“Qualunquismo”: Movimento politico che prese nome dal settimanale L'Uomo Qualunque fondato
a Roma nel 1944 da Guglielmo Giannini. In una più ampia accezione, il
rifiuto di ogni qualificazione politica e di ogni impegno ideologico
Abbiamo tratto la definizione dal “Dizionario Enciclopedico Rizzoli” ed.
1995. Una definizione asettica, ma che ha già in sé stessa una nota di
biasimo con quel “rifiuto di impegno”. Se poi dal dizionario della
lingua italiana passiamo al “politichese”, troveremo sempre il termine
“qualunquista” usato in modo decisamente spregiativo, per affibbiare
all’avversario un’accusa, se non infamante come quella di “fascista”,
comunque pesante e tale da additare al pubblico disprezzo. Il
“qualunquista” è un uomo gretto, un egoista che pensa solo al proprio
tornaconto, alla difesa dei suoi interessi. Ovviamente, con sì limitati
orizzonti, non può essere né progressista né democratico.
Negli ultimi anni, ringraziando il Cielo, il clima politico e culturale è
mutato: se una certa sinistra elitaria e radical chic è tuttora
convinta di essere investita della missione divina di assegnare patenti
di democraticità e progressismo, tuttavia trova sempre meno uditorio. E
chi sulla sponda opposta cerca di imitarla nello stesso malvezzo, non
trova miglior sorte.
Il gran rimescolamento avvenuto nel panorama politico italiano nell’ultimo decennio ha fatto nascere partiti e persone nuovi (sui quali ci asteniamo da ogni giudizio, non
essendo
questo il luogo) e ha fatto cadere tante categorie precostituite, tante
definizioni usurate dalla muffa di una ripetitività acritica, che
serviva solo a soffocare il dibattito vero, costruttivo.
Tuttavia certe definizioni, ormai passate alla Storia, sono rimaste. E ciò è tanto più facile per chi, come il Fronte dell’Uomo Qualunque
e il suo fondatore, Guglielmo Giannini, ebbero vita politica tanto
intensa quanto breve. Sepolti nei ricordi (quanti, soprattutto tra i
giovani, oggi saprebbero dirne qualcosa?), sopravvivono solo come
fantasmi e sinonimi, come vedevamo sopra, di una negatività
indeterminata, ma comunque di una negatività. Non abbiamo la pretesa di
“render giustizia”; ma pensiamo che faccia parte del nostro dovere di
storici rileggere con attenzione, come sempre attenendoci ai fatti, gli
avvenimenti più significativi della Storia. Sarà poi il lettore a
valutare.
Il 27 dicembre 1944 usciva a Roma un nuovo settimanale, intitolato
“L’Uomo Qualunque”. Nell’Italia, ancora in guerra al Nord, la capitale
era già stata liberata dagli Alleati dal 4 giugno e stava faticosamente
riprendendo i suoi ritmi normali.
La ritrovata libertà di stampa, seppur esercitata con le autorizzazioni
dell’amministrazione militare alleata, (che effettuava un controllo di
merito e stabiliva le assegnazioni di carta) aveva consentito la nascita
di numerose nuove pubblicazioni, quotidiane o periodiche, molte delle
quali, sorte sulla scia dell’entusiasmo, non avevano però suscitato
l’interesse del pubblico e avevano avuto vita breve o brevissima.
“L’Uomo Qualunque” non fu tra queste: dopo una prima tiratura di
diecimila copie, le pressanti richieste dei rivenditori obbligarono
l’editore a stamparne subito altre venticinquemila, poi altre
venticinquemila, fino ad arrivare, in tre giorni, alla vendita di ben
ottantamila copie. Un successo che stupì lo stesso fondatore-editore e
direttore del settimanale, Guglielmo Giannini, che nell’articolo di
fondo spiegava:
“Questo giornale non è organo di nessun partito. Le vere forze
politiche italiane non si sono ancora rivelate, come non si sono ancora
rivelate le ben più importanti e decisive forze politiche europee. Non
esistono partiti, ma programmi, sui quali uomini volonterosi operano per
formare dei partiti. Quei programmi sono tutti affascinanti; le idee
dalle quali nascono sono tutte nobili… Libertà, prosperità e giustizia
sono generosamente promesse da tutti e, in teoria, non c’è che
l’imbarazzo della scelta del più virtuoso tra tanti partiti tutti
ugualmente perfetti. In pratica assistiamo all’ignobile spettacolo di un
arrivismo spudorato, al brulicare di una verminaia di ambizioni, a una
rissa feroce per conquistare i posti di comando dai quali poter fare il
proprio comodo e i propri affari”.
