Dove c’è Barilla, c’è una sguattera
Sulle parole di Barilla sui gay è stato detto già tutto, e non è il caso di infierire. La punizione divina arriverà dai mercati, che per una volta faranno un buon lavoro.
C’è però un passaggio del discorso su cui nessuno si è soffermato, e che invece è di una gravità inaudita, specie in questo tempo di pulsioni sessiste feroci che provocano un femminicidio al giorno, impediscono alle forze politiche di promuovere la piena parità dei diritti civili, e relegano il nostro paese nel terzo mondo in termini di gender gap (si veda in proposito l’indice elaborato dal World Economic Forum). È il passaggio che riguarda le donne.
Dice Barilla che: “Laura Boldrini non capisce bene che ruolo svolge la donna nella pubblicità: èmadre, nonna, amante, cura la casa, cura le persone care, oppure fa altri gesti e altre attività che comunque ne nobilitano il ruolo. È una fondamentale persona per la pubblicità, non solo italiana. In tutti i Paesi del mondo la donna è estremamente usata”.
Madre. Nonna. Amante. Domestica. Badante. O, nella declinazione più popolare che le nobili origini hanno impedito a Barilla di proferire, utero, vecchia, puttana, sguattera. In quale altro modo puònobilitarsi una donna? A Barilla non ne viene in mente nessuno. Per fortuna lo spirito scandalistico del conduttore de La Zanzara era un po’ spento ieri, quindi non abbiamo ascoltato risposte imbarazzanti su quanto sia stato inopportuno concedere alle donne il diritto di voto, o la patente, o il passaporto.
Barilla stava parlando di pubblicità, certo. Ed è chiaro che, come noi, è libero di dire quello che gli pare, nell’esercizio sacrosanto della sua libertà di espressione e della sua incapacità di manager. Ma è impossibile ignorare il legame fortissimo e di influenza reciproca tra campagne pubblicitarie e dinamiche sociali. E la sua esternazione è ancora più odiosa perché parte di una critica rivolta a Laura Boldrini, l’unica persona che nel dibattito pubblico italiano si batte perlimitare l’uso del corpo della donna nella pubblicità.
Quello di Boldrini non è moralismo. Come ha scritto Barbara Befani su MicroMega(*), il fatto che il prodotto venga sessualizzato con un corpo significa oggettificare il corpo, non valorizzare le caratteristiche del prodotto. Il femminicidio, come dice la parola stessa, è anzitutto un problema di genere. La donna viene ammazzata in quanto donna: perché l’uomo ha delle aspettative precise sul ruolo della donna che la donna disattende.
L’uomo si sente autorizzato a perpetrare violenza perché pensa che la donna non stia rispettando una serie di doveri che lui si aspetta da lei. L’uomo vede la donna come una erogatrice di servizi e nel momento in cui lei smette di erogare questi servizi scatta la violenza come una forma di punizione.I servizi che la donna deve erogare ce li suggerisce puntualmente la pubblicità di Barilla: riproduzione, sesso, lavori domestici, assistenza personale.
L’uomo si sente autorizzato a perpetrare violenza perché pensa che la donna non stia rispettando una serie di doveri che lui si aspetta da lei. L’uomo vede la donna come una erogatrice di servizi e nel momento in cui lei smette di erogare questi servizi scatta la violenza come una forma di punizione.I servizi che la donna deve erogare ce li suggerisce puntualmente la pubblicità di Barilla: riproduzione, sesso, lavori domestici, assistenza personale.
Maschilismo, sessismo, discriminazioni di genere, femminicidio, sono fatti culturali, che, sempre seguendo Barbara Befani, devono essere attaccati “da tante direzioni, compreso quello dell’oggettificazione dei corpi nelle pubblicità: la nostra formazione ci insegna a vedere le donne come oggetti e gli uomini come persone. Storicamente le donne sono state oggetti con precise funzioni nei confronti degli uomini: cura personale, servizi domestici, servizi sessuali, concepimento e crescita dei figli. Utilizzare corpi femminili in maniera indiscriminata per promuovere qualsiasi tipo di prodotto, dai piani telefonici ai gelati, dalle automobili ai servizi bancari, è chiaramente un sintomo dell’oggettificazione del corpo femminile. Non si può giustificare questa evidente realtà con la scusa della libertà di espressione. La libertà di espressione non è assoluta, è già limitata dalla legge quando arreca danni individuali o collettivi, ad esempio quando incita alla violenza. E riproporre il corpo femminile come generico attrattore di attenzione significa reiterare la concezione di donna come oggetto erogatore di servizi; e quindi giustificare la violenza quando la donna si rifiuta di conformarsi a questo ruolo. E sappiamo che tale violenza in situazioni particolarmente critiche può sfociare nel femminicidio: perché il femminicidio non esiste in un vuoto ma in un contesto in cui la violenza sulle donne assume tante forme diverse, più o meno subdole.”
