1. APPENA DUE PAGINE MA È UN VERBALE OSCENO QUELLO DEL “PIACIONE” DI MOTTA VISCONTI - 2. “QUELLA SERA ABBIAMO MESSO A LETTO I BAMBINI VERSO LE 22, POI ABBIAMO FATTO L’AMORE. MARIA CRISTINA SI È RIVESTITA E SI È MESSA A GUARDARE LA TELEVISIONE. IO, IN MUTANDE, SONO ANDATO IN CUCINA, HO PRESO UN COLTELLO E SONO TORNATO IN SALA. L’HO COLPITA CREDO ALLA GOLA, DI SPALLE. LEI SI È SUBITO ALZATA E HA CERCATO DI SCAPPARE VERSO SINISTRA IO L’HO RAGGIUNTA E L’HO COLPITA NUOVAMENTE ALL’ALTEZZA DEL COLLO... LEI HA CONTINUATO A GRIDARMI: “PERCHÈ… PERCHÉ?”. DOPO CHE LEI SI È ACCASCIATA A TERRA SONO SALITO AL PIANO SUPERIORE E SONO ANDATO IN CAMERA DI MIA FIGLIA GIULIA, LA PORTA ERA APERTA MA LEI DORMIVA, NON AVEVA SENTITO NULLA. RICORDO SOLO CHE LE HO DATO UNA COLTELLATA ALLA GOLA’’ - 3. LA COLLEGA DI CUI SI ERA INVAGHITO: “AVEVA TENTATO DEGLI APPROCCI, SEMPRE RESPINTI” - 4. L’INFORMATICO CARLO LISSI HA CHIESTO IL MASSIMO DELLA PENA. L’AVRÀ. MA MERITEREBBE DI PIÙ: RICORDARE PER SEMPRE QUANDO HA ALZATO LA MANO ASSASSINA SUI SUOI FIGLI -
Paolo Colonnello per ‘La Stampa’
«Eravamo una coppia felice...». È un verbale di appena due pagine, registrato nel silenzio della notte, senza rumori di fondo. Nè dell’anima, né dell’umana pietà. Due pagine dettagliate di fredda cronaca di un massacro famigliare, prive di ripensamenti, di lacrime, di semplice dolore per la moglie o per i figli, di cinque anni e 20 mesi, uccisi.
Una strage che solo alla fine rivela il movente, di una sconcertante banalità: «L’ho fatto poiché non avevo il coraggio di chiedere a mia moglie di separarci, cosa che io invece, volevo fare». Letto, firmato, sottoscritto. Carlo Lissi, 31 anni, si è alzato dalla scomoda seggiola degli interrogatori nella caserma di Abbiategrasso e si è stirato le gambe. Tutto qui.
Ai carabinieri del nucleo investigativo di Milano, annichiliti da quel giovane gelido e dalla sua storia folle, non è rimasto che arrestarlo e consegnarlo al magistrato. Alle 8 di sera gli avevano proposto una pizza, lui aveva chiesto anche una birra. Come se fosse normale trovarsi in una caserma dei carabinieri in attesa che venisse trovato l’assassino della propria famiglia.
Aveva mangiato di gusto mentre i militari lo osservavano sconcertati, ormai convinti di avere davanti l’unico vero responsabile della strage. E mentre mangiava continuava a ripetere la sua versione, sempre più improbabile: «Quando sono tornato a casa dalla partita, sono passato dal garage, e mi sono spogliato perché non volevo fare rumore e svegliare i bambini. Mi sono messo le ciabatte e sono salito facendomi luce con il display del cellulare... Mi sono reso conto che in casa c’era disordine come se qualcuno avesse rovistato dappertutto…Poi mi sono diretto in sala...e ho scorto le gambe di mia moglie, le ho toccato la testa e mi sono imbrattato del mani di sangue. In quel momento mi sono toccato le mutande per cercare di pulirmi…Sono salito, ho visto i bambini in un lago di sangue…Sono sceso di corsa e mi sono messo a urlare. Poi sono rientrato, ero inebetito, una vicina mi ha detto che numero fare, ho chiamato il 112…»».
E via, di bugia in bugia, mentre già gli investigatori avevano escluso la possibilità di una rapina: nessuna effrazione, nemmeno intorno alla cassaforte aperta, nessun segno di scasso. Solo sangue e violenza. Che ore erano? Le 23, raccontano due vicini che riescono a collocare le grida di Maria Cristina Omes a quell’ora, anche se scambiano le richieste di aiuto per schiamazzi di giovani il sabato sera. Ma non ci sono giovani in quel momento: c’è il temporale e c’è la famiglia di Lissi che viene massacrata nell’indifferenza di un paese.
Carlo Lissi inizia a scuotersi e crollare soltanto quando i colonnelli Storniolo e Carparelli, verso le tre del mattino, gli leggono il verbale della sua collega carina, Federica, quella per la quale aveva perso la testa e che da mesi corteggiava insistentemente senza speranza.
«Lo vedi? Lei non ti vuole…Dai, dillo che lo hai fatto per lei..». Allora, l’informatico salutista, dal fisico asciutto e le mani curate (ma con microscopiche ferite da taglio rilevate dal medico legale), ha chinato la testa e ha voluto che venisse messo a verbale: «Premetto che voglio mi sia dato il massimo della pena. Sono stato io a uccidere mia moglie e i miei figli». Poi non c’è stato bisogno di fargli nemmeno una domanda.
