lunedì 3 dicembre 2012

[PoesiAzionArte] Pubblico, mass media e poesia {DIBATTITO}


Pubblico, mass media e poesia
di Marina Torossi Tevini
Strano e doloroso il destino della poesia oggi. Dopo essere stata per
millenni la voce principe dell'anima dei popoli ha ceduto il campo a
prodotti dell'industria culturale: cinema, serial televisivi, best
sellers, canzoni d'autore, spesso ben poco originali e di valore.
Nel mio sconsolato zapping serale mi chiedo come possa il pubblico
non essere infastidito da tanta monotonia e ovvietà. Poi mi rassegno
alla conclusione che probabilmente il pubblico dei mass media
preferisce essere riconfermato su assunti che già possiede piuttosto
che costretto a ridiscutere le coordinate della sua mente. Che è
quanto l'opera d'arte fa: ricrea il mondo in modo nuovo, rimette in
questione la realtà, non contesta il singolo particolare ma mette e
si mette completamente in discussione. E' un'operazione che costa a
chi la compie ma anche a chi ne fruisce, perché è costretto a
confrontarsi con le sue (più o meno personali) persuasioni, con gli
schemi entro cui gestisce la sua vita e che gli consentono una certa
stabilità, un certo equilibrio. E allora opta per la serenità, anche
se questa molto spesso significa scarso spessore d'anima. Qualche
volta anche imbecillità allo stato puro.
Dice Giancarlo Pontiggia: "Il mondo contemporaneo è certamente il più
inadatto dei mondi possibili per la poesia, poiché è il mondo della
chiacchiera, del frastuono, dello svilimento incalzante del senso..."
Dopo gli entusiasmi de "La parola innamorata", antologia-manifesto
della fine degli anni settanta, di cui egli, assieme a Enzo Di Mauro
era stato il curatore, Pontiggia aveva ben avvertito le insidie che
si potevano nascondere in un dilettantismo di maniera. E aveva
definite "splendide foglie impazzite" i versi colmi di immagini e di
metafore di alcuni poeti (anche famosi) carenti di un impianto
ideologico (in senso lato) e inclini a un preziosismo eccessivo. Da
cui il suo richiamo alla verità semplice, alla "lenta, misurata,
paziente, geografia dei classici" addirittura al "silenzio". Poesia
non è stordirsi di parole ma sentire nel silenzio, è "una verticale
del silenzio che si impone improvvisamente e diventa parola." Poesia
non è muoversi con patetica tensione nel quadrato di millimetri, ma
attaccare alla grande la realtà, ridescriverla, rideterminarla.
Pontiggia critica giustamente che il pubblico dei poeti sia
costituito solo da poeti, che la poesia sia diventata una disciplina
specialistica, che i simplices non leggano più versi.
Alcuni potranno controbattere che in fondo anche in passato alla
grande letteratura accedevano solo delle minoranze esigue. Questo è
vero, ma solo in parte. Penso al mondo greco e alla partecipazione
degli strati sociali più diversi come pubblico dell'epica, della
lirica, del teatro. E nella società comunale (d'accordo, è un esempio
estremo) i versi della Divina Commedia erano conosciuti presso un
pubblico estremamente vasto. Un pubblico certamente non capace di
comprendere le valenze retoriche, linguistiche e filosofiche
dell'opera, ma che pure, sebbene a un livello estremamente
superficiale, la comprendeva, ne traeva insegnamento, vi si
riconosceva.
Quello che molti poeti scrivono oggi non è fruibile, neppure a
livello superficiale, dal grande pubblico. E' una lettura per
iniziati (e qualche volta neppure per loro). L'operazione di
decostruzione del linguaggio spinta agli estremi da retori abilissimi
ma moralmente e intellettualmente carenti non dà emozione nè
illuminazioni. Esprime solamente il vuoto, il disagio, la mancanza di
una propria personale (arrischiata, rischiosa) visione della vita.
Una visione che sia individuale e universale, che esprima se stessi
rischiando le proprie ossa ma che affermi anche valori in cui gli
altri possano in qualche modo (di striscio, in modo problematico, per
opposizione) riconoscersi. Molti poeti invece continuano imperterriti
i loro giochi alessandrini facendo accoppiare le parole in coiti
mostruosi e immaginifici , non preoccupandosi affatto che il pubblico
non li legga . Del loro vissuto, della loro esperienza umana (come
individui e come parte di una società) non giunge eco nei loro
scritti. Non fanno poesia per un imprescindibile bisogno interiore.
Eppure che senso ha scrivere poesia se non per un "imprescindibile
bisogno interiore"? E non per riempire il proprio otium, non a caccia
di onori (piuttosto ipotetici). Solo perchè a non farlo si
soffrirebbe di più.
Sulla sponda opposta ci sono autori che intendono la poesia come mero
sfogo dei propri umori, della propria sensibilità ferita, del proprio
vissuto. Per lo più privi di uno spessore culturale e di grandi
capacità retoriche ( la poesia è anche artificio!) scrivono versi che
non interessano se non chi li ha prodotti. Na­scono sì dalla vita ma
non è una vita depurata, osservata da lato, decantata, quale quella
che può assurgere a valore universale .
Da punti di vista diversi mi sembra che questi due atteggiamenti: un
intellettualismo esasperato che si diletta di giochi bizantineggianti
e un sentimentalismo privo di abilità tecnico-retoriche e di un
retroterra culturale siano gli atteggiamenti più rovinosi nel
variegato campo della poesia di oggi e abbiano contribuito non poco,
per ragioni diverse, a disamorare e allontanare il pubblico.
Ma il problema è indubbiamente più articolato e complesso. E' cosa
ben nota che negli ultimi decenni i mass media hanno esercitato
sull'uomo comune un influsso via via sempre più potente. L'arte non
può non tenerne conto perché con essi (contro di essi ?) si deve
confrontare. I mass media che offrono prodotti facili, costruiti per
palati grossolani. I mass media che quotidianamente ci abituano alla
volgarità del generico e dell'approssimativo. I mass media che
ammansiscono ragazze sgambettanti, informazioni banali e cultura a
quantità omeopatiche. Sono nemici temibili che non si possono
ignorare, con cui bisogna fare i con­ti.
Credo però che, per la vitalità dell'arte, sia un imperativo
irrinunciabile riconquistare un pubblico più vasto. E per realizzare
questo scopo sarebbe opportuno innanzi tutto ricominciare a dire cose
che anche l'uomo comune sente ma che non ha la capacità di esprimere
e talvolta neppure di focalizzare. Fare insomma quella che Saba
definiva "la poesia onesta".
E poi, visto che i nostri tempi sono, sotto questo profilo, più duri
di quelli in cui Saba è vissuto, lottare, centimetro su centimetro,
con pazienza, mettendo in preventivo anche sconfitte e delusioni,
cercando di riconquistare parte di un pubblico che adesso si
riconosce nelle banalità dei prodotti stereotipati. Lottare per
tentare di ridurre il divario che si è andato negli ultimi decenni
sempre più evidenziando tra pubblico e arte. Lottare anche se
sappiamo bene che i mass media hanno una grandissima forza di
penetrazione e di suggestione. Vivere sulle barricate. Credo sia la
migliore strada che, nella situazione attuale, possiamo percorrere.
Marina Tevini
- Sito personale di Marina Torossi Tevini -
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