“Questa rissa, cui l’Uomo Qualunque non partecipa, si svolge tra uomini
politici professionali, che vivono di politica, che non sanno far altro
che politica, e che, per ragioni di pentola, hanno trasformato la
politica in mestiere… il fascismo, che ci ha oppressi per ventidue anni
era una minoranza. Lo abbiamo combattuto con la resistenza passiva e lo
abbiamo logorato, tanto che è andato in frantumi al primo colpo serio
che gli angloamericani gli hanno vibrato. L’antifascismo e il
fuoruscitismo hanno fatto enormemente meno… antifascisti e fuorusciti
erano e sono costituiti da ‘uomini politici professionali’ avversari e
nemici degli ‘uomini politici professionali’ che costituivano il
fascismo… “
Circa le epurazioni, che facevano parte del programma del governo presieduto da Ivanoe Bonomi e costituito dai sei partiti del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale),
Giannini scriveva: “…
il fascismo ha offeso e ferito tutta la massa degli italiani, non
soltanto gli antifascisti e i fuorusciti. Sono i 45 milioni di esseri
umani che hanno il diritto di fare giustizia, non una parte più o meno
numerosa dei 10.000 politicanti ansiosi di rifarsi delle delusioni
subite e delle occasioni mancate”. E infine chiudeva l’articolo di fondo con una dichiarazione di sfiducia verso tutti i politici:
“… da quasi mezzo secolo si vive nel nostro Paese una vita d’inferno a
causa della gelosia di mestiere tra i politici d professione. Rivolte,
attentati, scioperi, agitazioni, inflazione industriale,caro-vita,
interventismo, crisi del dopoguerra, speculazione sulla crisi, fascismo,
aventinismo, fuoruscitismo, dittatura, guerre per consolidare la
dittatura, catastrofe per liberarcene, sono, per tutti gli italiani,
conseguenze del rabbioso litigio fra i 10.000 pettegoli. Siamo
finalmente rovinati: cos’altro vogliono da noi gli autori di tutti i
nostri mali? Che sopportiamo altri esperimenti, che altri pazzi provino
sulle nostre carni le loro teorie?… Noi non abbiamo bisogno che di
essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei
politici… (ci serve) un buon ragioniere: non occorrono né Bonomi, né
Croce, né Selvaggi, né Nenni, né il pio Togliatti, né l’accorto De
Gasperi… (ci occorre) un buon ragioniere che entri in carica il primo
gennaio e se ne vada al 31 dicembre e che non sia rieleggibile per
nessuna ragione”.
La citazione è stata un po’ lunga, ce ne rendiamo conto, ma era
necessaria perché in questo editoriale era condensata buona parte della
ragione del grande successo della rivista settimanale “L’Uomo
Qualunque”, che nella testata pubblicava quel disegno che sarebbe
divenuto famoso: un ometto schiacciato da un enorme torchio, mosso da
anonime mani e dalle cui tasche schizzavano fuori, nella stretta, le
poche monetine che aveva.
Già il titolo della Rivista era quanto mai azzeccato: L’Uomo Qualunque
era l’uomo della strada, il cittadino qualsiasi che aveva subito una
guerra, non voluta e non sentita, che aveva assistito sconcertato alla
caduta del Regime ad opera degli stessi fascisti (nella seduta del Gran
Consiglio del 25 luglio 1943), al ribaltone di alleanze, per cui i
tedeschi da “camerati” e alleati erano divenuti nemici (e con quale
ferocia). Poi questo cittadino qualsiasi aveva visto il suo Re scappare,
seguito in vergognosa fuga dal Governo; se era sotto le armi, questo
cittadino qualsiasi aveva accolto come una liberazione l’invasione da
parte angloamericana del “sacro suolo della Patria” (basti ricordare il
comportamento di tanti nostri reparti allo sbarco alleato in Sicilia…).
E poi ancora, erano risorti i personaggi rimasti per anni nell’ombra (o,
peggio, rapidamente riciclatisi… ) che si erano autoeletti
rappresentanti della nuova Italia libera. Il CLN, non scordiamocelo, non
aveva alcuna base elettorale. In tutto questo sconvolgimento, avvenuto
nell’arco di pochi mesi, il cittadino qualsiasi, l’uomo della strada,
doveva lottare col quotidiano problema della sopravvivenza, in un Paese
spaccato in due, in cui molte famiglie avevano subito lutti o ignoravano
la sorte di congiunti dispersi, inquadrati in qualche reparto militare
lasciato privo di direttive dopo il tragico 8 settembre del 1943.
Insomma, c’erano tutte le condizioni perché uno scontento
generale superasse ampiamente la soddisfazione per la caduta della
dittatura. Quanto alla guerra, se quella voluta da Mussolini non era mai
stata amata dal popolo, l’ansia di partecipazione alla lotta contro i
tedeschi a fianco degli angloamericani, espressa dal nuovo governo
italiano, si traduceva nel fatto che per l’uomo qualunque la guerra
continuava.
Giannini aveva dato voce, nel modo più diretto possibile, a quel
coacervo di frustrazioni, risentimenti, stanchezza che agitava l’animo
di una popolazione che desiderava solo una ripresa di vita normale. Le
ottantamila copie vendute diventeranno, come vedremo, ben di più con i
numeri successivi, finché addirittura l’Uomo Qualunque diventerà un
partito politico, che per un breve periodo avrebbe dato non poche
preoccupazioni ai partiti “di massa” (segnatamente democristiani e
comunisti). Perché anch’esso fu, come vedremo, un fenomeno “di massa”.
Ma non anticipiamo i tempi; vediamo piuttosto chi era Guglielmo
Giannini.
Nato a Pozzuoli, presso Napoli, il 14 ottobre 1891, da madre inglese e
da padre napoletano, il giornalista Federico Giannini, era stato da
quest’ultimo introdotto alla professione, dopo aver esercitato i
mestieri più svariati, da muratore a commesso. Da subito il giovane si
era rivelato una penna brillante. A soli 19 anni iniziava le sue
collaborazioni a diverse testate (il Giornale del Mattino, il Domani e altre), occupandosi soprattutto di cronaca mondana, con una prosa vivace che gli diede rapidamente popolarità.
Ma Guglielmo Giannini trovò le sue maggiori soddisfazioni nel
campo dello spettacolo; infatti, dopo una lunga parentesi di vita
militare (nove anni, tra guerra di Libia e prima guerra mondiale), si
affermò come commediografo e regista cinematografico. Fu
anche autore (sotto lo pseudonimo di Zorro)
di diverse canzonette di successo. Scrisse una cinquantina di commedie,
“rosa” e soprattutto poliziesche; di quest’ultimo genere teatrale è
considerato il creatore in Italia.
