mercoledì 23 marzo 2022

Alfredo Zardini

 


Forte dei suoi 135kg, lo massacrò di botte. Poi lo prese e lo trascinò fuori dal bar, gettandolo in mezzo alla strada gremita di gente. Lì gli frantumò viso e addome a calci, nella totale e assoluta indifferenza delle persone che passavano.


Alfredo Zardini era un emigrato italiano, una brava persona, nota a molti per la sua indole pacifica; un padre di famiglia contento matto per aver trovato un lavoro in Svizzera. Era povero, come tanti all’epoca. Ma a Zurigo sperava di poter mettere da parte un po’ di soldi per moglie e figli.


Quella mattina aveva il colloquio di lavoro. Si concesse un caffè, prima di andarci.


Ma nel bar si imbatté in uno dei tanti razzisti dell’epoca. Uno di quelli che odiava gli italiani che "rubavano il lavoro". Era uno svizzero-tedesco di oltre un metro e novanta. Si accorse subito che Alfredo era italiano. Uno sguardo, una parola. Gli bastò poco per massacrarlo.


Rimase sulla strada, esamine, per decine di minuti. Nessuno lo aiutava, nessuno faceva niente. Era un immigrato, in fondo.

Quando dopo un bel po’ qualcuno si degnò di chiamare un’ambulanza, era troppo tardi.


L’assassino, chiamato Gery, se la cavò con una condanna per eccesso di legittima difesa.

La Svizzera non pagò nemmeno i funerali. Ci pensarono gli altri italiani, a farlo.


Ogni anno, a marzo, ricordo la storia di questo italiano perché mi ha sempre colpito nella sua profonda tristezza. E perché mi fa riflettere sul tempo in cui eravamo noi a subire il razzismo. Di quel tipo che per un caffè ti giochi la vita.

Leonardo Cecchi 

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