenuta una semplice ipotesi matematica ed era necessario proseguire ed approfondire le ricerche, per giungere alla comprensione della natura e della disposizione dell'universo.


In ambito filosofico, secondo Socrate Scolastico “ella giunse ad un tale grado di cultura, che superò di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo, a succedere nella scuola platonica riportata in vita da Plotino e a spiegare a chi lo desiderava tutte le scienze filosofiche. Per questo motivo accorrevano da lei, da ogni parte, tutti coloro che desideravano pensare in modo filosofico”. 


Ma ciò che all’epoca rese grande Ipazia fu che non impegnò solo la sua vita a studiare di matematiche, di astronomia e di filosofia, non riservò solo la conoscenza per sé o per pochi eletti, ma al contrario la dispensò a quanti stavano attorno a lei con liberalità e generosità. Ipazia “gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo".


Anche o forse soprattutto per questo fu barbaramente uccisa. Il fondamentalismo religioso vedeva in lei una nemica del cristianesimo. I fondamentalisti temevano che la sua filosofia e la sua libertà di pensiero rappresentassero un’influenza pagana sulla comunità cristiana di Alessandria. 


Questo femminicidio segnò la fine del paganesimo, una profonda ferita per la scienza e per la dignità stessa delle donne. Come scrisse Pascal, Ipazia fu “l’ultimo fiore meraviglioso della gentilezza e della scienza ellenica". 


Con lei, ultima erede della scuola alessandrina, cessa di esistere la più importante comunità scientifica della storia dove avevano studiato Archimede, Aristraco di Samo, Eratostene, Ipparco, Euclide, Tolomeo… e tutti i geni che hanno gettato le fondamenta del sapere scientifico universale. 


Ipazia fu maestra di un sapere scientifico le cui origini risalgono ad almeno mille anni prima e che il crollo del mondo ellenico e il trionfo del cristianesimo seppellirà per molti secoli, sino al nascere della scienza moderna, da Galileo in poi. 


La sua storia, ancora oggi, dovrebbe far riflettere su come i dogmi - ideologici, religiosi o di qualsiasi altra natura - siano nemici della conoscenza, della libertà di pensiero e dell’evoluzione.

(Valentina Gualtieri e Alessandro Somai)


Nell’immagine: “Ipazia” di Magritte


Da: Toponomastica Femminile


Grazie a Ida Accorsi


Ipazia d’Alessandria: 

La biografia della grande filosofa, matematica e astronoma alessandrina  

https://www.biopills.net/ipazia-dalessandria/

Bianca

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Chiesa di San Siro alla Vepra, Milano

 



"Quando l'arcangelo Michele, in contrasto con il diavolo, discuteva per avere il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore!"

 Lettera di Giuda, 9


Chiesa di San Siro alla Vepra, Milano

Semisconosciuta ai milanesi stessi, la chiesa intitolata al Santo che secondo tradizione fu il primo vescovo di Pavia, è un piccolo scrigno che conserva pregevoli affreschi quattrocenteschi. Venne edificata nel IX secolo nei pressi della Vepra, antico canale del fiume Olona. Nel corso del Medioevo acquisì sempre più importanza dando il proprio nome al borgo rurale sviluppatosi intorno ad essa. Tra il 1454 ed il 1482 fu completamente riedificata in stile gotico lombardo con elementi romanici. Dell'edificio quattrocentesco rimane purtroppo solo la parte absidale poiché la famiglia Pecchi, che ne entrò in possesso nel 1483, demolì nel XVII secolo buona parte della struttura per addossarvi un'edifico rurale. Nei primi anni del Novecento subentrarono come proprietari i Fossati i quali, commissionandone i lavori all'architetto Adolfo Zacchi, fecero demolire la casa colonica per costruirvi un'elegante villa signorile in stile neorinascimentale. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale la villa venne abbandonata. Durante l'estate del '44, nel pieno dell'occupazione tedesca, Villa Fossati fu requisita e divenne teatro delle terribili gesta perpetrate dalla famigerata "banda Koch" un gruppo paramilitare spalleggiato dalle autorità militari germaniche. Da allora l'edificio divenne purtroppo noto in tutta Milano come "Villa Triste". Al termine del conflitto la famiglia Fossati non fece più ritorno alla Villa e la cedette, insieme alla chiesa, all'ordine delle Suore Missionarie dell'Immacolata che tutt'ora sono presenti. L’immagine che vi proponiamo è un particolare del ciclo di affreschi quattrocenteschi di autore ignoto che caratterizzano questa piccola ma suggestiva chiesetta milanese. Nella fascia inferiore dell’abside centrale, sottostante al Cristo in mandorla attorniato dai quattro simboli degli Evangelisti, è raffigurata una serie di Santi ai lati di una Crocifissione fra la Madonna e San Giovanni. Vi possiamo ammirare San Michele Arcangelo che, oltre a colpire il demone ai suoi piedi, come nella classica iconografia cristiana, è intento alla pesatura dell'anima (psicostasia). Quest’ultima è una rappresentazione di accertata origine orientale mutuata dalla mitologia egizia. Nell’antico Egitto si credeva infatti che il destino dell’uomo dopo la morte fosse determinato dalla pesatura della sua anima, ossia dal peso delle sue azioni in vita. Anche nell’Antico Testamento sono presenti allusioni alla pesatura delle buone e delle cattive azioni. Nel Cristianesimo il compito di presiedere alla bilancia del giudizio è affidato all’Arcangelo Michele. Da notare l'omino (animula) supplichevole, posto sul piatto sinistro, che simboleggia l'anima sottoposta al giudizio insindacabile dell’Arcangelo.