«Eravamo una coppia felice. Quella sera abbiamo messo a letto i bambini verso le 22, poi abbiamo fatto l’amore. Maria Cristina si è rivestita e si è messa a guardare la televisione. Io, in mutande, sono andato in cucina, ho preso un coltello e sono tornato in sala. L’ho colpita credo alla gola, di spalle. Lei si è subito alzata e ha cercato di scappare verso sinistra io l’ho raggiunta e l’ho colpita nuovamente all’altezza del collo...
Lei a quel punto ha cercato di prendermi il coltello afferrandomi la mano destra, ovvero la mano che impugnava l’arma. Allora l’ho colpita in faccia con la mano sinistra…Lei in tutta questa azione ha inizialmente detto “no”, poi ha continuato a gridarmi: “Perchè… perché?”. Dopo che lei si è accasciata a terra sono salito al piano superiore e sono andato in camera di mia figlia Giulia, la porta era aperta ma lei dormiva, non aveva sentito nulla.
Era a pancia in su. Ricordo solo che le ho dato una coltellata alla gola. Dopo che ho estratto la lama, lei si è girata di lato e così è rimasta. Non ha detto nulla. Poi sono entrato in camera da letto dove c’era mio figlio Gabriele. Anche lui dormiva e non si era accorto di nulla. Era a pancia in su e anche a lui ho dato un’unica coltellata alla gola».
Nessun aggettivo, nessun rimpianto. Lissi, poi ha inscenato una rapina: ha aperto la cassaforte, un po’ di cassetti, ha rovesciato diverse suppellettili a terra. Quindi è tornato in garage, si è rivestito e ha raggiunto la casa del suo amico Carlo, per vedere la partita dell’Italia insieme a un’altra quindicina di ragazzi. Nel tragitto, 5 minuti in tutto, «in via Mazzini, ho abbassato il finestrino dell’auto, e ho gettato il coltello dal finestrino in un tombino». Una serata allegra, tra scherzi, tifo ed emozioni per i gol di Marchisio e Balotelli. Le uniche, si direbbe, provate da Lissi quella notte.
In fondo l’informatico con lo sguardo da “piacione” era contento: si era sbarazzato del fardello della sua vita familiare di 31 enne senz’anima per andare incontro a nuove avventure. Alle due di notte era di nuovo a casa, pronto per la messinscena del marito sconvolto. Ha chiesto il massimo della pena. L’avrà. Ma meriterebbe di più: ricordare per sempre quando ha alzato la mano assassina sui suoi figli.
2. LA COLLEGA DI CUI SI ERA INVAGHITO: ‘L’HO SEMPRE RESPINTO’
Claudio Del Frate e Giovanna Maria Fagnani per ‘Il Corriere della Sera’
Una corte insistita, fastidiosa. «Ma lo giuro, non è mai accaduto nulla, non gli ho mai dato un filo di speranza». La ragazza del mistero lo ripete più volte agli inquirenti e questi ultimi a loro volta lo scandiscono perché non vi sia margine di dubbio: «Tra Lissi e la sua collega non c’è mai stata alcuna relazione sentimentale». Eppure tocca anche a questa ventiquattrenne la trafila delle domande di carabinieri e magistrati per arrivare a una conclusione: il piano omicida è nato e maturato solo ed esclusivamente nella mente di quel dipendente per tutti irreprensibile.
Barbara, è il nome di fantasia della giovane, da due anni circa lavora alla Wolters Kluwer, l’azienda informatica di Assago (Milano) di cui era dipendente anche Carlo Lissi. La notizia della strage nella villetta di Motta Visconti si diffonde mentre Barbara sta trascorrendo un fine di settimana in montagna con il fidanzato con cui da poco è andata a convivere. La giovane è in Svizzera ma alle 11 di sera di domenica varca il cancello della caserma dei carabinieri di Pavia dove ci sono anche i pm Gustavo Cioppa e Giovanni Benelli.
E lì racconta il tormento di cui era vittima da parte di Lissi, la cui autodifesa comincia a cedere. «Tutto è iniziato con qualche complimento quando ci si incrociava in corridoio o in qualche momento di pausa» è il senso di quanto detto senza tentennamenti dalla ragazza. Una testimonianza che combacia con quanto nel frattempo già emerso nei confronti di Carlo, che in molti descrivono come un «piacione», uno abituato a far galanterie.
«Ma negli ultimi due mesi — prosegue il racconto di Barbara — il suo atteggiamento si era fatto più insistente, più esplicito: si è passati agli inviti a cena, alle dichiarazioni d’amore, ai paroloni: diceva di essere pazzo di me, io rispondevo che non ci pensavo nemmeno a iniziare una storia. Ma lui non si dava pace».
Nonostante tutto Barbara ha sempre interpretato le avances del collega come un semplice «incapricciamento», qualcosa che non sarebbe mai andato oltre i confini del lecito. E a questo proposito vengono sottolineati due dettagli importanti. Nella sua testimonianza la donna riferisce di non aver mai subito molestie di tipo fisico. E che inoltre non aveva mai ritenuto indispensabile parlare con qualcuno di quel collega divenuto improvvisamente così fastidioso, né agli amici né ai superiori in azienda. «Non c’è mai stato nulla che potesse configurare un’ipotesi di stalking» confermano dalla procura di Pavia.
Chi in compenso non faceva mistero di quella passione divenuta irrefrenabile era Carlo Lissi: in ufficio ai colleghi ne avrebbe parlato e nelle stanze della Wolters Kluwer in parecchi si erano resi conto che dove c’era Barbara un attimo dopo compariva Carlo, che lui la attendeva appena possibile e le «stava addosso». Forse gli echi di quella passione erano giunti anche a Cristina Omes, la moglie di Lissi. Un mese fa sulla sua pagina facebook scriveva: «Non trattare mai male una donna, non ferirla. Una donna, quando è ferita, cambia».
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