Costituì anche diverse compagnie teatrali, che rappresentavano le sue
stesse commedie e per quest’attività ricevette i contributi del
ministero della Cultura popolare. Questi contributi erano erogati a
moltissime compagnie e furono l’unico argomento su cui si basò un
processo di epurazione intentatogli nel 1945 e finito con un nulla di
fatto. Peraltro Giannini fascista non fu mai; fu piuttosto, come lui
stesso si rimprovererà, un “disimpegnato” che sopportò il fascismo,
dedicando il suo ingegno, come abbiamo visto, allo spettacolo di
intrattenimento, che d’altra parte era l’unico consentito dal regime,
oltre ovviamente a quello apologetico, nel quale il futuro fondatore
dell’Uomo Qualunque non volle mai mischiarsi.
Anche Giannini era un “uomo qualunque” quando il 10 giugno 1940
Mussolini prese la rovinosa decisione di entrare in guerra a fianco
della Germania nazista; ormai troppo avanti negli anni per essere
chiamato alle armi, la guerra lo colpirà in modo terribile, con la morte
del figlio Mario (“una meravigliosa creatura d’amore… che cessò di
vivere all’età di ventuno anni, undici mesi, ventisette giorni, nel
pieno della salute e della bellezza, il 24 aprile 1942. Una versione
ufficiale dice che egli cadde nell’adempimento del proprio dovere verso
la patria, ma in realtà fu assassinato insieme a milioni di altri
innocenti esseri umani da alcuni pazzi criminali che scatenarono la
guerra”).
Questa tragedia condizionerà tutto il resto della vita di
Giannini, le sue scelte e i suoi comportamenti. Come egli stesso ebbe a
scrivere, riferendosi ad alcuni tentativi di aggressione che aveva
subìto da parte di avversari politici, finiti malamente per
quest’ultimi, “doveva esserci qualcosa nella mia espressione che faceva capire che ero così disperato da non aver paura di nulla”.
E l’uomo qualunque Giannini viveva a Roma quando Mussolini venne
licenziato ed arrestato, e quando i tedeschi, dopo l’otto settembre,
occuparono militarmente la capitale. Sentendo nascere confusamente
dentro di sé l’esigenza di “fare qualcosa”, aveva iniziato il giro dei
vari partiti politici che venivano alla luce con la caduta del fascismo.
Aveva corso i suoi non indifferenti rischi, collaborando, ancora sotto
occupazione tedesca, alle pubblicazioni clandestine del Partito
Repubblicano, che era quello a cui si sentiva inizialmente più vicino,
data la sua netta pregiudiziale antimonarchica, che verrà rinforzata
dalla penosa fuga del Re. Ma ancora Giannini non aveva una “sua” linea
politica. Il desiderio era quello di “fare qualcosa”. “sarei entrato,
per servire l’Italia, nel partito comunista, monarchico, repubblicano,
democristiano, demolaburista, azionista, socialista, liberale,
trotzkista, senza nessuna preoccupazione oltre quella di servire… “
E in effetti Giannini iniziò una lunga peregrinazione tra tutti i
partiti politici, conclusa con la massima delusione perché, a suo dire “dovunque
mi sono imbattuto in gente vogliosa solo di essere deputato od altro.
La più untuosa e ipocrita falsa modestia esala da moltissimi di questi
uomini come un cattivo odore personale”.
Insomma, la ritrovata libertà era dai rinati politici colta come occasione non per servire la patria, ma per conquistare posizioni di potere. Al desiderio di “fare qualcosa” si
aggiungeva
un disgusto per l’arrivismo dei nuovi politici, per la facilità di
cambiar bandiera, e per quel clamoroso boomerang che furono, per i nuovi
partiti antifascisti, i “processi di epurazione”.
E qui il lettore ci perdonerà se la nostra narrazione non scorre in modo
lineare; ma la complessità del periodo che stiamo trattando ci impone
qualche deviazione e digressione per chiarire gli argomenti che via via
vengono in luce. Con la liberazione di Roma, i partiti politici riuniti
nel CLN (comitato di liberazione nazionale) richiesero, in ciò
appoggiati dagli Alleati, le dimissioni del governo Badoglio,
considerandone esaurita la funzione, mentre Vittorio Emanuele III si
ritirava dalla scena, con l’espediente della “luogotenenza del Regno”
affidata al figlio Umberto. Il 18 giugno 1944 nasceva il governo
presieduto da Ivanoe Bonomi, con la partecipazione di alcune personalità
che avrebbero poi segnato profondamente la Storia del nostro Paese: De
Gasperi, Saragat, Togliatti, Sforza erano ministri senza portafoglio.
Nel successivo Governo, sempre guidato da Bonomi, di più marcata
impronta politica, troviamo Togliatti alla vicepresidenza, De Gasperi
ministro degli Esteri, Gronchi all’Industria, commercio e lavoro.
Infine, per il periodo che per ora ci interessa, il 21 giugno 1945
diviene presidente del consiglio un esponente di spicco della
resistenza, Ferruccio Parri. De Gasperi e Gronchi mantengono i
rispettivi ministeri, mentre Togliatti diviene ministro della Giustizia.