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mercoledì 29 novembre 2023

Andrej Nikolaevič Kolmogorov

 


Negli anni Sessanta-Settanta del Novecento in Unione Sovietica si istituivano scuole specializzate nell’insegnamento della matematica, tra cui il famoso Liceo N. 239 di San Pietroburgo.


La diffusione di queste scuole è dovuta, in modo particolare, a Andrej Nikolaevič Kolmogorov, uno dei matematici più influenti e brillanti del XX secolo, considerato il più importante matematico russo di quegli anni. Kolmogorov nonostante fosse stato di fondamentale importanza per lo sforzo bellico durante la Seconda Guerra Mondiale, fu uno dei più illustri del suo settore a non essere coinvolto nella ricerca scientifica post-guerra. La motivazione va ricercata nella sua presunta omosessualità dato che, dal 1929, iniziò a condividere una casa col matematico Pavel Aleksandrov.


Nell 1922 Kolmogorov, che all’epoca era uno studente di appena diciannove anni all’Università di Mosca, era già un nome emergente nella comunità matematica ed iniziò a insegnare in una scuola sperimentale della città. Nel 1935, con la collaborazione di Aleksandrov, istituì la prima gara di matematica riservata ai ragazzi. Questa è stata la prima pietra posata per la realizzazione di queste scuole specializzate.

I leader sovietici furono persuasi nel credere che le scuole di specializzazione in matematica e fisica potessero fornire al Paese menti in grado di determinare la vittoria per la corsa agli armamenti. Nel dicembre del 1963 fu quindi istituita la scuola di Kolmogorov e nel giro di pochi anni furono inaugurate strutture simili a Mosca e Leningrado (oggi San Pietroburgo). Vennero inizialmente selezionati quarantasei giovani ragazzi per un campo estivo preparatorio per l’esame di ammissione. Durante questo soggiorno Kolmogorov, aiutato dai suoi ex studenti, organizzò diversi seminari e corsi. Tra tutti i partecipanti vennero scelti solamente in diciannove per entrare nel nuovo collegio di Mosca specializzato in matematica e fisica.


La peculiarità di questa scuola è che i programmi vennero redatti e supervisionati direttamente da Kolmogorov, che creò un piano di studio specializzato per ogni studente. Oltre alla matematica venivano insegnate altre discipline, come musica, arte, architettura russa antica e soprattutto erano incluse molte ore di educazione fisica. Lo scopo finale di Kolmogorov non era solo quello di preparare studenti che potevano eccellere nella matematica, ma era quello di fornire un insegnamento a trecentosessanta gradi. 


Nella scuola il livello dei professori era molto elevato e ragazzi venivano divisi in gruppi in base ai loro interessi e abilità. Ma in URSS l’intero sistema educativo superiore era basato sul concetto di uniformità: gli studenti dovevano ricevere la stessa identica formazione e non era immaginabile quella modalità di insegnamento. Le autorità erano infatti convinte che nella loro società non c’era spazio per un’educazione riservata all’élite.


La riforma scolastica guidata da Kolmogorov fu presa di mira da parte di tutto l’establishment sovietico. Uno dei maggiori matematici sovietici del tempo, Lev Pontryagin, apostrofò con parole di sdegno il lavoro del suo collega:“Non possono suscitare nient’altro che disgusto”. La stampa non fu da meno. Iniziò un petulante attacco mediatico, dove gli autori di queste riforme vennero etichettati come “vittime dell’influenza straniera esercitata dall’ideologia borghese”. L’istituto fondato da Kolmogorov fu dunque oggetto di visite continue da parte delle autorità e nel 1978, ormai settantacinquenne, fu pubblicamente contestato durante l’Assemblea Generale della sezione di matematica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS. 


Kolmogorov fu bollato come un agente al servizio della propaganda occidentale e venne messo pian piano da parte. Non si riprese più dallo scandalo e dagli attacchi pubblici ricevuti. La sua salute peggiorò drammaticamente: iniziò a manifestare i primi sintomi del Parkinson, perse la vista e successivamente la parola. Sembra che fu addirittura aggredito mentre percorreva il corridoio dell’università, colpito alla testa, riportò un trauma cranico che andò ad aggravare la sua precaria condizione di salute.

