Cosa sono gli àscari (e i giovani turchi)
Secondo il manager di Condé Nast Carlo Verdelli i giornali non spiegano le cose ai lettori
ROMA, 11 SET – L’esponente della segretaria del Pd Davide Zoggia spiega in una nota che l’iniziativa di mettere a punto un documento ad Orvieto con l’obiettivo di pensare al «futuro del paese e del partito» slitterà. E precisa che comunque non voleva essere «un’iniziativa contro qualcuno», ma solo «un contributo». «Con altri dirigenti di partito – racconta Zoggia – abbiamo iniziato a lavorare per promuovere un momento di confronto e riflessione sulla crisi di sistema che caratterizza questa fase politica, un tema cruciale per il futuro del Partito Democratico e dell’Italia». «Vorremmo produrre un’analisi e una conseguente proposta che riguardi una fase storica del Paese e non riduttivamente questo o quel dirigente. Non è una nuova aggregazione interna – avverte – nè un’iniziativa contro qualcuno. Vogliamo offrire il nostro contributo, aperto a tutti, su temi cardine per il nostro Paese». «Riteniamo utile andare oltre gli steccati congressuali e dare una mano ad affrontare un momento difficile. Abbiamo la fortuna di partire dal grande lavoro di costruzione del partito fatto da chi ha guidato e guida il Pd. Si tratta di un lavoro che intendiamo solo in modo collettivo», osserva. «Proprio per questa ragione – conclude anche a nome dei promotori del documento di orvieto – e affinchè il nostro intendimento venga recepito per quello che vuol davvero essere, si è deciso di rinviare l’assemblea di Orvieto del 25 settembre e di convocarla non appena si saranno realizzate le condizioni sopradescritte, raccogliendo nel frattempo altri utili confronti e contributi». (ANSA)
******
Non è vero che la rivalità tra D’Alema e Veltroni tenga in ostaggio il Pd sulla base di capricciose faide, antipatie personali, lotte di potere e cosche interne: lo tiene ostaggio, sì, ma di visioni politiche e letture del mondo radicalmente lontane, e psicologie incompatibili (su cui si sono incistati odii e capricci, certo) che si sono tramandate alle generazioni successive, anche con prese di distanza dai due genitori ma non da un pensiero. Il confronto che sembrava sopito sta riemergendo tra gli eredi, complici le difficoltà in cui sembra dibattersi il PD dopo un anno di rinnovata leadership: e oggi trova una nuova resa dei conti nel documento scritto da un gruppo di quarantenni di scuola dalemiana per convocare un seminario ad Orvieto il prossimo 25 settembre. Vi accennava stamattina Repubblica.
In realtà, sia sulla legge elettorale che sul Nuovo Ulivo e l’alleanza con la sinistra il Pd è spaccato. Si riapre una resa dei conti. Montano dissensi e sospetti che il “parlamentino” democratico – convocato per il 23 settembre, dopo il pressing dei veltroniani – dovrà affrontare. A dare la temperatura del clima nel partito c´è anche un documento di alcuni quarantenni bersaniani – i “giovani turchi” si autodefiniscono – in rotta con il leaderismo. Non si spingono a dire che c’è una classe dirigente del partito da rottamare, ma vogliono archiviare il quindicennio trascorso e i suoi leader. Duro l’affondo contro Veltroni, assimilato a «quei dirigenti che parlano sempre più spesso come divi di Hollywood in tour promozionale, capaci di ripetere soltanto quanto amino l’Italia, le sue bellezze artistiche». Criticano la visione del Pd che stava alla base del discorso del Lingotto, questa «rimozione del passato cullandosi nella retorica di un partito completamente nuovo, figlio di niente e di nessuno, contenitore post-identitario di tutto, supermercato elettorale di un molteplice nulla. Ci si è messi – scrivono – in favore del vento rinunciando alle battaglie difficili… «. I “giovani turchi” – Fassina, Orfini, Zoggia, Gualtieri, Di Traglia, Orlando – hanno organizzato un convegno per il 25.
Il documento, che il Post pubblica integralmente in anteprima, rivela a cominciare dal linguaggio l’atteggiamento tradizionalista e reazionario dei suoi promotori, intenti a demolire l’idea del Partito Democratico così come è stato costruito e condotto dal fronte di Walter Veltroni, accusando quest’ultimo di un’impostazione che sarebbe alla base di tutte le rovine odierne del partito e della situazione politica italiana nel suo complesso (trascurando però il fatto che la gestione del PD sia cambiata ormai da un anno, e sia in mano a una dirigenza di cui molti firmatari fanno essi stessi parte). “Tornare avanti” è lo slogan che i firmatari del testo rivendicano (ne elenca i nomi il Messaggero di oggi: Gualtieri, Fassina, Zoggia, Orfini, Stumpo – tutti nella segreteria attuale – Orlando, Boccia, Esposito, Manciulli), elaborando un’analisi spettacolarmente vetero nella forma e nel contenuto (più che “giovani turchi” – quelli volevano modernizzare – ricordano le guardie della rivoluzione), la cui profondità e solennità si contrappone alla superficialità e leggerezza di cui accusa gli avversari interni. Il testo, per lettori pazienti, è qui(**).
http://www.ilpost.it/2010/09/11/documento-quarantenni-dalemiani-veltroni/La crisi del governo Berlusconi come crisi di sistemaIl 4 agosto 2010, con la spaccatura della maggioranza sulla mozione di sfiducia al sottosegretario Caliendo, non si è aperta una crisi di governo, ma una crisi di sistema. Una crisi che sta alla politica italiana come la crisi economico-finanziaria del 2008 sta all’economia mondiale: un evento che costringe a riconsiderare un’intera visione del mondo. Una vera e propria ideologia che negli ultimi venti anni si è progressivamente condensata in un vasto catechismo di formule precostituite, immutabili e indiscutibili, fino a cristallizzarsi in una nuova forma di saggezza convenzionale.