Con l’incarico di ministro per la Costituente entra al governo un
altro importante personaggio: Pietro Nenni. I sei partiti del CLN
(Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito socialista italiano di
Unità Proletaria, Partito Liberale, Democrazia del Lavoro, Partito
d’Azione), uniti nella comune lotta al fascismo, divisi da profonde
differenze ideologiche, concordavano però sulla necessità di “epurare”
lo Stato dagli elementi maggiormente compromessi col regime fascista.
Parlavamo di “boomerang” perché l’epurazione da subito si palesò come un
processo praticamente impossibile da attuarsi, anche per i differenti
modi di intenderne l’estensione e gli obiettivi. Per le sinistre
“epurare” voleva dire anzitutto abbattere l’alta borghesia capitalista,
apoditticamente indicata come la maggior responsabile del fascismo,
iniziando così una radicale trasformazione in senso classista della
società italiana. Per i liberali e per buona parte della Democrazia
Cristiana il rinnovamento della società passava anche attraverso
l’epurazione, ma senza sconvolgerne quegli equilibri fondamentali
ereditati dal vecchio stato prefascista.
Ma soprattutto “epurare” dopo un ventennio di dittatura, che aveva
coinvolto profondamente tutto il Paese in un’identificazione del partito
fascista con lo Stato, poteva portare all’assurdo risultato che tutti
erano colpevoli e quindi nessuno lo era. Non si può scordare infatti che
il regime fascista ebbe il suo apice di popolarità con la proclamazione
dell’Impero, ma comunque aveva costruito pazientemente il consenso
popolare negli anni, migliorando il tenore di vita generale.
Non solo, aveva anche dotato il Paese di un sistema previdenziale
e assistenziale, dando agli italiani la sensazione (o l’illusione) di
essere una grande popolo, temuto e stimato nel mondo. L’antifascismo
restò sempre un fatto elitario e se questa constatazione può essere
spiacevole, considerando che porta con sé inevitabilmente un’altra
constatazione, ossia che il popolo italiano non pativa più di tanto il
fatto di essere sollevato dal compito di pensare e decidere, è un dato
di fatto che il fascismo fu abbattuto dai fascisti stessi (nella seduta
del 25 luglio 1943 del Gran Consiglio del fascismo) e solo sulla spinta
del disastro bellico in cui l’Italia si era cacciata.
L’epurazione fu così un processo parziale, capriccioso, che colpì
soprattutto quei livelli più bassi della amministrazione pubblica, ossia
quanti, privi di conoscenze e di benemerenze antifasciste di recente
acquisizione, non erano stati in grado di rifarsi alla svelta una
verginità politica. Anche nel campo della “avocazione dei profitti di
regime” i nuovi governanti rimediarono magre figure, sia per l’esiguo
numero di sequestri effettuati (334 su oltre tremila istruttorie
aperte), sia perché i lavori della apposita commissione, presieduta da
Carlo Sforza, conobbero il tipico fenomeno italiano dell’insabbiamento:
in altri termini, nessuno infine voleva approfondire troppo un capitolo
che aveva interessato troppi vecchi fascisti e nuovi antifascisti.
Per questi motivi parlavamo di “boomerang”: perché i partiti del
CLN, oltretutto ancora privi di una legittimazione popolare (il primo
test elettorale si sarebbe avuto solo il 2 giugno del 46, con il
referendum e le elezioni per l’Assemblea Costituente) ottennero,
come
solo risultato dell’epurazione, quello di suscitare scontento e
sfiducia. La “Nazione del Popolo”, organo del CLN toscano, scriveva il
15 gennaio 1945: “… bisogna smetterla di prendersela quasi con
predilezione con i manovali delle ferrovie, con i cantonieri stradali,
con gli impiegatucci del ministero: il numero vastissimo di sospesi dal
lavoro non ci soddisfa, né chiediamo di ampliarlo. Non è il numero delle
vittime che chiediamo, ma la qualità di esse.
Non dateci trecentomila disoccupati in più: dateci tremila punizioni esemplari…”
In questo clima, ci è più facile comprendere i motivi del successo
immediato che la rivista “L’Uomo Qualunque” riscosse. Giannini diceva, e
lo diceva con irruenza, col gusto della provocazione che sempre
caratterizzerà la sua prosa, quello che molti pensavano, ma che nessuno
osava dire. Il fascismo, lo ha condannato la Storia, e l’infausta
alleanza con Hitler mise Mussolini su una strada senza ritorno, in fondo
alla quale non poteva esserci che la distruzione. Ma è anche il caso di
notare che pure gli uomini che risorsero politicamente dopo la caduta
del Duce venivano comunque da un ventennio in cui si erano formate
consuetudini malsane, dalle quali non potevano essi stessi essere del
tutto immuni.
Prima fra esse, era la consuetudine per cui il Potere restava un
fatto di pochi, un’emanazione dall’alto, che il popolo non poteva che
accettare. Questo distacco tra “Paese reale” e politica, che ancor oggi
affligge la nostra Italia, ha radici antiche. Se il fascismo con le
“adunate oceaniche” dava al popolo l’illusione di partecipare alla vita
politica della nazione, non molto diverso era l’atteggiamento dei
politici risorti alla fine della dittatura, che comunque sollecitavano
il popolo a credere, obbedire, combattere e discutere il meno possibile.
Certo, il tutto avveniva all’interno di una nuova dialettica, per cui i
partiti erano tra loro in competizione e il rischio della dittatura era
eliso dalla possibilità di ricambio.
