di FRANCESCO MARIO AGNOLI
L’esito delle elezioni politiche è stato disastroso per i movimenti indipendentisti e autonomisti che, impegnatissimi a sfogare i rancori accumulati contro la Lega Nord e a coltivare i loro minimi orticelli elettorali, non hanno saputo cogliere l’occasione, forse unica e irripetibile, del fortissimo movimento di protesta presente nel paese, interamente fagocitato dalM5S, assieme al Pd il più italiano e centralista dei partiti.
Forse è prematuro dedurne che la causa è definitivamente perduta, certo è che la dura sconfitta elettorale della Lega Nord e il mancato successo dei movimenti che, pur facendole concorrenza nello stesso campo, non hanno saputo intercettarne i voti in libera uscita, fanno grandemente dubitare del radicamento anche al Nord della causa indipendentista-autonomista.
In ogni caso se si vuole ripartire urge un ripasso. Se non altro per decidere il fine che si vuole raggiungere e vedere se esistono le condizioni per conseguirlo. Ovviamente indipendenza e autonomia sono due concetti molto diversi e li si è accomunati solo con riferimento all’attuale situazione politica, nella quale i movimenti che se ne fanno portatori si trovano uniti nella contrapposizione ai tradizionali partiti, tutti centralisti, dell’establishment italico.
Gli indipendentisti aspirano ad un pieno autogoverno e alla realizzazione di uno Stato dotato di tutti gli attributi della sovranità, diverso e distinto da ogni altro. Gli autonomisti si muovono all’interno dello Stato di cui sono cittadini, ma aspirano a dargli un’organizzazione costituzionale che garantisca ampie forme di autogoverno ai territori che ne fanno parte.
Se si accetta il principio che ogni popolo, anche se fino a quel momento inserito in un complesso statuale più vasto, ha diritto ad ottenere se lo desideri l’indipendenza attraverso la democratica espressione della volontà della maggioranza, una prima conseguenza della distinzione fra indipendenza e autonomia è che sull’indipendenza deve pronunciarsi solo il popolo che la richiede, mentre sull’autonomia, trattandosi dell’ordinamento di uno Stato che rimane comune, devono decidere tutti i cittadini e non solo quelli residenti nella regione che vi aspira.
Scendendo dall’empireo dei principi astratti al concreto della mediocre realtà italiana, in base al recentissimo esito elettorale si impone la constatazione che, se vi possono essere (o essere state) popolazioni favorevoli all’autonomia del loro territorio attraverso la trasformazione della Stato in forme federali o confederali (questo il disegno perseguito dalla Lega Nord a favore della Padania e non andato a buon fine), nessuna (o quasi – possibile eccezione per il Veneto -) rivela una consistente, quanto meno numericamente, aspirazione all’indipendenza.
Del resto i presupposti per l’aspirazione all’indipendenza, soprattutto quando non si sia in presenza di un conclamato dominio straniero, sono abbastanza complessi ed esigono il concorso di dati storici, culturali ed etnici, nonché di interessi economici che facciano ritenere non più tollerabile la convivenza all’interno di un unico Stato.
Fino ad oggi i movimenti indipendentisti italiani (così come quelli autonomisti) hanno insistito particolarmente sull’aspetto economico, ricordando che le regioni del Nord, a differenza di quelle centro-meridionali, danno in tasse allo Stato molto più di quanto ricevono, ma in realtà questo è vero solo perLombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte.
Storicamente nell’Italia settentrionale (a nord della linea gotica) gli unici territori che abbiano un passato di autentica indipendenza e ne abbiano conservato una eredità per così dire vivente sono, più di ogni altro, il Veneto, che mantiene abbastanza integra l’impronta marciana della Repubblica di Venezia, per secoli una delle grandi potenze europee, e la Liguria in quelle sue parti che possono essere considerate eredi della Repubblica di San Giorgio. Anche i Ducati emiliani di Modena e Reggio e di Parma e Piacenza hanno una tradizione di indipendenza che giunge fino alla metà del XIX secolo, ma, forse per la ridotta estensione territoriale di quei Ducati, le tracce che se ne conservano sembrano avere (con qualche eccezione per Modena) un valore poco più che archeologico, del tutto insufficiente a suscitare sentimenti e muovere passioni. Ancora peggio per la Lombardia (alla quale vanno comunque sottratte a questi fini Bergamo e Brescia – la cui storia appartiene al mondo veneziano – e forse anche Crema e Mantova) non più indipendente e sovrana dai tempi di Ludovico il Moro, e per i restanti territori emiliano-romagnoli, per i quali (a parte la natura puramente artificiale della regione Emilia, storicamente mai esistita) si dovrebbe risalire addirittura all’epoca dei liberi comuni (la Romagna ha una fortissima e antica spinta all’autonomia, ma manca di un riferimento storico per l’indipendenza).
Infine il Piemonte che ha alle spalle una lunga tradizione di indipendenza, sia pure con confini territoriali in parte diversi da quelli dell’attuale regione, ma che risulta ancora storicamente legato all’unificazione dell’Italia, sentita come opera piemontese e, quindi, da difendere nella sua integrità, sicché il Piemonte (come la Lombardia e l’Emilia-Romagna, ma in misura ancora più accentuata) può essere guadagnato alla causa autonomista, ma difficilmente a quella indipendentista.
Un ambito territoriale più vasto, comprendente la quasi totalità delle regioni e delle popolazioni settentrionali, è rappresentato dalla Padania, caratterizzata (anche se qualcuno lo nega) da una comune cultura e da un comune sentire definibili “padani”, ma che in età moderna ha avuto una storia politica comune solo per un brevissimo periodo, per di più in condizioni di soggezione ad una potenza straniera, con la Repubblica Cisalpina e in parte (molto in parte) col napoleonico Regno d’Italia.
Sotto questo aspetto, nonostante non manchino i sostenitori di uno Stato che ne riprenda i confini, delLombardo-Veneto non mette conto di parlare, dal momento che, se è esistita una Lombardia Veneta, parte integrante della Repubblica di San Marco, il Lombardo-Veneto è frutto esclusivo della dominazione austriaca e, per quanto spregiudicati si possa essere, sembra davvero singolare fondare una prospettiva di indipendenza su una unione (a suo tempo mal tollerata dai diretti interessati, in particolare dai veneti) realizzata per iniziativa di una dominazione straniera.
Con questo non si vuole dire che gli abitanti dei territori che non hanno alle spalle una storia come quella di Venezia e di Genova non possano aspirare all’indipendenza, ma solo prendere atto che attualmente si tratta di un’aspirazione di pochi e che la mancanza di una “vivente” memoria storica complica di molto l’opera di convinzione e proselitismo degli indipendentisti.
Forse, per raggiungere qualcosa, converrebbe convincere i veneti a rinunciare al loro sogno d’indipendenza e puntare, assieme agli ex-sudditi del Regno delle Due Sicilie, sull’autonomia e loStato federale, un risultato più a portata di mano, anche se abbastanza arduo perché ragioni anagrafiche tolgano a chi scrive la speranza di vederlo realizzato.
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