La coincidenza tra crisi economica internazionale e crisi del sistema politico democratico non è casuale, e non si manifesta solo in Italia, ma in un panorama europeo segnato dal primato dell’economia sulla politica, dall’indebolimento degli strumenti nazionali di governo dell’economia e dallo smarrimento delle classi medie. In Italia tutto questo assume però caratteristiche particolarmente radicali.Aggiornamento: Davide Zoggia, responsabile Enti locali del Pd, allude al fatto che non tutti i nomi indicati dal Messaggero e Repubblica questa mattina siano effettivamente tra i firmatari del documento.
(**)La crisi del governo Berlusconi come crisi di sistema
Il 4 agosto 2010, con la spaccatura della maggioranza sulla mozione di sfiducia al sottosegretario Caliendo, non si è aperta una crisi di governo, ma una crisi di sistema. Una crisi che sta alla politica italiana come la crisi economico-finanziaria del 2008 sta all’economia mondiale: un evento che costringe a riconsiderare un’intera visione del mondo. Una vera e propria ideologia che negli ultimi venti anni si è progressivamente condensata in un vasto catechismo di formule precostituite, immutabili e indiscutibili, fino a cristallizzarsi in una nuova forma di saggezza convenzionale.
La coincidenza tra crisi economica internazionale e crisi del sistema politico democratico non è casuale, e non si manifesta solo in Italia, ma in un panorama europeo segnato dal primato dell’economia sulla politica, dall’indebolimento degli strumenti nazionali di governo dell’economia e dallo smarrimento delle classi medie. In Italia tutto questo assume però caratteristiche particolarmente radicali.
La crisi del governo Berlusconi è un passaggio in cui si mescolano, come in un caleidoscopio, tutti gli elementi che hanno caratterizzato la stentata esistenza dei governi che si sono succeduti negli ultimi sedici anni: l’impatto delle iniziative giudiziarie e delle relative campagne di stampa, le oggettive difficoltà nel gestire una politica economica improntata al rigore di bilancio, le sempre più profonde divisioni interne alle coalizioni di maggioranza. Dalla crisi del primo centrodestra nel 1994 fino alla caduta dell’ultimo esecutivo Prodi nel 2007, nessun governo è uscito indenne da un simile percorso, indipendentemente dall’ampiezza della propria maggioranza parlamentare.
Per sedici anni, a ciascuna di queste crisi è stata data un’identica giustificazione: la congiura ordita da alleati infedeli e burocrati di partito desiderosi di “tornare indietro”, alla Prima Repubblica, al tempo dei governi “fatti e disfatti in Parlamento”. Dunque un identico movente: cancellare i frutti della “rivoluzione maggioritaria”, bipolarismo e governabilità, valori indiscutibili e non negoziabili della Seconda Repubblica. In nome del bipolarismo e della governabilità, non per nulla, per quasi venti anni si sono promossi referendum, leggi elettorali e riforme istituzionali, il cui esito concreto è stato però l’esatto contrario di quanto promesso: trasformismo e ingovernabilità.
A giustificare la costante paralisi dell’azione di governo, le ripetute scissioni e successive moltiplicazioni di partiti, correnti e movimenti, sono state additate negli anni, a destra e a sinistra, lunghe schiere di traditori, in funzione di capri espiatori. Ma simili interpretazioni di comodo non possono reggere oltre le costanti repliche della storia di questi sedici anni, tanto meno possono essere riproposte oggi come nuove, per la quinta, la sesta o la settima volta consecutiva.
Piuttosto, proprio coloro che all’indomani delle ultime elezioni politiche celebrarono il compimento della lunga transizione, con la nascita di un sistema politico “tendenzialmente bipartitico” incentrato su Pd e Pdl, dovrebbero ora riflettere sulle conseguenze da trarre dinanzi all’ennesima crisi di governo. Dovrebbero riflettere, partendo dalle loro stesse previsioni di due anni fa, sulle condizioni ideali in cui si trovava questa volta il governo Berlusconi: una legge elettorale violentemente maggioritaria, con parlamentari di fatto nominati dal leader, che gli aveva regalato una maggioranza schiacciante e priva di ogni autonomia; un presidente del Consiglio al tempo stesso capo e proprietario di un partito quanto altri mai leggero, senza alcuna forma di democrazia interna; un leader carismatico dotato di risorse extrapolitiche, economiche e mediatiche, inimmaginabili per qualunque altro segretario di partito; un parlamento completamente in suo controllo, un’opposizione debole e divisa, una legittimazione senza precedenti.
Se neanche tutto questo è sufficiente, se neanche tutto questo basta ad assicurare la tanto sospirata governabilità, cos’altro si potrà mai escogitare, lungo questa china, dopo avere azzerato l’autonomia del parlamento e colpito le stesse prerogative del Capo dello stato con la finzione dell’elezione diretta del premier (una finzione di cui la crisi attuale mostra ancora una volta tutte le pericolose conseguenze, anzitutto sul piano della divisione dei poteri), dopo avere messo al bando ogni forma di pluralismo dentro i partiti, dopo avere costruito le condizioni di una perfetta dittatura della maggioranza e di un governo sostanzialmente monocratico? Fin dove bisogna arrivare? Quand’è, insomma, che basta?
Noi pensiamo che basti, adesso.
Noi pensiamo che il momento di fermarsi sia esattamente questo.
Non per “tornare indietro”, ma per cambiare strada.http://www.ilpost.it/2010/09/11/tornare-avanti/
Nessun commento:
Posta un commento