lutto
Se ne va a 55 anni dopo un incidente stradale uno dei cafeteros più iconici di sempre: tre mondiali giocati, una carriera di 18 anni tra successi, screzi, amicizie chiacchierate e prodezze
Ed era davvero un incanto, quella squadra. I tuffi da clown di René Higuita, le fughe senza vittoria di Tino Asprilla, il passo cadenzato - da aristocratico - dell’iconico Carlos Valderrama, immediatamente riconoscibile per via della folta e riccioluta chioma. Tra di loro, Freddy Rincon. Tre mondiali giocati - Italia 1990 (divenne un idolo in patria per lo storico gol contro la Germania al 90°), Usa 1994 e Francia 1998 - per un totale di 84 presenze e 17 reti con la “Tricolor”.
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A Napoli giocò una sola stagione, campionato 1994-95, chiuso con un 7° posto. Gli stranieri erano Rincon, il francese Alain Boghossian e il brasiliano Andrè Cruz; ma lo zoccolo duro era formato dagli italiani, Cannavaro e Pecchia, Politano e Pari, Bordin e Agostini. Rincon chiuse l’anno con 27 presenze e 7 reti, secondo miglior marcatore della squadra, insieme a Cruz e dopo il “Condor” Agostini. Freddy abitava a via Nevio, al quarto piano di un palazzo dove vivevano anche altri calciatori. Non fu semplice adattarsi ai ritmi italiani, quando arrivava all’allenamento Freddy aveva sempre la palpebra a mezz’asta, zavorrata dalla stanchezza della notte passata chissà dove. In campo però si trasformava, era un trascinatore nato. Che affrontava a muso duro ogni questione. Come quella volta a un’ora della gara di Coppa Uefa contro il Boavista. L’allenatore dell’epoca, Vincenzo Guerini, annunciò la formazione: “In attacco Benny Carbone e Rincon”. Freddy sbuffò platealmente, poi si alzò e disse davanti a tutti: “Non hai ancora capito che in attacco non devo giocare io? Se vogliamo vincere deve giocare il Condor Agostini. E io dietro di lui”. Guerini non la prese bene - “L’allenatore sono io e decido io” - e Rincon, per nulla intimorito, fece un passo verso di lui. La tensione era altissima. Si guardarono storto, ma era arrivata l’ora di scendere in campo e la rabbia di entrambi sbollì.
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A ripensarci oggi, saturi e sazi come siamo di serie televisive che celebrano quelle “Narco-stagioni” colombiane, va detto che a connotare di fascino sinistro i Cafeteros nell’immaginario popolare fu proprio la vicinanza che i suoi interpreti avevano con i narcotrafficanti, da Pablo Escobar in giù. Da René Higuita a Tino Asprilla fino all’iconico Carlos Valderrama, i ragazzi di “Pacho” Maturana attraversarono quel decennio circondati da un’aura speciale. Promise molto, quella Colombia; senza tuttavia mantenere nulla. E legò per sempre la sua fama ad un omicidio. Accadde al Mondiale del 1994, negli Stati Uniti. Nella partita decisiva contro gli americani, Andrès Escobar aveva fatto un autogol che era costato l’eliminazione della Colombia dal torneo e - soprattutto - gli era costato la vita. I narcotrafficanti, da Bogotà a Calì, avevano perso milioni di dollari per colpa di quell’uscita di scena imprevista. Un mese dopo Escobar venne assassinato all’uscita di un ristorante di Las Palmas, alle porte di Medellin: a sparargli un commando di fuoco, composto da tre sicari.
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