sabato 1 marzo 2014

L’ironico incedere poetico di José Emilio Pacheco

 Il quat­tor­dici gen­naio se n’è andato il suo amico e vicino di casa Juan Gel­man (entrambi vive­vano nella Colo­nia Con­desa, a Città del Mes­sico), del quale si defi­niva «let­tore intimo», e a lui, alla sua ven­ten­nale pre­senza nella capi­tale mes­si­cana, José Emi­lio Pacheco aveva dedi­cato la sua ultima rubrica sulla rivi­sta Pro­ceso, una colonna set­ti­ma­nale inti­to­lata Inven­ta­rio che per anni è stata una sorta di bus­sola non solo let­te­ra­ria, ma anche etica e civile per i suoi nume­ro­sis­simi e fedeli let­tori. Ter­mi­nato nel pome­rig­gio di venerdì scorso , l’articolo era desti­nato a uscire il gio­vedì suc­ces­sivo, come sem­pre: e invece lo si può leg­gere già ora sul sito della rivi­sta, in memo­ria non solo del grande poeta argen­tino, ma dello stesso Pacheco che , rico­ve­rato sabato dopo un banale inci­dente dome­stico, è morto dome­nica «tran­quillo, in pace e sulla brec­cia come ha sem­pre desi­de­rato», secondo le parole di sua figlia Laura Emi­lia, lasciando al Mes­sico e al mondo una straor­di­na­ria opera poe­tica che ne fa uno degli autori di lin­gua spa­gnola più impor­tanti del Novecento.
«Sono nato a metà di un anno orri­bile, il 1939, e tut­ta­via non ho affron­tato i disa­stri della guerra. Non ho patito i bom­bar­da­menti, le bat­ta­glie, le per­se­cu­zioni, i campi di ster­mi­nio. Ho spe­ri­men­tato tutto ciò a distanza e non per que­sto ha ces­sato d’imprimersi in quello che ho scritto.
Ora la vio­lenza e la cru­deltà estreme sono il mio pane quo­ti­diano e vivo nel cuore di un con­flitto bel­lico senza spe­ranza di vit­to­ria. A que­sto si somma la vista esa­cer­bata della fame e della mise­ria nel Mes­sico e nel mondo. A tutto ciò, cui non smetto mai di pen­sare, aggiungo l’angoscia di quanti restano senza lavoro e dei gio­vani che non tro­vano il posto per il quale sono stati pre­pa­rati. (…) E a volte mi sento affine a Pal­lada, il poeta di Ales­san­dria che vide crol­lare il suo mondo e con­tem­plò il trionfo del cri­stia­ne­simo su quanto era stato per molto tempo greco e romano».
Così aveva detto nel discorso di accet­ta­zione del Pre­mio Cer­van­tes rice­vuto nel 2009, aggiun­gendo che la lin­gua in cui era nato era sem­pre stata la sua unica ric­chezza. Una ric­chezza messa a frutto nel migliore dei modi, «inve­stita» com’è in sedici rac­colte di versi (tra esse l’antologia del 2009 che riu­ni­sce quasi per intero la sua opera,Tarde o tem­prano; in ita­liano si può leg­gere Gli occhi dei pesci, una scelta di poe­sie curata e tra­dotta da Ste­fano Ber­nar­di­nelli per Medusa nel 2006), due romanzi (il più famoso, Le bat­ta­glie nel deserto, vera pie­tra miliare della let­te­ra­tura mes­si­cana, è uscito nel 2012 presso La Nuova Fron­tiera) e sei volumi di splen­didi rac­conti, uno dei quali, Il prin­ci­pio del pia­cere, uscirà a breve per le edi­zioni Sur.
A tutto que­sto vanno aggiunti saggi, magi­strali tra­du­zioni di autori come Eliot, Sch­wob, Bec­kett, e migliaia di arti­coli com­po­sti nel corso di una lunga atti­vità gior­na­li­stica che non riguar­dava solo la let­te­ra­tura e che pro­ce­deva in paral­lelo a una car­riera uni­ver­si­ta­ria di grande impe­gno e pre­sti­gio, che dal Mes­sico lo ha por­tato negli Stati Uniti e in Inghilterra.
Insieme ad altri nomi impor­tanti della cul­tura mes­si­cana, Pacheco faceva parte della cosid­detta Gene­ra­ción de los 50 , una gene­ra­zione di rot­tura che ha vis­suto la tra­sfor­ma­zione di un Mes­sico arcaico, ancora segnato dalle ferite della guerra cri­stera scop­piata alla fine degli anni Venti, in una nazione indu­stra­liz­zata a tappe for­zate e cata­pul­tata in una moder­nità «libe­ri­sta» che dilata e radi­ca­lizza ulte­rior­mente le dise­gua­glianze sociali, la cor­ru­zione, l’intreccio pro­fondo tra poli­tica e cri­mi­na­lità. È una nazione comun­que ribol­lente di cam­bia­menti e novità, in cui la classe media si acco­sta timi­da­mente per la prima volta all’allettante pos­si­bi­lità di nuovi con­sumi, e si vedono nascere le opere di un gruppo di scrit­tori ecce­zio­nali, aperti a un rin­no­va­mento lin­gui­stico e tema­tico, come Juan Gar­cía Ponce, Jorge Ibar­güen­goi­tia, Car­los Fuen­tes, Juan José Arreola, Rosa­rio Castel­la­nos, Jose­fina Vicens, Ser­gio Pitol, Car­los Mon­si­váis, l’appartato e gran­dis­simo Juan Rulfo e molti altri, ormai in buona parte assurti al rango di clas­sici moderni. Tra loro, José Emiio Pacheco spicca per la sua capa­cità di inter­pre­tare e rac­con­tare il cam­bia­mento: pochi romanzi, infatti, sono capaci come Le bat­ta­glie nel deserto di offrire il ritratto di una nazione e di una società in rapido e tumul­tuoso muta­zione, e di farlo attra­verso un uso iro­nico, affet­tuoso e spe­ri­co­lato della lin­gua e della cul­tura popo­lare, fil­trando il tutto attra­verso lo sguardo di un dodi­cenne che si inna­mora per­du­ta­mente di una donna adulta.