Se la visione che Barilla ha della donna è così triviale, non è difficile immaginare che cosa pensa dellelesbiche, che si sottraggono a uno dei doveri fondamentali che la natura gli ha attribuito, l’erogazione dei servizi sessuali a beneficio del maschio. E quindi non sono sorprendenti le parole omofobiche del re del rigatone. Un punto, però, è degno di interesse, anche perché è stato finora trascurato da tutti tranne Cristiana Alicata: la salute.
“Il concetto di famiglia sacrale rimane uno dei valori fondamentali dell’azienda. Il concetto di famiglia e il concetto di salute”. Che c’entra la salute? I gay non sono in salute? Le famiglie gay sono malate? E da quale malattia sarebbero affette? La salute è una prerogativa degli eterosessuali? O magari solo degli eterosessuali bianchi?
In attesa di conoscere le risposte, seguiremo il consiglio del signor Barilla e faremo a meno di comprare i suoi prodotti.
Aurelio Mancuso sostiene che la proposta della Boldrini di limitare l’utilizzo del corpo femminile nelle pubblicità equivale ad alimentare moralismo e non è un provvedimento adatto per affrontare il problema del femminicidio. Mancuso confonde il moralismo col limitare l’oggettificazione dei corpi: qui non si tratta di operare una generica censura dell’utilizzo del corpo, bensì di definire vincoli sul tipo di utilizzo che è leggitimo farne nelle pubblicità1. Se devo vendere un costume da bagno è difficile pubblicizzarlo senza visualizzare un qualche tipo di corpo umano, ma se devo pubblicizzare le caratteristiche di un automobile non è necessario piazzare una donna seminuda sopra il cofano. Il fatto che il prodotto venga sessualizzato con un corpo significa oggettificare il corpo, non valorizzare le caratteristiche del prodotto. E di solito sono i corpi femminili, piuttosto che quelli maschili, a fungere da “esca”, da generico attrattore di attenzione verso il prodotto.
Il discorso di Mancuso mi ricorda altri tipi di benaltrismo, come quello sul fatto che i diritti gay non sono una priorità per il paese. Di solito quando i problemi sono difficili e strutturali, multi-causa, e necessitano di una pluralità di interventi come l’omofobia e il maschilismo, si tende molto a sottolineare l’inadeguatezza dei singoli provvedimenti. Ma proprio perché nessun singolo provvedimento può risolvere il problema alla radice, è importante prendere tutti i provvedimenti possibili: solo insieme, solo attaccando il problema da diverse direzioni si può sperare di risolverlo o quanto meno di limitarne i danni.
Il femminicidio, come dice la parola stessa, è innanzitutto un problema di genere. La donna viene ammazzata in quanto donna: perché l’uomo ha delle aspettative precise sul ruolo della donna che la donna disattende. L’uomo si sente autorizzato a perpetrare violenza perché pensa che la donna non stia rispettando una serie di doveri che lui si aspetta da lei. L’uomo vede la donna come una erogatrice di servizi e nel momento in cui la donna smette di erogare questi servizi scatta la violenza come una forma di punizione. L’uomo pensa di essere legittimato nel suo atto da una presunta mancanza della donna, e la donna spesso gli dà ragione. Il fatto che “ad avere torto siano sempre le donne” è un fatto culturale radicato, sistemico, interiorizzato dalle donne stesse. Nelle aree dei paesi in via di sviluppo in cui la violenza sulle donne è endemica la maggior parte delle donne pensa di meritarla, pensa di avere delle colpe precise; pensa che se avesse obbedito al marito o se si fosse comportata meglio l’avrebbe scampata; in altre parole, la colpa della violenza sulle donne ricade immancabilmente sulla donna stessa per ragioni profonde di natura sistemica e culturale.
Il femminicidio è innanzitutto un fatto culturale e va attaccato da tante direzioni, compreso quello dell’oggettificazione dei corpi nelle pubblicità: la nostra formazione ci insegna a vedere le donne come oggetti e gli uomini come persone. Storicamente le donne sono state oggetti con precise funzioni nei confronti degli uomini: cura personale, servizi domestici, servizi sessuali, concepimento e crescita dei figli. Utilizzare corpi femminili in maniera indiscriminata per promuovere qualsiasi tipo di prodotto, dai piani telefonici ai gelati, dalle automobili ai servizi bancari, è chiaramente un sintomo dell’oggettivizzazione del corpo femminile. Non si può giustificare questa evidente realtà con la scusa della libertà di espressione. La libertà di espressione non è assoluta, è già limitata dalla legge quando arreca danni individuali o collettivi, ad esempio quando incita alla violenza. E riproporre il corpo femminile come generico attrattore di attenzione significa reiterare la concezione di donna come oggetto erogatore di servizi; e quindi giustificare la violenza quando la donna si rifiuta di conformarsi a questo ruolo. E sappiamo che tale violenza in situazioni particolarmente critiche può sfociare nel femminicidio: perché il femminicidio non esiste in un vuoto ma in un contesto in cui la violenza sulle donne assume tante forme diverse, più o meno subdole.