Ma l’atteggiamento di fondo, la mentalità elitaria, la convinzione di
avere una Verità da dispensare, non erano mutati. Giannini cercò anche
di inserirsi nelle redazioni dei nuovi giornali che andavano sorgendo o
risorgendo, ma da tutti fu messo “con maggiore o minor cortesia”
alla porta. Fu il suo amico Renato Angiolillo, proprietario del “Tempo”
di Roma, a spiegargliene il perché e a dargli il consiglio giusto. In
sostanza, nessuno voleva un giornalista che andava manifestando idee
politiche in verità un po’ confuse, di sicuro non nostalgiche del
passato regime, ma di sicuro ferocemente critiche del nuovo clima
politico. L’editore che lo avesse assunto correva il serio rischio di
vedersi sopprimere il giornale dopo poche uscite, di subire conseguenze
giudiziarie o, molto più semplicemente, di vedersi tagliata
l’assegnazione della carta. Non restava a Giannini che una soluzione:
fare un proprio giornale. Meglio ancora, suggerì Angiolillo, sarebbe
stato chiedere l’autorizzazione a pubblicare un giornale tecnico, che
non avrebbe impensierito nessuno: un giornale di cinematografia, o di
teatro, o di narrativa.
L’ufficio angloamericano di controllo sulla stampa era diretto
dal giornalista italiano Ettore Basevi, al quale Giannini,
testardamente, presentò dapprima richiesta di autorizzazione per
pubblicare un settimanale politico dal titolo “L’Uomo della Strada”. E
Basevi gli ripeté il consiglio di Angiolillo: “lei perde il suo tempo,
per un settimanale politico non le daranno mai l’autorizzazione. Chieda
di fare un giornale tecnico, lei è anche uno scrittore di novelle, di
commedie, faccia qualcosa in quel campo”. Giannini si decise; chiese
l’autorizzazione a pubblicare “La novella poliziesca”, un settimanale di
racconti gialli; ma, affezionato comunque alla sua idea di un giornale
politico, chiese in subordine anche l’autorizzazione a pubblicare
“L’uomo Qualunque”, titolo che gli piaceva di più dell’Uomo della
Strada.
E la sorpresa arrivò di lì a un paio di mesi. “La novella poliziesca”
non poteva essere pubblicata perché, come Giannini apprese in seguito,
un’autorizzazione per lo stesso titolo era già stata chiesta da altri;
ma in compenso, probabilmente senza averne granché capito la natura,
veniva autorizzata la pubblicazione del settimanale “L’Uomo Qualunque”. E
si arrivò a 27 dicembre 1944: Guglielmo Giannini, fino a quel momento
apprezzato commediografo e regista, stupiva l’Italia con un nuovo
settimanale che si staccava dal coro di osanna alla risorta libertà e
pubblicava tra l’altro, in prima pagina, la vignetta di un omino che sul
fondo di un muro dove campeggiavano scritte del tipo ”Abbasso
Mussolini”, “Abbasso Hitler”, “Viva Togliatti”, “Viva De Gasperi”,
scriveva “Abbasso Tutti”.
Durante l’occupazione tedesca di Roma, Giannini aveva già
delineato le grandi linee del suo pensiero scrivendo un libro, dal
titolo “La Folla”, un curioso trattato di storia e politica, che si può
trovare tuttora nelle librerie. In questo libro la “Folla” è la
protagonista
vessata
e usata, in millenni di Storia contraddistinti solo dall’uso che i
Capi, i Politici, per soddisfare la loro ambizione di potere, fanno
della Folla, desiderosa solo di vivere tranquillamente, di lavorare, di
godere un poco di benessere, di non essere seccata da nessuno. Il libro è
da Giannini dedicato al figlio Mario, morto in guerra: “una
meravigliosa creatura d’amore… che cessò di vivere all’età di ventuno
anni, undici mesi, ventisette giorni, nel pieno della salute e della
bellezza, il 24 aprile 1942. Una versione ufficiale dice che egli cadde
nell’adempimento del proprio dovere verso la patria, ma in realtà fu
assassinato insieme a milioni di altri innocenti esseri umani da alcuni
pazzi criminali che scatenarono la guerra”. Riportavamo già prima
questa struggente dedica: la perdita del figlio indubbiamente rafforza
quelle convinzioni sostanzialmente anarcoidi e libertarie che covavano
in Giannini. La guerra (“con esclusione di quelle condotte da tribù per necessità di vettovagliamento e di bottino”)
sono tutte definite da Giannini come un “affare dei Capi”, dai quali La
Folla, sia che faccia parte dei vincitori, sia che faccia parte dei
vinti, non ha da trarre nessuno utile; anzi, La Folla sacrifica la vita
per le beghe e le liti tra i Capi.
Giannini demolisce così senza ritegno anche i miti più
inossidabili della Storia patria, comprese le guerre risorgimentali e in
particolare la Grande Guerra. Lo stesso irredentismo è dissacrato: “… la
sconfitta, realtà per i Capi che perdono lo stipendio, è soltanto
un’opinione per la folla. Supponiamo che l’Italia dovesse cedere il
Veneto alla Jugoslavia, e che la Jugoslavia fosse tanto sciocca da
prenderselo. Cosa accadrebbe per la Folla? Niente. L’autore di libri
continuerebbe a vendere i suoi libri nel Veneto, dove i libri jugoslavi
non potrebbero esser venduti, perché nessuno li saprebbe leggere. Chi
commerciava con Treviso, Udine, Padova, continuerebbe a commerciarvi.