Essen­ziale, asciutto

L’adolescenza e l’infanzia, intese come sta­gioni di pas­sag­gio e a loro modo dolo­rose, sono del resto uno degli argo­menti pre­fe­riti del Pacheco cuen­ti­sta, autore di rac­conti che imman­ca­bil­mente sfio­rano la per­fe­zione e che non sono certo infe­riori all’opera del Pacheco poeta, osses­sio­nato dallo scor­rere del tempo, dalla deva­sta­zione che l’uomo infligge alla terra, dalla soli­tu­dine e dalla morte, e tut­ta­via capace, sem­pre, di un con­ti­nuo e sot­tile eser­ci­zio di iro­nia che passa anche attra­verso l’uso di una lin­gua «par­lata» , essen­ziale, asciutta.
Di lui, oggi, la cul­tura mes­si­cana e soprat­tutto i let­tori che lo ado­ra­vano (una leg­genda urbana dice che non potesse cam­mi­nare per la strada senza essere con­ti­nua­mente fer­mato da per­sone che vole­vano dir­gli quanto i suoi libri fos­sero stati impor­tanti per loro) ricor­dano non solo la sta­tura let­te­ra­ria ma anche la gene­ro­sità, l’umorismo, la sem­pli­cità, l’interesse per la nuova e sor­pren­dente gene­ra­zione di scrit­tori che va cre­scendo in Mes­sico, la fer­mezza nello spen­dersi per le cause che rite­neva giu­ste, l’ansia per la ter­ri­bile con­di­zione attuale del suo paese. «Prima Gel­man e poi lui: siamo rima­sti orfani di poeti», si legge in uno dei tanti ricordi com­parsi sulla stampa mes­si­cana, dove la noti­zia della morte dello scrit­tore occupa le prime pagine. Ma, para­fra­sando pro­prio quanto ha scritto Pacheco alla scom­parsa del poeta argen­tino, si potrebbe dire che l’autore di Le bat­ta­glie nel deserto non tor­nerà, eppure non se ne andrà mai.
http://ilmanifesto.it/lironico-incedere-poetico-di-jose-emilio-pacheco/

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