In un articolo apparso sul Wall street Journal il 4 luglio scorso, l’economista australiano Ross McLeod torna sulla questione dell’uscita dall’euro dei Paesi euro deboli e tenta di spiegare perché essa non sarebbe necessariamente un inferno.
Il presupposto del ragionamento, che farà felice in Italia economisti alla Borghi o Bagnai, è che le pericolose spinte inflattive determinate dall’abbandono della moneta unica europea potrebbero essere neutralizzate da un valore di scambio fisso imposto alla nuova moneta, lasciando solo dopo che sia il mercato a trovare il giusto prezzo di equilibrio. Da un punto di vista logico l’ipotesi non è contestabile ma non affronta i probabili effetti delle fluttuazioni della nuova valuta sul mercato monetario. Non affronta neanche le possibili ripercussioni sul sistema economico del Paese e sulla bilancia dei pagamenti. Mancano in sostanza le descrizioni dei possibili scenari che si presenterebbero in caso di nuovo conio. Si limita invece a dare sostanza tecnica al passaggio dalla vecchia alla nuova valuta.
Se così fosse, ovvero se tutta la transizione fosse ridotta ad un mero calcolo del giusto valore di riacquisto dell’euro, non ci sarebbe nessun ostacolo a che tutti i Paesi che lo vogliano fare possano abbandonare l’euro.
Purtroppo però le cose non stanno in questo modo. L’esempio di specie è quello greco.
McLeoud ipotizza un valore di cambio fissato a 360 dracme per euro, grosso modo il livello al quale la Grecia entrò nel sistema europeo. A questo valore cittadini e imprese sarebbero invitati (non obbligati) a cambiare i loro euro con le nuove dracme. Al termine di un periodo transitorio di 36 mesi il governo greco non accetterebbe altro che la nuova dracma per i propri scambi. Di fatto, quello che non è un obbligo (vendere euro in cambio di dracme) lo diventerebbe perché chiunque dovesse avere a che fare con il governo greco (lavoratori salariati, risparmiatori, banche) dopo la transizione perderebbe la possibilità di scelta. Nel frattempo i, pochi, capitali rimasti nelle banche avrebbero preso la via di altri caveau. Già durante la tempesta che ha colpito il paese ellenico nel 2011/2012 si calcolava che siano usciti dal Paese circa 70 miliardi con destinazione Svizzera e Lussemburgo.
Dopo il periodo di transizione il mercato sicuramente si autoregolerebbe verso un valore di equilibrio della nuova valuta, ma in mezzo al guado rimarrebbero i detentori di titoli greci e i risparmi (generalmente già molto ridotti) delle famiglie greche. Vediamo perché.
Il livello al quale la nuova dracma si stabilizzerebbe, rispetto il rapporto 1/360 iniziale, dipenderebbe da più fattori. Il primo è la quantità di nuova valuta circolante. Durante il periodo di transizione questa quantità sarebbe rigidamente regolata (360 volte il quantitativo di euro consegnati) ma dopo questo periodo nulla impedirebbe la nuova immissione di valuta. In caso di incapacità di ripagare il debito, e senza gli aiuti della comunità europea stimati in complessivi 110 miliardi, la tentazione di procedere ad una forte svalutazione sarebbe irresistibile. Il debito pubblico è stimato attualmente nel 170% e le operazioni di buy-back, controbilanciate con pesanti tagli alla spesa pubblica, non hanno intaccato significativamente questo rapporto. Inoltre il debito pubblico greco è ancora largamente detenuto da soggetti non residenti, quindi con effetto sui tassi potenziato. Una svalutazione, o anche l’ipotesi di una svalutazione, farebbe impennare i tassi e quindi le spese per interessi. Gli sforzi imponenti fatti sopportare alla popolazione verrebbero vanificati. Tanto per dare un’idea dei tassi, oggi lo spread fra titoli greci a 10 anni e bund tedeschi viaggia intorno ai 1620 punti base. A quale nuovo più alto tasso il tesoro greco riuscirebbe a finanziarsi? Dovendo in alternativa ristrutturare il debito corrente, di quanto si dovrebbe svalutare la nuova valuta?
Mcleoud non risponde a nessuna di queste domande.
Qualunque numero indicassimo sarebbe approssimato per difetto o per eccesso. In ogni caso anche il solo rischio di una spirale inflattiva sarebbe inevitabile.
Perché infatti gli investitori dovrebbero preferire l’acquisto di titoli in dracme invece dei più sicuri titoli in euro? Solo per finalità speculative, attratti dagli elevati tassi d’interesse. Ma sappiamo che un rischio non controllabile, perché soggetto agli umori e alle urgenze di un governo, esporrebbe l’emittente alla fuga di quegli stessi investitori che prima lo avevano preferito.
Dunque, se la domanda è “è possibile uscire dall’euro” la risposta è positiva, ma non doveva essere McLeoud a dircelo. Se invece la domanda è “uscire dall’euro è un inferno (hellish)” la risposta è no, ma non assomiglia neanche lontanamente a un paradiso.
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