Il corpo umano dovrebbe essere utilizzato nelle pubblicità quando si tratta di promuovere prodotti direttamente legati al corpo, e le parti del corpo da mostrare dovrebbero essere quelle direttamente legate al prodotto. Tutto il resto è oggettificazione. Ciò vale in teoria anche per il corpo degli uomini ma nella pratica il corpo degli uomini nelle pubblicità viene già utilizzato in maniera molto più mirata e legata al valore della persona o del prodotto, quindi l’emergenza è un’esclusiva dei corpi femminili.
Barabara Befani
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/05/06/barbara-befani-non-e-moralismo-si-alla-proposta-della-boldrini/
Il discorso di Mancuso mi ricorda altri tipi di benaltrismo, come quello sul fatto che i diritti gay non sono una priorità per il paese. Di solito quando i problemi sono difficili e strutturali, multi-causa, e necessitano di una pluralità di interventi come l’omofobia e il maschilismo, si tende molto a sottolineare l’inadeguatezza dei singoli provvedimenti. Ma proprio perché nessun singolo provvedimento può risolvere il problema alla radice, è importante prendere tutti i provvedimenti possibili: solo insieme, solo attaccando il problema da diverse direzioni si può sperare di risolverlo o quanto meno di limitarne i danni.
Il femminicidio, come dice la parola stessa, è innanzitutto un problema di genere. La donna viene ammazzata in quanto donna: perché l’uomo ha delle aspettative precise sul ruolo della donna che la donna disattende. L’uomo si sente autorizzato a perpetrare violenza perché pensa che la donna non stia rispettando una serie di doveri che lui si aspetta da lei. L’uomo vede la donna come una erogatrice di servizi e nel momento in cui la donna smette di erogare questi servizi scatta la violenza come una forma di punizione. L’uomo pensa di essere legittimato nel suo atto da una presunta mancanza della donna, e la donna spesso gli dà ragione. Il fatto che “ad avere torto siano sempre le donne” è un fatto culturale radicato, sistemico, interiorizzato dalle donne stesse. Nelle aree dei paesi in via di sviluppo in cui la violenza sulle donne è endemica la maggior parte delle donne pensa di meritarla, pensa di avere delle colpe precise; pensa che se avesse obbedito al marito o se si fosse comportata meglio l’avrebbe scampata; in altre parole, la colpa della violenza sulle donne ricade immancabilmente sulla donna stessa per ragioni profonde di natura sistemica e culturale.
Il femminicidio è innanzitutto un fatto culturale e va attaccato da tante direzioni, compreso quello dell’oggettificazione dei corpi nelle pubblicità: la nostra formazione ci insegna a vedere le donne come oggetti e gli uomini come persone. Storicamente le donne sono state oggetti con precise funzioni nei confronti degli uomini: cura personale, servizi domestici, servizi sessuali, concepimento e crescita dei figli. Utilizzare corpi femminili in maniera indiscriminata per promuovere qualsiasi tipo di prodotto, dai piani telefonici ai gelati, dalle automobili ai servizi bancari, è chiaramente un sintomo dell’oggettivizzazione del corpo femminile. Non si può giustificare questa evidente realtà con la scusa della libertà di espressione. La libertà di espressione non è assoluta, è già limitata dalla legge quando arreca danni individuali o collettivi, ad esempio quando incita alla violenza. E riproporre il corpo femminile come generico attrattore di attenzione significa reiterare la concezione di donna come oggetto erogatore di servizi; e quindi giustificare la violenza quando la donna si rifiuta di conformarsi a questo ruolo. E sappiamo che tale violenza in situazioni particolarmente critiche può sfociare nel femminicidio: perché il femminicidio non esiste in un vuoto ma in un contesto in cui la violenza sulle donne assume tante forme diverse, più o meno subdole.
Il corpo umano dovrebbe essere utilizzato nelle pubblicità quando si tratta di promuovere prodotti direttamente legati al corpo, e le parti del corpo da mostrare dovrebbero essere quelle direttamente legate al prodotto. Tutto il resto è oggettificazione. Ciò vale in teoria anche per il corpo degli uomini ma nella pratica il corpo degli uomini nelle pubblicità viene già utilizzato in maniera molto più mirata e legata al valore della persona o del prodotto, quindi l’emergenza è un’esclusiva dei corpi femminili.
Barabara Befani
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/05/06/barbara-befani-non-e-moralismo-si-alla-proposta-della-boldrini/
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