mercoledì 25 giugno 2014

Joe Petrosino e la Mano Nera. Il superpoliziotto che parlava italiano

petrosino-Gea Ceccarelli- Con l'operazione "Apocalisse" della Dia di Palermo, sembra che, dopo oltre cento anni, sia finalmente emerso il nome dell'assassino del "superpoliziotto" italo americano Joe Petrosino.Nell'ambito delle indagini che hanno portato allo smantellamento della nuova cupola di Cosa Nostra, infatti, gli inquirenti hanno raccolto alcune intercettazioni del ventinovenne Domenico Palazzotto, che spesso e volentieri si è vantato con gli amici di esser un discendente dell'uomo che uccise l'agente venuto dall'America per fermare l'inventore di Cosa Nostra per come la conosciamo:Vito Cascio Ferro. Lo stesso che, sempre secondo quanto sostenuto da Palazzotto, fu il mandante dell'assassinio avvenuto la sera del 12 marzo 1909 a Palermo.
La rivalità tra Don Vito e Joe Petrosino, d'altra parte, è nota: ha ispirato film, fumetti, serie tv. Tutte incentrate sulla figura di quel ragazzo nato a Padula nel 1860 e, ben presto, trasferitosi a New York durante le ondate migratorie che, in quegli anni, avevano interessato l'Italia e il meridione in particolare.
Tra i tanti cittadini che abbandonavano il proprio paese per recarsi in America, ovviamente non mancarono delinquenti, i quali, giunti nella città della Statua della Libertà, riuscirono a riorganizzarsi e creare veri e propri ricettacoli di criminalità. Una situazione che creava non pochi problemi alla polizia locale, incapace di comprendere non solo il linguaggio, ma anche la cultura e le abitudini di quegli italiani, tutti radunatisi in uno dei quartieri più fatiscenti e pericolosi di New York, la non a caso ribattezzata Little Italy.
Fu qui che crebbe Petrosino, facendo il lustra scarpe, fino al compimento del suo diciottesimo anno di età: allora, infatti, riuscì a ottenere la cittadinanza americana e entrare, quasi contemporaneamente, nella nettezza urbana che, ai tempi, era un reparto della polizia locale. In breve, divenne informatore delle forze dell'ordine: era in grado di comprendere l'italiano e sapeva cosa accadesse in quel malfamato quartiere, rappresentando per le autorità una fonte preziosissima per combattere le bande, sempre più potenti e diffuse. Un contributo talmente prezioso da consentirgli, nel '83, di diventare poliziotto a tutti gli effetti: Petrosino, d'altronde, era tra i pochissimi ad aver realizzato come la lotta al crimine passasse necessariamente attraverso la conoscenza del territorio e dei suoi abitanti.
Vivendo la figura del migrante, conosceva anche le dimaniche del racket che i migranti erano costretti a subire ogni giorno, ad ogni sbarco: ogni italiano che raggiungesse le coste dell'America veniva ingannato e preso in trappola da criminali, italiani giunti nel Nuovo Continente precedentemente: a fronte di false promesse, i malviventi riuscivano a farsi consegnare dai disperati viaggiatori i loro beni e i pochi averi che portavano con sé.
Frattanto, in Sicilia, perdevano i propri possedimenti: per acquistare il biglietto del viaggio della speranza, infatti, i contadini erano costretti a ipotecare a prezzi stracciati le proprie terre; una volta in America non riuscivano, comunque, a riscattarle così che, inevitabilmente, i terreni finivano in mano alla mafia.
Si trattava in tutto e per tutto di un traffico di esseri umani, spediti da un continente all'altro in nome del guadagno della criminalità. A coordinare tali traffici in Sicilia, in quegli anni, vi era nientemeno che Vito Cascio Ferro, figura ambigua, "rivoluzionario" e "nobile" al tempo stesso, "contadino" e notoriamente mafioso.
Cascio Ferro aveva la propria base a Bisacquino, cittadina in provincia di Palermo, in cui era riuscito a introdursi nel "circolo dei civili" -assieme a membri della nobiltà- e, contemporaneamente, ad avvicinarsi al mondo dellamassoneria. Soprattutto, era stato in grado di configurarsi come una sorta di rappresentanza statale in un territorio dove lo Stato non esisteva. Al tempo stesso, la sua militanza in ambienti anarchici gli aveva permesso di acquisire la fiducia del popolo, di cui si considerava parte integrante.