Su tutto il territorio ceduto si continuerebbe a fare l’amore,
nascerebbero dei bimbi che imparerebbero a parlare l’italiano con
accento veneto, e andrebbero poi a studiare, nelle scuole italiane,
delle sciocchezze poco diverse da quelle che studierebbero se il
provveditore agli studi dipendesse da Roma anziché da Belgrado…
dall’Italia si continuerebbe ad andare in viaggio di nozze a Venezia,
così come prima della guerra ci si andava dalla Jugoslavia. Gli sposi
comprerebbero ricordi di Venezia con piacere e profitto dei venditori…
Unico vero cambiamento: il prefetto di Venezia sarebbe jugoslavo anziché
napoletano o piemontese. E cosa importa alla Folla che un prefetto si
chiami Milan Nencic anziché Gennaro Coppola o Alberto Rossi? Deve dare
la vita dei suoi figli e la sua per così poco?…”
Il primo numero dell’ Uomo qualunque riscosse il successo che vedevamo. E incassò anche il primo attacco feroce dall’Unità,
con l’immancabile accusa: Giannini è fascista. Ma fu proprio un
comunista, Celeste Negarville, che dopo un’inchiesta ordinata dal
commissario all’epurazione, Grieco, escluse che al commediografo potesse
essere seriamente mossa l’infamante accusa, che avrebbe comportato
l’immediata radiazione dall’albo dei giornalisti, con la conseguente
impossibilità a dirigere un giornale. Inoltre la legge prevedeva anche
la possibilità della soppressione della testata incriminata di
filofascismo. (e ci sia qui consentita una divagazione, non del tutto
inutile, se si vuole capire Giannini e il suo tempo: l’ordine dei
giornalisti fu lo strumento con cui il regime fascista esercitò il
controllo sulla stampa; lo stesso strumento fu disinvoltamente usato in
clima di diffuso antifascismo, sempre esercitare il controllo sulla
stampa… )
La tiratura aumentava e con la fine di febbraio 1945 si arrivò al
traguardo di duecentomila copie. Al boicottaggio di alcune associazioni
di edicolanti, Giannini rispose invitando i lettori ad abbonarsi o a
venire a comprare il giornale in redazione. Polemico con tutti, estroso,
vivace, il commediografo napoletano vedeva la sua popolarità aumentare
di giorno in giorno e non si può (nessuno è perfetto… ) dire che il
successo, così veloce e comunque di dimensioni ben maggiori del
previsto, non gli prendesse un poco la mano. Giannini criticava
comunisti e socialisti perché li accusava di aspirazioni totalitarie,
attaccava i liberali (pur riconoscendo in Benedetto Croce “un maestro”)
perché avevano aderito alle leggi retroattive sui crimini fascisti e
alla politica di epurazione.
Sparava a zero sui democristiani per la loro “acquiescenza” verso
i comunisti, ma non risparmiava critiche neanche ai repubblicani,
ricordando loro il periodo in cui flirtavano con Badoglio. Trasportato
dall’onda del successo di pubblico, Giannini dimostrò anche la sua
ingenuità, dicendo cose che tutti sapevano, ma delle quali era meglio
non parlare. La
Il mercato nero
della carta era
alimentato
da una miriade
di riviste
semisconosciute,
ma “ortodosse” |
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vendita della carta per stampa era contingentata e quindi in molti si chiedevano: dove trova L’Uomo Qualunque tutta la carta necessaria per poter continuare ad aumentare la tiratura? Semplice, scrisse Giannini: “La compriamo al mercato nero”.
E il mercato nero della carta era alimentato da una miriade di riviste
semisconosciute, ma “ortodosse”, dirette da chi aveva i giusti appoggi
politici. Il gioco era semplicissimo: la rivista che stentava a vendere
un migliaio di copie aveva però assegnazioni di carta per venti o
trentamila copie.
Sicché, stampava le sue mille copie per mostrare che esisteva e
giustificare l’assegnazione successiva, e rivendeva a prezzo maggiorato
la carta eccedente. Pubblicare le verità sgradevoli non è mai buona
politica per chi vuole vivere in pace. Ma Giannini non voleva
assolutamente vivere in pace e infatti iniziò una campagna di stampa che
rischiò di segnare la fine prematura dell’ Uomo Qualunque. Il settimanale si schierò con decisione contro l’intervento degli italiani a fianco degli angloamericani: “… gli
angloamericani non sono i nostri alleati, ma i nostri vincitori. Il
soldato italiano, dopo aver combattuto per tre anni e mezzo con onore,
non deve essere umiliato con l’incarico di portare le salmerie delle
armate angloamericane… “
Giannini aveva dato il destro a quanti desideravano mettere il bavaglio all’ Uomo Qualunque.
E i guai infatti arrivarono, non dagli angloamericani, ma dagli
italiani, come del resto aveva previsto lo stampatore – editore Umberto
Guadagno. Il sottosegretario alla stampa, Libonati, ordinò al prefetto
di Roma di sopprimere il settimanale. Libonati apparteneva al partito
liberale ma agiva, come scrisse successivamente Giannini, “in spirituale concordia coi cameragni”.
Sì, non è un errore di stampa, abbiamo scritto proprio “cameragni”: era
uno dei tanti neologismi creati da Giannini, con l’unione delle parole
“camerata” e “compagno”.
Ne coniò tantissimi e molti ebbero successo: così i democratici
cristiani divennero i “demofradici cristiani”. Nenni, conterraneo di
Mussolini fu battezzato “il romagnolo di turno”. I “cameragni” erano
peraltro i seguaci del “comunfascismo” e il loro leader Palmiro
Togliatti, serio, freddo, intellettuale, con atteggiamenti quasi
sacerdotali, era “il pio Togliatti”. I nomignoli, insieme alle famose
“parolacce”, con cui gratificava spesso i suoi avversari, (la più famosa
delle quali fu “panscremenzio”) avevano caratterizzato lo stile unico
dell’ Uomo Qualunque ed erano stati uno degli elementi del suo grande successo.