Morì il 20 ottobre del 1987, a ottantaquattro anni, dopo essere diventato completamente incapace di vedere, di parlare e perfino di muoversi ma fu, fino all’ultimo respiro, circondato dai suoi studenti che gli prestavano servizio di assistenza ventiquattro ore al giorno.


In foto Kolmogorov nel 1963 al liceo da lui fondato (Mosca). Credits Laurent Mazliak by Research Gate

Storie Scientifiche 

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La vetustita' delle religioni

 


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Xanto e Balio

 


Le nozze di Teti e Pelio vennero celebrate davanti alla grotta di Chirone, sul monte Pelio. Vi partecipano tutto gli dei Olimpici e fu la stessa Era a reggere la fiaccola nuziale. Fra i magnifici doni ricevuti da Peleo vanno ricordati una lancia costruita da Atena ed Efesto, una splendida armatura tutta d’oro e i cavalli immortali Xanto e Balio nati da Podargeve e dal vento dell’Ovest.


Entrambi avevano il dono della parola concessogli da Era, erano guidati da Automedonte il cocchiere di Achille, il padre Peleo troppo vecchio per partecipare alla guerra di Troia ne fece dono al figlio, tali animali fecero compagnia all’eroe fino alla fine dei suoi giorni.


Xanto e Balio tenuti da Automedonte 

Olio su tela

Henri Alexandre Georges Regnault 1868

Museum of Fine Arts, Boston

Mitologia greca 

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È stato il più grande filosofo del secolo scorso (insieme a Nils Liedholm)

 


"Sii come l'acqua che si fa strada attraverso le fessure. Non essere assertivo, ma adattati all'oggetto, e troverai un modo per aggirare o attraversarlo. Se nulla dentro di te rimane rigido, le cose esteriori si riveleranno. Svuota la tua mente, sii senza forma. Senza forma, come l'acqua. Se metti l'acqua in una tazza, diventa la tazza. Metti l'acqua in una bottiglia e diventa la bottiglia. Lo metti in una teiera, diventa la teiera. Ora l'acqua può scorrere o può schiantarsi. Sii acqua, amico mio.“

Bruce Lee ( San Francisco, 27 novembre 1940 – Hong Kong, 20 luglio 1973)

Bruce Lee, Piccolo Drago, ha scritto letteralmente la storia degli action movie. Massimo esponente delle arti marziali nel mondo, riuscì a portare sullo schermo la sua disciplina facendo conoscere all'occidente le pratiche asiatiche. Tra le tante citazioni in suo onore, fu di ispirazione per la creazione del famoso manga Ken il guerriero.

Non di solo cinema 

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Ormai è una mattanza continua

 


Non abbiamo neanche finito di far rumore in piazza che altre due donne sono morte ammazzate, oggi, nel quasi-silenzio generale, da altrettanti uomini - non chiamiamole più bestie, uomini - mariti, maschi. 


In Puglia e in Emilia-Romagna.

42 anni una, Vincenza Angrisano, accoltellata dal marito ad Andria.


57 l’altra, Meena Kumari, uccisa a Salsomaggiore Terme con una mazza da cricket, anche in questo caso dall’uomo che diceva di amarla. Di lei non abbiamo neanche un’immagine, nulla. 


Chi credeva che sarebbe bastato un giorno di rumore dovrà ricredersi. Questa è una battaglia che si deve combattere tutto l’anno, anche e soprattutto quei rarissimi giorni in cui non accade nulla, perché sono quei giorni in cui stanno nascendo i femminicidi di domani e dopodomani.


A costo di ripeterlo alla nausea: questo non è un problema delle donne. Questo è un NOSTRO problema. E toccherà a noi risolverlo. Ascoltando, imparando, denunciando, mai tacendo.

Lorenzo Tosa

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Grande la Porcaro

 


"Ho sempre fatto imitazioni per i miei amici da ragazzina, ma non ho mai pensato di portarle a teatro: per una donna è sempre più complicato diventare consapevole di poter far ridere. Sono stati proprio i miei amici a convincermi. 

La vena comica l'ho scoperta per caso, avevo scritto il personaggio dell'operaia Veronica e le sue vicissitudini con il "masto" e mi incitavano a fare il cabaret. L'ho portata in pubblico nel '97 per la prima volta ad una rassegna al Maschio Angioino, presentava Francesco Paolantoni. Ero terrorizzata, avevo i fuseaux attillati, la tuta blu è arrivata dopo. Il pubblico rise all'istante, rimasi stupita".


                                      Rosalia Porcaro

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Iyo is cold as hell




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