In breve, grazie ai suoi rapporti con uomini di potere, divenne "padrino"; in nome della filosofia di "una mano lava l'altra" aiutava poi la polizia a individuare rivoltosi ricoprendo il ruolo di informatore, con un'unica richiesta: che le autorità non indagassero mai sui suoi, di affari, legati al pizzo, di cui è considerato il padre.
Nel 1900, per seguire meglio i traffici legati all'immigrazione, Don Vito si trasferì a New York: qui, fu in grado di creare una vera e propria struttura organizzata tra le tante famiglie delinquenti italiane, facendo sì, dunque, che si venisse a creare quel sistema che oggi riconosciamo come Cosa Nostra. Un'impresa assolutamente non facile: Cascio Ferro divenne il boss di Little Italy e qualsiasi famiglia e banda criminale che in quella zona operasse doveva rendere conto a lui. Non solo: grazie al suo trascorso tra i fasci siciliani, riuscì a creare rapporti tra la sua cellula criminale e ambienti anarchici, che lo riconoscevano come rivoluzionario e da cui prese in prestito il nome di "Mano Nera" e al cui interno si insediò con la sua cellula mafiosa.
La Mano Nera, inizialmente, era infatti un'organizzazione terroristica di solo tipo anarchico, di cui faceva parte anche Gaetano Bresci, l'uomo che uccise il re di Italia Umberto I: l'attentatore proveniva da Patterson e, per questo motivo, l'allora assessore alla polizia di New York Roosevelt convinse il PresidenteMcKinley ad affidare l’indagine a Joe Petrosino, di cui era ammiratore. In breve, il superpoliziotto riuscì a dimostrare che dietro l'assassinio del re si nascondevano gli anarchici-mafiosi, i quali avevano ancora una lunga lista di bersagli, tra cui lo stesso presidente americano.
Mckinley, però, non vi credette e, nel settembre del 1901, venne ucciso dall'anarchico polacco Leo Czolgosz. Laconica la reazione di Petrosino, che dichiarò solo: "Io l'avevo detto". Presidente divenne poi Roosvelt, che, in nome della fiducia nei confronti del poliziotto, gli affidò pieni poteri affinché annientasse la criminalità anarco-mafiosa di New York. 
Fu un'ascesa, per Petrosino: il "superpoliziotto" battè per anni ogni strada di Little Italy, costringendo decine e decine di delinquenti a confessare di far parte della Mano Nera e di aver collegamenti con Cascio Ferro e la mafia siciliana.
Nel 1903, poi, si verificò il cosiddetto "delitto del barile", passato alla storia. Il corpo di Roberto Madonia, uomo di Don Vito, venne ritrovato orribilmente sfigurato all'interno di un barile di segatura, proprio a Little Italy. Secondo Petrosino, a cui furono affidate le indagini, l'assassinio doveva dipendere da Cascio Ferro e impiegò tutte le proprie forze per incastrarlo.
Con i suoi metodi, considerati oggi brutali, riuscì a convincere alcuni carcerati a collaborare: tra questi, Giuseppe Di Prima, il quale raccontò come Madonia fosse incorso nell'orribile morte poiché aveva osato reclamare la sua parte di soldi, provenienti dallo spaccio e dagli affari legati alla produzione e distribuzione di dollari falsi.  Le indagini portarono dunque all'arresto di Joe Morello, che già nel 1900 era stato condannato per falsificazione di  banconote, stampate in Sicilia e importate negli Usa attraverso lattine d'olio munite di doppiofondo. L'uomo, inoltre, era legato alla Mano Nera e, ovviamente, a Cascio Ferro, ritenuto il secondo mandante dell'assassinio di Madonia.
Petrosino, però, non riuscì ad ammanettare il boss e condurlo in carcere come avrebbe voluto: il padrino, infatti, era tornato in Sicilia e, da lì, teneva sotto controllo l'asse New York-Palermo che lui stesso era stato in grado di creare. Non per questo aveva dimenticato Petrosino: don Vito, anche in Italia, era infatti solito girare con una foto del poliziotto nel taschino, promettendo che lo avrebbe ucciso con le proprie mani.
Non diversa era l'ossessione dell'agente che, frattanto, aveva ricevuto la promozione in tenente e l'incarico di formare la cosiddetta "Italian Branch", che si occupava esattamente di combattere la mafia a Little Italy e l'estorsione che, principalmente, l'organizzazione metteva in atto. Uno degli episodi più emblematici dell'efficacia di tale squadra fu quella che vide oggetto Enrico Caruso: l'artista, in tournée nella Grande Mela era stato infatti vittima di ricatti da parte di alcuni componenti della cellula mafiosa. Petrosino e i suoi uomini convinsero dunque Caruso a collaborare e arrestarono tutti i responsabili.