Ma ora, come dicevamo, erano arrivati i guai seri: il settimanale veniva
soppresso perché ritenuto “insidioso per lo sforzo bellico della
Nazione” e il direttivo dell’associazione della stampa deferiva Giannini
alla commissione per l’epurazione.
Ritornava l’accusa di “fascismo”, in base alla discutibile
equazione per cui Giannini, essendo contrario all’intervento di truppe
italiane a fianco di quelle alleate contro i nazifascisti, era
favorevole a quest’ultimi.
Era il 20 febbraio 1945. La grande avventura dell’ Uomo Qualunque era durata solo tre mesi e sembrava già terminata.
Ma l’aiuto arrivò a Giannini proprio da uno dei suoi più fieri
avversari, da un uomo che non aveva mai nascosto la sua avversione
all’estroso commediografo napoletano: l’avvocato Giovanni Selvaggi,
esponente del partito repubblicano, antifascista da ben prima del 25
luglio 1943, che, nel clima avvelenato di quelle giornate, seppe dare
una rara prova di lealtà e di libertà intellettuale
Un fenomeno politico molto italiano nato nel 1944 nel Sud appena liberato
dagli anglo-americani: un partito anomalo di enorme successo ma di vita breve
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IL SENSO DEL “QUALUNQUISMO”
IN QUELL’ITALIA VUOTA DI FIDUCIA
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Abbiamo lasciato Guglielmo Giannini nei pasticci: deferito alla commissione per l'epurazione, il commediografo non poteva più dirigere un giornale. Il settimanale L'Uomo Qualunque
era soppresso per la violenta campagna di stampa contro l'intervento
italiano a fianco degli ex-nemici angloamericani. Insomma, la grande
avventura del giornale che aveva suscitato scalpore in tutta Italia
sembrava già finita. Fu l'avvocato Giovanni
Selvaggi,
repubblicano, antifascista non solo dopo il 25 luglio, a risolvere la
situazione. Come Giannini stesso ci racconta nelle memorie che pubblicò,
pochi mesi prima di morire, sul settimanale "Oggi", quando si recò
nello studio di Selvaggi questi gli chiese di portargli in lettura tutti
i numeri dell'Uomo Qualunque. Se non avesse trovato nulla che
giustificava il provvedimento di soppressione, avrebbe preparato il
ricorso al Consiglio di Stato.
Contrariamente, lo avrebbe indirizzato ad altri colleghi avvocati.
Selvaggi infine decise di assumere la difesa di Giannini e presentò il
ricorso. Nel frattempo la soppressione del settimanale aveva suscitato
ampie critiche non solo da parte del pubblico, ma anche da molti
giornalisti e politici che, pur avversari di Giannini, ne avevano preso
le difese. Infatti la soppressione dell’ Uomo Qualunque, che non
poteva certo essere accusato di propaganda nostalgica, non si
giustificava, nel rinnovato clima di libertà di stampa, se non per un
motivo: Giannini, nel suo abituale stile, irruente e volutamente
irrispettoso di tutti e di tutto, aveva detto a voce alta un’altra delle
verità che si potevano, al più, sussurrare, ossia che l’intervento
militare italiano a fianco degli Alleati era tutt’altro che popolare. E
questa era stata la buona occasione per far pagare il conto all’uomo che
era la “stecca” nel coro di osanna, che si definiva “antiantifascista”,
che soprattutto dava voce ad un serpeggiante sentimento popolare di
insofferenza al “regime del CLN”.
Giovanni Selvaggi era una voce autorevole e un ottimo avvocato:
il Consiglio di Stato accolse il suo ricorso, ordinando la sospensione
del provvedimento prefettizio. La commissione di epurazione
giornalistica si tolse l’ultima “soddisfazione”, sospendendo per un mese
Giannini dall’Albo. Il mese peraltro era già trascorso nelle more del
ricorso al Consiglio di Stato e così Giannini poteva a pieno titolo
riprendere la direzione dell’Uomo Qualunque. Non lo fece, come
spiegò lui stesso polemicamente, perché non voleva fare il direttore
“col permesso della commissione di epurazione”. Il settimanale riprese
le pubblicazioni sotto la direzione (ovviamente alquanto formale) del
fedele amico Giuseppe Russo, il vignettista che si firmava con lo
pseudonimo di Girus, mentre Giannini si qualificava nella testata come “fondatore”.
La soppressione della testata, il vespaio di polemiche, la vittoria al
Consiglio di Stato, patrocinata da una delle voci più illustri
dell’antifascismo, tutto contribuì, se ancora ve n’era il bisogno, a far
salire alle stelle la popolarità di Guglielmo Giannini.
Il 25 aprile 1945 il settimanale riprese così regolarmente le sue
pubblicazioni, arrivando in poco più di un mese a stabilizzarsi sulla
tiratura, eccezionale per l’epoca, di 780.000 copie. Giannini ormai era
un fenomeno nazionale riconosciuto e sulla sua redazione non solo
piovevano le lettere di consenso dei moltissimi che si riconoscevano
“uomini qualunque”, ma incominciarono anche a piovere i finanziamenti di
quanti vedevano nel commediografo napoletano l’unica genuina voce di
dissenso, e di possibile “diga”, alla politica del CLN.
