martedì 4 dicembre 2012

SPIRITOLOGIA DEI PELLIROSSE


 

I Nativi Americani ‘Pellerossa’ come tutti gli umani viventi del pianeta si sono trovati a confrontarsi col problema della morte, il regno dei defunti ‘aldilà’, e i fenomeni della natura che non avevano spiegazioni logiche o sfuggivano al dominio della conoscenza che noi definiamo ‘paranormale’. Ogni popolo di fronte a cotanto mistero ha reagito secondo un comune denominatore che ha trovato nella strutturazione di un immaginario collettivo che ha il suo centro nel Creatore Onnipotente, o nelle religioni animiste e panteiste, una unificazione totalizzante. In queste brevi note cercherò di districare sinteticamente questo rapporto nelle tribù dei Pellerossa, principalmente Navajo, Apache, Mescalero che erano stanziate nella zona sud orientale degli Stati Uniti d’America, dopo essere calati dal nord ed avere cacciato le popolazioni degli Hopi insediate ivi in precedenza.
Ricordiamo che nell’America del Sud, gli Imperi del Sole con complicate strutture sociali, avevano un rapporto terribile con l’ultraterreno, e barbari culti di sortilegio per rabbonirlo. Al nord del Messico lo sviluppo tribale non fu altrettanto omogeneo e complesso. La parcellizzazione delle tribù organizzate in gruppi non molto numerosi sparsi sulla immensa vastità del territorio (si calcolano 2 milioni di soggetti in tutta l’America del nord nel 1600) consentiva una sconosciuta in altre parti del mondo emancipazione dal bisogno alimentare. Questa conquistata sicurezza sociale si concretizzò in regole di rispettoso comportamento al vasto e ricco patrimonio naturale che lasciava un ‘sacro’ equilibrio ecologico mantenuto fino all’arrivo dell’uomo bianco. Pertanto il rapporto con la natura, immane regalo del Grande Spirito, era sereno se sussisteva, fondamentale, la salute dell’uomo-cacciatore. Ed ecco che scatta, qui, il rapporto con l’ultraterreno. Garante dello stato fisico era lo ‘sciamano’ sacerdote della Grande Medicina, il quale attraverso le visioni entra nel mondo del Grande Spirito; ne diviene emissario in terra attraverso riti e canti magici, e con questi poteri magici ricevuti combatte le malattie, vero terrore del ‘popolo rosso’. Malattie che non venivano a caso ma erano sollecitate dagli ‘stregoni’ (il male che i contrappone al bene) che agivano per conto degli spiriti malvagi dei defunti. Ecco si rileva nella religiosità indiana la distonia tra morte e aldilà. La morte è una condizione terrificante. I morti fanno paura, non si citano mai per nome; se proprio non se ne può fare a meno si dice ‘quello-che-se-ne-è-andato’. I parenti più stretti compongono la salma, la insaccano in una pelle grande con gli effetti personali, compiendo al più presto la sepoltura quasi impazienti di disfarsi del cadavere. Esso è interrato in grotte o anfratti, chiusi poi con rami e pietre, per evitare lo scempio degli avvoltoi e coyote, ma anche per tenerlo bene rinchiuso. Il suo spirito si incarnava nell’anima del gufo, pertanto questo animale era assai temuto. Il suo segnale preannunciava la ‘malattia degli spettri’ che intaccava il sistema nervoso portando ansia, nervosismo, paure inconsce. Per evitarla lo sciamano organizzava nel tepee ‘sacro’ preposto il ‘lavaggio dello spirito’ (una specie di bagno turco ottenuto arroventando col fuoco mucchi di pietre interne al tepee che provocavano copiosa sudorazione a chi restava nel suo interno).
Gli anziani erano considerati depositari della storia e della saggezza del popolo e venivano tenuti in gran conto, soprattutto perché ce n’erano pochi essendo l’età media molto bassa, soprattutto per la mortalità infantile. La morte di un bimbo, o di un neonato, era una sentita come grande sciagura. Gli scarsi e affrettati convenevoli praticati per il decesso di un vecchio, diventavano in questo caso laceranti lamenti di tutto il villaggio. I giovani venivano lasciati liberi di mostrare il loro valore attraverso prove d’iniziazione a volte difficili e dolorose. Presso le tribù pellirosse, le donne godevano di uno stato di pari dignità con la componente maschile della tribù, sebbene non mancasse una netta divisione dei compiti nel lavoro quotidiano. Nei Navajo e nei Sioux la leggenda della Donna Bisonte Bianco mette in luce la sacralità della figura femminile. Presso i Pawnee, agricoltori semistanziali, avevano ereditato il culto della Donna del Mais, divinità ispirata dalle dee madri del Mexico, e in primavera si praticava la cerimonia in onore del pianeta Venere senza giungere però al sacrificio delle giovani vergini.
Altri costumi sono stranamente simili a quelli dell’Asia Centrale, come i pittogrammi colorati sulla sabbia in occasioni dei riti sacri che vengono distrutti (come i ‘mandala’ dei bonzi del Tibet) alla fine della cerimonia per affermare il distacco dalle cose precarie della terra. Lo sciamano è il depositario della Grande Medicina, e funge da comunicatore tra il popolo rosso ed il Grande Spirito della Natura. Le cerimonie religiose avvenivano all’aperto negli spiazzi in terra battuta appositamente riservati al centro dell’accampamento, indicati dal Palo Sacro della Danza del Sole, o sculture in legno a carattere rituale (totem). Le cerimonie servivano a contattare gli spiriti, ai quali si chiedeva aiuto e protezione. Prima di ogni rito, come dopo i funerali, si procedeva al bagno di vapore all’interno del tepee. In questo caso l’espulsione dal corpo del sudore non cacciava la ‘malattia degli spettri’ ma ripuliva il corpo da ogni impurità. Qualche erba masticata o fumata, allucinogeno naturale, agevolava il contatto col Grande Spirito.
 
 Pier Luigi Baglioni
pier luigi baglioni, web writer in genova.
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