Il tenente, però, sapeva di avere le mani legate: ben prima di Falcone e Borsellino, aveva compreso come, dietro la mafia, si nascondessero gliinteressi dei potenti, di politica e di imprenditoria. Aveva capito che tanti dei mafiosi giunti in America dalla Sicilia, godevano di una sorta di immunità: venivano spediti a New York dallo stesso governo italiano, da una parte per liberarsene e, dall'altra, per ricambiare a "favori" compiuti proprio nei piani alti delle istituzioni. Tale traffico di uomini aveva come risultato quello di rifornire continuamente le schiere di Cosa Nostra negli Usa, con sommo gaudio di Cascio Ferro, il quale si avvaleva dell'aiuto di "insospettabili" come Giuseppe Fontana, l'uomo cerniera tra mafia e politici del calibro di Raffaele Palizzolo,accusato di essere il mandante dell'omicidio Norberto.
A fronte di un simile scenario, Petrosino fece quello che ritenne più opportuno: iniziò a denunciare l'inadeguatezza della legge sull'immigrazione americana, che impediva di rimpatriare facilemente criminali. I suoi appelli, come prevedibile, caddero nel vuoto, così che decise di sottoporre al capo della polizia, Bingham, il suo piano: recarsi in Sicilia e frugare nelle fedine penali degli appartenenti alla Mano Nera a New York, così da permetterne il rimpatrio con modalità più veloci ed efficaci.
Doveva essere una missione segreta, voluta dal governo e dalle banche, stanche di vedersi penalizzate dagli affari illeciti di Cosa Nostra. Nel 1909, alla fine, tutto fu pronto: Petrosino partì alla volta dell'Italia sotto il falso nome di Guglielmo Simonet e, una volta giunto nel suo paese d'origine, si sarebbe dato da fare per scovare le prove che cercava ormai da anni, in grado anche di incastrare definitivamente Cascio Ferro.
Qualcosa, però, andò storto: appena salpato per mare, il capo della Polizia si lasciò sfuggire la sua partenza con i giornalisti. La copertura saltò seduta stante e la notizia dell'imminente arrivo di Petrosino raggiunse la Sicilia di  Cascio Ferro, deciso più che mai a fermare il suo nemico una volta per tutte.
Petrosino giunse in Italia i primi giorni di marzo del 1909: in pochi giorni fu in grado di trovare tutte le prove che necessitava; si accorse con poca difficoltà degli intrecci politico-mafiosi che nell'isola erano vissuti come una normalità; degli interessi imprenditoriali e istituzionali che si celavano dietro le attività di Cosa Nostra, la quale era già riuscita a tessere collegamenti con i palazzi di potere romani. Aiutato da una serie di informatori, era riuscito a raccogliere quanto serviva e, il 12 marzo, per assurdo, sarebbe già stato pronto a rientrare a New York.
Non lo fece: quella sera, come le altre trascorse a Palermo, si recò al ristorante e, ad un tratto, il cameriere gli si avvicinò per avvisarlo che erano giunte due persone per parlargli. Evidentemente, Petrosino attendeva qualcuno di cui si fidava e non si fece problemi ad alzarsi, pagare il conto, e uscire in strada, in centro città, diretto verso piazza Marina.
Solo successivamente si scoprì come, assieme a lui, da New York, erano partiti due uomini di Cascio Ferro, Passananti e Costantino: il primo, in particolare, aveva inviato poco prima dell'omicidio del tenente un telegramma a Morelli. Entrambi, poi, furono avvistati in Piazza Marina la sera stessa.
La medesima piazza in cui Petrosino fu raggiunto da quattro colpi di pistola: uno al collo, due alle spalle, e un quarto mortale alla testa. Per lui non vi fu niente da fare. Poche ore dopo, il console americano a Palermo telegrafò al suo governo: "Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera", scrisse. "Muore un martire."
Cascio Ferro venne arrestato e subito scarcerato: un deputato, suo amico, gli fornì un alibi di ferro. Ci vollero anni, prima di vederlo nuovamente in prigione, durante il periodo fascista. Fu lì, dietro le sbarre, che si spense, portando, con sé, i misteri di un assassinio che rivendicava, ma su cui regnano ancora troppi angoli oscuri, che forse solo ora gli inquirenti riusciranno a illuminare.

http://www.articolotre.com/2014/06/joe-petrosino-e-la-mano-nera-il-superpoliziotto-che-parlava-italiano-contro-don-vito/

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