"In linea d’aria abitavo a due chilometri dalla Jugoslavia. Vivevo nelle case popolari, al secondo piano, in un quartiere chiamato Borgo Zindis.
Mio padre lavorava nei cantieri navali. Metteva in secca le barche per far sì che poi venissero sistemate: manutenzione, pitturazione, rimozione della ruggine. Papà lo vedevo pochissimo perché era sempre in cantiere.
Lavorava sei giorni su sette e la domenica se la prendeva tutta per sé: usciva di casa la mattina e rientrava la sera.
Crescendo l’avrei visto di più.
Quando iniziai a giocare a calcio a un buon livello, cominciò a seguirmi e a venire alle mie partite.
Non era un padre severo ma sicuramente autoritario, il classico genitore d’altri tempi. Quando parlava lui non volava una mosca.
Lo feci arrabbiare una sola volta ma la combinai davvero grossa. Ero con un gruppo di amici e non so perché ci venne la brillante idea di bucare una ventina di gomme d’auto.
Qualcuno ci vide e la sera arrivarono a casa i carabinieri. Lo dissero a mio padre.
Una volta usciti, tirò fuori la cinghia e me la fece assaggiare. Non riuscii a camminare per due giorni. Una cosa però era certa: me l’ero meritata.
Quella volta mi bastò per capire che certe bravate non erano ammesse.
Iniziai a fumare grazie alla nostra sorellona Laura. Avevo 14 anni. Quando guidava, mi chiedeva sempre di accenderle una sigaretta.
Accesi la prima, accesi la seconda e a furia di accenderle cominciai prima a fumare di nascosto, poi alla luce del sole.
Mio padre si faceva fuori tre pacchetti di MS al giorno, quindi per lui era impossibile accorgersi della puzza. E per mia madre, che aveva smesso da molti anni ormai, valeva lo stesso: vivendo con papà, era come se fumasse ancora.
Per tanti miei compagni la vigilia della partita era un problema.
Ho visto giocatori diventare bianchi. Ne ho sentiti altri urlare contro chissà chi. Solitamente erano quelli che se la facevano sotto più di tutti. Morivano di paura.
Io no.
Ero un tipo rilassato, per nulla agitato, e questa mia tranquillità influiva positivamente anche sulle prestazioni.
Fumavo la mia bella sigarettina, mi facevo fare un massaggio. Ridevo, scherzavo, mi cambiavo con calma e solo dopo l’appello all’arbitro cominciavo a pensare alla partita e ai movimenti che avrei dovuto fare.
Solo in quel momento iniziavo a concentrarmi per davvero".
[Dario Hubner]
Fonte: autobiografia "Mi chiamavano Tatanka"
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