Dopo gli esordi alla Gazzetta del Popolo è stato a lungo vicedirettore de La Stampa: ha portato «Tuttolibri» a divenire il più importante supplemento letterario. Aveva 91 anni
Giornalismo e letteratura, ognuno nel proprio ambito, e nutriti l’uno dell’altro: e una grande passione per i libri, che è anche passione civile. Questo è stato Lorenzo Mondo, firma amatissima de La Stampa, a lungo vicedirettore («Si tratta poi solo di imparare un mestiere», ci diceva spesso con una certa incoraggiante sprezzatura). Ha portato Tuttolibri a divenire il più importante supplemento letterario; e nello stesso tempo resta uno dei critici più significativi del secondo Novecento (e oltre), uno dei «maestri», soprattutto per il lungo lavoro su Beppe Fenoglio e Cesare Pavese. Del primo intuì subito la grandezza, scoprendone le opere maggiori, tutte pubblicate postume, da «Una questione privata» al «Partigiano Johnny» fino, salvati in modo abbastanza rocambolesco, agli «Appunti partigiani».
Del secondo, cui dedicò un’importante e definitiva biografia che lo liberò dalle incrostazioni ideologiche e propagandistiche cresciutegli fatalmente intorno, curò le lettere (insieme a Calvino) e ritrovò i famosi inediti che hanno per mezzo secolo fatto molto discutere, quel «Taccuino segreto degli anni della guerra». Lorenzo – morto oggi a 91 anni – è stato però anche un scrittore impegnato in una letteratura «creativa», da «I padri delle colline» (1988) a «Felici di crescere» (2020), senza dimenticare «Il passo dell'unicorno», (1991) e «Il Messia è stanco» (2000), romanzi sospesi tra il memoriale e l’indagine storica, sempre scavando nella cultura e nell’eredità di una terra amata e vissuta, trovandone un senso riposto. Se abbiamo una certa immagine del Piemonte, è a lui che la dobbiamo: come scrittore, e anche come giornalista.
Aveva cominciato alla Gazzetta del Popolo, ma sono stati i lunghi anni de La Stampa a fare di lui una componente fondamentale di quella che si definisce talvolta l’anima di un giornale. Ci ha insegnato molto. Per quanto riguarda la letteratura, fu invece Giovanni Getto il levatore del futuro studioso. Come ha raccontato l’anno scorso in una videointervista del premio Pavese facilmente reperibile su Youtube, condotta dalla giovane docente universitaria Chiara Fenoglio (nessuna parentela con lo scrittore albese), in realtà aveva frequentato pochissimo le lezioni, perché doveva lavorare per mantenersi anche agli studi, ma al momento della tesi di laurea (su Pavese, appunto) nacque uno stretto rapporto col grande studioso del Barocco, che lo accolse nei suoi seminari a Palazzo Campana lo aiutò a diventare il critico e il filologo che abbiamo conosciuto. Gli fece pubblicare la tesi nella collana da lui diretta, per Mursia (nel 1961, titolo Cesare Pavese), e i riscontri furono subito molto positivi.
Il Pavese di Mondo era molto più vero di quanto allora venisse descritto e interpretato sulla base della sua adesione al Pci, era lo scrittore metafisico e sostanzialmente impolitico. Mancava ancora un tassello per completare il quadro, ma quello venne dopo. Si trattava del «Taccuino segreto», diario «scandaloso» tenuto negli anni della guerra partigiana, dove l’antifascismo attribuito allo scrittore veniva spesso contraddetto. Mondo lo ebbe subito dalla sorella di Pavese, ancora fresco di laurea, quando cominciò a occuparsi dell’epistolario. Lo mostrò a Italo Calvino, ma la decisione fu di soprassedere, semmai di attendere; l’icona antifascista rappresentata da Pavese e il clima politico dei primi Sessanta inducevano alla prudenza. Calvino trattenne il manoscritto, poi scomparso. Mondo però, da bravo giornalista, ne aveva fatto le fotocopie, che tenne trent’anni per sé fino a quando, perdute le speranze di un ritrovamento einaudiano, lo pubblicò su La Stampa – era l’agosto ’90 -, ovviamente con l’assenso dei famigliari. Poche pagine, l’equivalente di un lungo articolo: ma ulceranti, perché in quegli appunti Pavese, nel pieno della Resistenza, sembrava essere sedotto dalle sirene del fascismo. Va detto subito che questi appunti erano «segreti», il segno di una crisi, la parte buia e privatissima di un uomo. Ma renderli pubblico fu un atto di coraggio: anche perché proprio di lì, da quel libro interiore delle tentazioni, cominciò quella che sempre Mondo definì una «strategia del rimorso», sfociata da un lato nell’adesione al partito comunista, e dall’altra nel capolavoro di «La casa in collina». Il critico ci ha restituito così l’immagine vera di Pavese, un grande scrittore «che si lascia solo incidentalmente catturare dalla politica», la stessa della sua fondamentale biografia, «Quell’antico ragazzo», uscita nel 2006 e riproposta in questo periodo da Guanda.
Lorenzo si è congedato forse causalmente nel nome di Pavese. Avrebbe potuto farlo egualmente con quello di Beppe Fenoglio, scrittore che non poté conoscere di persona, ma di cui è stato non solo l’esegeta più importante ma anche colui che ci ha permesso di leggerlo per davvero. Se in vita aveva pubblicato molto poco, l’autore albese aveva lasciato, morendo, manoscritte in varie versioni le sue opere più importanti. Fu Mondo a «ricostruire» e curare per Einaudi (uscì nel ’68) la prima edizione di «Il Partigiano Johnny»: suscitò discussioni e contrasti filologici, ma è un fatto che è quella venduta, letta e studiata da tutti, è il Fenoglio che conosciamo e amiamo. E non fu la sola scoperta fortunata: nel ’94 gli arrivarono gli «Appunti partigiani» (che pubblicò per Einaudi) salvati da un signore che anni prima, a pesca sul Tanaro, aveva rovistato tra un mucchio di cartacce abbandonate. E’ stato davvero un amore ripagato, quello di Mondo per i due grandi. Da loro due «ebbi di questi regali» commentava con la sua abituale, gentile sprezzatura. Suona come un sereno epitaffio.
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