A Los Alamos, uno dei procedimenti più pericolosi coinvolgeva gli esperimenti di criticità, durante i quali alcuni scienziati cercavano di determinare la quantità minima di materiale fissile (nota come massa critica) necessaria per avviare una reazione nucleare a catena. La determinazione di questa grandezza era uno dei principali problemi a cui lavorava il reparto teorico.
Questo continuo flirtare con la possibilità di innescare una potenziale catastrofe veniva chiamate, sembra da Richard Feynman, “solleticare la coda del drago”.
Tra coloro che si occupavano di questi di esperimenti, c’era il fisico canadese Louis Slotin. Slotin aveva assemblato il nucleo del Trinity Test, il primo ordigno atomico mai fatto esplodere, e divenne noto come il “capo armaiolo degli Stati Uniti” per la sua esperienza nell’assemblaggio.
I delicatissimi test sulla criticità iniziarono con l'uranio, sotto la supervisione di Otto Frisch, e successivamente furono condotti sul plutonio. Lo scopo di questi test era determinare sperimentalmente le masse critiche, studiando la composizione della parte più interna della bomba. Questa era essenzialmente costituita da due emisferi che dovevano avvicinarsi solo nell'istante del lancio, permettendo all’uranio contenuto in essi raggiungere la massa critica. Slotin conduceva questo esprimenti senza particolari protezioni. I suoi unici strumenti erano dei cacciaviti con cui, con infinita cautela, faceva avvicinare uno degli emisferi all’altro, arrivando soltanto a sfiorare quel ricercato punto critico e a interrompere immediatamente il processo allontanando di nuovo i due emisferi.
Il 21 maggio del 1946, mentre stava eseguendo lo stesso esperimento che tante volte gli era riuscito, qualcosa andò storto.
Ma facciamo un piccolo salto indietro nel tempo, alla notte del 21 agosto del 1945. Quella sera il ventiquattrenne Harry Daghlian, giovane collaboratore di Slotin, tornò dopo cena nel laboratorio “per solleticare la coda del drago”. Quella sera era l’unico scienziato, con solo una guardia di sicurezza era in giro, e questo costituiva una violazione dei protocolli di sicurezza. Daghlian circondò con mattoni di carburo di tungsteno un nucleo di una bomba realizzato da una lega di plutonio e gallio. Mattone dopo mattone costruì questa parete che rifletteva i neutroni rilasciati dal nucleo avvicinandosi al limite di iper-criticità fino a quando non ne urtò uno, facendolo cadere sulla parte superiore della sfera. La iper-criticità venne raggiunta, generando un bagliore di luce blu e un’ondata di calore. Daghlian morì 25 giorni dopo a seguito di un acuto avvelenamento da radiazioni.
Ma torniamo al 21 maggio del 1946 con Slotin che stava maneggiando lo stesso nucleo di plutonio e gallio. Sotto gli occhi di sette colleghi, avrebbe eseguito un esperimento che precedeva di arrivare a una delle prima fasi di una reazione di fissione, posizionando due semisfere di berillio (che giocavano lo stesso ruolo dei mattoni del caso precedente) attorno al nucleo. La procedura era relativamente semplice: Slotin avrebbe avvicinato un emisfero con la mano sinistra e con un cacciavite avrebbe mantenuto una distanza minima dall’emisfero inferiore. Quando iniziò la procedura, uno dei suoi colleghi, Raemer Schreiber, addirittura si voltò per concentrarsi su altro, aspettandosi che l’esperimento sarebbe stato lento e poco interessante. Ma a un certo punto si sentì un rumore: il cacciavite scivolò e l’emisfero superiore di berillio cadde e i due emisferi, col materiale già in fase critica, vennero a contatto troppo rapidamente. Un accecante lampo bluastro riempì tutta la stanza che causò un fuggi fuggi generale delle altre persone presenti. Schreiber, una settimana dopo l’incidente, scrisse in un rapporto:
“Il lampo blu era chiaramente visibile nella stanza sebbene essa fosse ben illuminata dalla luce che entrava dalla finestra e da quelle artificiali. Slotin ha reagito molto rapidamente. Erano circa le 15.”
E infatti fu così. Slotin afferrò con entrambe le mani l’estremità superiore, interrompendo la reazione. I danni causati dall’altissima dose di radioattività a cui si era esposto gli furono subito chiari, ma mantenne la calma e pregò i colleghi di tornare ciascuno al posto preciso in cui erano al momento dell’incidente. Disegnò poi una piantina esatta della stanza in modo che i medici potessero stabilire a quale dose di radiazione ognuno dei presenti si era esposto. La dose, stimata, di Slotin era di circa duemila Sievert, quando già cinque Sievert sono fatali per l’essere umano.
Il secondo scienziato più gravemente colpito dalle radiazioni era Schreiber. Mentre aspettavano l’arrivo dell’ambulanza, Slotin disse con estrema tranquillità:
“Lei se la caverà. Ma io non ne ho la minima probabilità.”
Morì in ospedale dopo nove giorni di agonia.
La foto, anche se sfocata, l'ho scelta perché (secondo un mio parere) ha immortalato benissimo un ragazzo di 36 anni, un giovane che "a nulla pareva interessarsi più appassionatamente nella vita, che al suo lavoro, al quale sacrificava i giorni e le notti". Credits photo Jewish Heritage Center of Western Canada.
Storie Scientifiche
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