domenica 5 agosto 2012

Ilva, governo di malattia pubblica

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Non abbiamo ereditato il mondo, l’abbiamo avuto in prestito dai nostri figli. Pensare globalmente agire localmente. Chi inquina, paga. Anche la suggestiva retorica ecologica risuona come un mantra in disuso troppe volte enunciato come in un rituale apotropaico, nel tremendo inesorabile cedimento alla necessità, nell’implacabile resa al ricatto.
Oggi a conferma che chi paga sono le vittime, cioè il popolo italiano, il consiglio dei ministri vara un decreto legge per accelerare la bonifica dell’area di Taranto dopo che il Governo, nell’accordo del 26 luglio scorso con le istituzioni locali, ha stanziato 336 milioni di euro. E per confermare l’apertura del procedimento per una nuova Autorizzazione ambientale all’Ilva di Taranto. Forte coi deboli, debole coi forti, il governo addebita ai lavoratori la sua cedevolezza, ma, come è nella sua indole, vuole solo ubbidire alla volontà proterva e irresponsabile –proprio d’acciaio – di un padrone “sporco”, che non vuole rendere conto dell’oggi, del domani e nemmeno del passato ereditato per incauto acquisto.
Qualche giorno fa Monti è stato folgorato da una sorprendente intuizione: per rimettere in moto la crescita, bisogna puntare sulle produzioni. Forse anticipava l’inesorabilità del ricatto di una ideologia iniqua, che è quella che lo muove: il lavoro e il salario si scontano due volte, con la fatica e la salute. Anzi tre, con la fatica, la salute e la rinuncia a qualsiasi diritto.
Si le acciaierie sono delle instancabili fabbriche di inquinamento: diffondono polveri, fumi e veleni nelle cokerie come negli altiforni, con i processi di laminazione a caldo quanto con quella a freddo, nelle fornaci elettriche come nei convertitori. Le acciaierie nel mondo civile sono costrette o persuase a prevenire o a fronteggiare i danni ambientali: possono integrare nei processi tecnologie innovative per ridurre l’inquinamento. Ma certo, costano. Oppure riducono la loro megalomania profittevole, frazionandosi in piccoli insediamenti che producono meno, inquinano meno e costano meno in termini di riduzione delle emissioni. Ma certo, non è come per il pennello cinghiale, servono fabbriche grandi per produzioni grandi e profitti grandi.
Così le nostre industrie hanno scelto la via “incivile” e irresponsabile, la stessa che prevede l’export di rifiuti e scorie, la stessa che sceglie di accordarsi con la malavita per garantirsi protezioni e rendite o riciclaggi, la stessa che consiste nella politica del ricatto, nello strangolare i diritti, nell’annientare le garanzie, proprio come il racket, proprio come gli strozzini: chi vuole lavoro e salario lo paga in puzze mefitiche, in polvere nera, in malattia. che tanto il problema riguarda i lavoratori e i cittadini se dai tempi dell’Italsider fino a quelli della dinastia Riva né la variamente immaginifica Regione, né i variamente pragmatici ministri dello Sviluppo, né i variamente concilianti ministri dell’Ambiente, né i replicanti governi che si sono succeduti, nessuno, evidentemente correo, è intervenuto con efficacia per rimuovere il problema e costringere all’assunzione di responsabilità l’industria colpevole di omicidio premeditato, di omissione di soccorso e di reiterata menzogna.
Qualche penna cialtrona ha scritto che i sindacati ieri sono stati ripagati della stessa moneta che hanno usato per predicare, quella della faziosità. In realtà hanno meritato l’accusa che abbiamo il diritto di muovere a tutti i nostri rappresentanti, quella di agire per la conservazione delle proprie rendite di posizione, quella di cedere all’inevitabilità di una strada senza alternative al profitto all’accumulazione all’ingiustizia, quella di rappresentare la inesorabilità di un realismo che manomette la realtà per legittimare il compromesso di comodo.
Certo l’impianto di Taranto, il più grande d’Europa, non può oggi materialmente convertirsi in un arcipelago di mini acciaierie. Certo è irragionevole illudersi che si converta spontaneamente a produzioni più sostenibili, perché dovrebbe movimentare investimenti aggiuntivi a quelli anti-inquinamento. Certo è autolesionista fermare una delle ultime produzioni industriali su larga scala che sopravvivono in Italia per un periodo indefinito per permettere alla proprietà di introdurre le tecnologie necessarie. Ma il problema sta anche in quel verbo: permettere, mentre da anni si sarebbe dovuto imporre, sia pure con l’ausilio di incentivi, di aiuti destinati ad avere miglior fine rispetto alle prebende munificamente offerte all’uomo in maglioncino, per riportare all’interno dell’impresa quei costi esterni allo sviluppo che ha generato, in termini di rischio sanitario, ambientale e di qualità della vita.
Ma la logica dell’emergenza, quella che permette che la cancrena invada il vulnus, così che poi tutto è consentito, tutto è legittimo anche l’amputazione, ha sempre la meglio sulla nostra carta costituzionale, usata come una pelle di zigrino che tutti tirano dalla loro parte, che si può manomettere e umiliare con il pareggio di bilancio e le leggi contro il lavoro, ma cui ci si richiama perché la senatrice vada in ferie scacciapensieri.
E così se l’articolo 1 è una mozione degli affetti l’articolo 41 è un optional quando dice che l’attività economica privata, «non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana», anzi uno di quegli ostacoli alla libera iniziativa e un freno allo crescita. Occupazione contro salute a Casale Monferrato o a Taranto, occupazione contro diritti a Mirafiori, occupazione contro dignità nelle migliaia di fucine della flessibilità in ogni parte d’Italia, tutto congiura nel volerci convincere che la necessità impone la rinuncia, ma solo per noi, per la moltitudine, mentre per pochi è il fucile che arma la mano della disuguaglianza. È così che si costituisce l’infame aberrante patto che vincola lavoratori ricattati, cittadini inquinati, imprese inquinatrici e governi complici, quello che ha suggerito a uno dei peggiori ministri del lavoro degli ultimi 150 anni prima di quella attuale, che è un vero record, una frase che è il sigillo dell’infamia: per crescere operai e sindacati devono essere “complici” dei manager e dei proprietari. Quello che legittima l’ideologia delle grandi opere, la Tav in Val di Susa, la Tav di Firenze, il ponte sullo Stretto di Messina, come la ciclopica distruzione del territorio nazionale da parte della speculazione immobiliare, opere futili e inutili, costose, altamente remunerative solo per alcuni e altamente distruttive per tutti, ben collocata sul solito ricatto: per lavorare, per guadagnare, per produrre bisogna produrre danno, alla salute, all’ambiente, al territorio e alla fine anche all’economia reale impantanata nella circolazione di altri inquinanti, denaro sporco, corruzione, debiti che proliferano, occupazione mordi e fuggi.
Gli operai dell’Ilva non hanno scelta. E paradossalmente non l’hanno nemmeno i padroni dell’Ilva che si sono legati indissolubilmente al profitto. Ma noi invece una scelta l’abbiamo, quella di non subire la condanna del ricatto, l’ineluttabilità di una crescita senza qualità, di un’occupazione nemica dei diritti, di una fatica che porta mali e malattie. Oggi più che mai per essere ecologisti bisogna essere anticapitalisti, come per essere femministi, con buona pace de La Fornero, come per essere responsabili e rispettosi dell’interesse generale.
Come per essere liberi.

gek60.altervista.org

 

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