"Tutte le sere, dopo l'allenamento, prendo il treno e torno a Cusano.
Mio padre lo incrocio di sfuggita, poche parole, sguardi che ancora si cercano ma non si incontrano. So che è venuto a vedermi giocare a Varedo, ma non sa che io so. Anzi, credo che lui invece sappia che io so, ma comunque non ne parliamo.
È una cosa tra noi. Forse dovrei farmi avanti e dirglielo: 'Papà, anche se non ti piace il calcio vieni a qualche partita… devi vedere quanto corro!'.
O forse è meglio aspettare l'esordio in prima squadra. A quel punto non dovrebbe più avere dubbi sulla mia scelta.
L'occasione per firmare una pace definitiva tra me e mio padre arriva a fine giugno del 1958 quando vengo chiamato all'esordio in prima squadra contro il Como in Coppa Italia.
Il giorno della partita arrivo allo stadio senza aver detto niente a mio padre. Vinciamo 4-1, tripletta di Galli.
Papà viene a sapere del mio debutto dagli amici di Cusano. Sono sulla bocca di tutti: 'Il figlio del Francesco, il Trapattoni, in prima squadra nel Milan…'. Lui mi aspetta giù in cucina e mi dice solo una frase: 'Dovevi dirmelo, stavolta. Io non avrò la fortuna di vederti ancora'.
Tre giorni dopo quella frase un infarto se lo porta via.
È un giovedì, torno dall'allenamento e trovo mia madre che piange disperata, i vicini di casa mi rassicurano che è morto senza soffrire. Un colpo secco.
Perché mi ha detto quella frase? Come faceva a saperlo? Non smetterò mai di pensarci.
Credo che avesse già avuto qualche sintomo e che, com'era tipico degli uomini della sua generazione, avesse fatto finta di niente. Mai lamentarsi.
Mai ascoltare il proprio corpo quando ti lancia dei segnali. Dritti, avanti, a lavorare come se niente fosse".
[Giovanni Trapattoni]
Fonte: autobiografia 'Non dire gatto - La mia vita sempre in campo tra calci e fischi'
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