Dobbiamo infatti soffermarci un attimo a considerare il momento storico
assolutamente particolare che stava vivendo l’Italia. La fine delle
ostilità, col crollo della Germania e la resa delle residue forze
fasciste della Repubblica sociale Italiana aveva evidenziato come la
spaccatura tra le due Italie fosse profonda. Nel Sud, liberato già dal
giugno del 44 dalle truppe alleate, la vita aveva ripreso in modo quasi
regolare e l’attività partigiana era stata pressoché inesistente, mentre
al Nord l’attività delle bande della Resistenza, seppur inconsistente
dal punto di vista militare, era stata intensa e si era caricata di una
valenza politica rivoluzionaria, dalla quale non andavano del tutto
esenti nemmeno le componenti democristiane della resistenza.
E ciò era tanto più vero considerando che il maggior apporto alla
Resistenza, indipendentemente da ogni giudizio politico e sulle reali
finalità perseguite, era stato dato dalle formazioni comuniste, che
avevano avuto più caduti di tutte le altre e che più delle altre non si
battevano unicamente per liberare l’Italia dai nazifascisti, ma anche
per un esplicito progetto di rifondazione dello Stato.
Fu Pietro Nenni a coniare la famosa frase “vento del Nord”, che stava a
significare quel vento di rinnovamento rivoluzionario che avrebbe
cambiato l’Italia, considerata ancora legata, dopo la caduta del
fascismo, ai vecchi schemi dello stato liberale, con quanto esso
comportava soprattutto in termini di rapporti sociali ed economici.
Lo stesso Don Luigi Sturzo, non certo sospettabile di filo–marxismo,
preconizzava (in termini, in verità, un po’ confusi) che la “classe
operaia sarebbe stata la classe guida del rinnovamento, così come la
borghesia era stata l’artefice del rinnovamento della
rivoluzione
francese”. Ma al “vento del Nord” si contrapponeva ora, con il Paese di
nuovo unificato, il “vento del Sud”, quello della ripresa lenta e
graduale, del ritorno alla normalità senza atti rivoluzionari. Infine
non si dimentichi che l’Italia era comunque un Paese occupato, sotto
tutela del Governo Militare Alleato, e che faceva parte della zona di
influenza occidentale, salvo le contese, tutt’altro che risolte, sui
territori di confine con la Jugoslavia, ossia con l’area di influenza
sovietica.
La divisione profonda del mondo, che già si era ben definita nell’ultimo
anno di guerra, tra area sovietica ed area occidentale a guida
americana, si rifletteva ora nel nostro Paese, sia per le diverse
componenti del CLN, sia per la particolare posizione geografica
dell’Italia.
Il 21 giugno 1945 Ferruccio Parri assumeva la guida di un governo
allargato a tutti i partiti del CLN (Democrazia Cristiana, Partito
Comunista, Partito socialista italiano di Unità Proletaria, Partito
Liberale, Democrazia del Lavoro, Partito d’Azione) e da subito la vita
di questo ministero fu travagliata.
Non a caso il governo Parri durò solo sei mesi: composto da
partiti tra di loro profondamente diversi, ora che era cessata
l’emergenza bellica contro il comune nemico nazifascista, espresse una
politica oscillante tra i toni rivoluzionari tonitruanti (molto più
degli azionisti e dei socialisti; i comunisti erano guidati da un uomo,
Togliatti, astuto e prudente), quelli moderati dei liberali e quelli
difficilmente comprensibili dei democristiani, il cui leader, De
Gasperi, appoggiava (a parole) il progetto dei consigli di gestione
delle fabbriche, di ispirazione sovietica, ma nel contempo non
nascondeva il suo anticomunismo e il suo riferimento ideale alla
dottrina sociale della Chiesa.
La politica epurativa nell’Italia unificata non fu diversa da quella già
iniziata l’anno precedente dai governi del Sud. Caddero poche teste e
le meno importanti, si salvarono e spesso si riciclarono brillantemente
gli opportunisti e i voltagabbana. In più, ad aggravare la situazione di
smarrimento, aveva concorso l’attività dei vari “tribunali popolari”,
ai quali gli Alleati, abbastanza cinicamente, avevano lasciato libertà
di manovra per qualche settimana successiva alla Liberazione,
sufficienti per celebrare processi senza reali garanzie di difesa,
seguiti da frettolose fucilazioni, il cui preciso numero non fu mai
determinato, ma fu comunque nell’ordine delle diverse migliaia. Infine,
strascico inevitabile di ogni dopoguerra, una delinquenza comune
scatenata era difficilmente contrastata da forze di polizia anch’esse
ovviamente colpite dal disastro bellico, disorganizzate, senza mezzi e
con scarsità di uomini.
Insomma, l’Italia liberata e riunificata era tutt’altro che
un’Italia pacificata e indubbiamente l’uomo della strada, che doveva
lottare con concreti problemi quotidiani di sopravvivenza, di
coabitazioni forzate per il gran numero di case distrutte dai
bombardamenti, di disoccupazione, si sentiva lontano mille miglia da una
risorta classe politica che appariva più impegnata a discutere dei
massimi sistemi che a provvedere ai concreti bisogni popolari.
A sua volta la grande borghesia industriale, che pur aveva saputo
fiutare in anticipo il cambio del vento (significativo, ad esempio, fu
l’apporto dato alla Resistenza dal dominus della Fiat, Valletta),
si sentiva minacciata dai grandi progetti di rivolgimenti sociali che i
partiti di sinistra progettavano, preconizzavano o minacciavano.
Esisteva anche, ma non aveva obiettivamente un vero peso, né
rappresentava una reale minaccia di restaurazione, il gruppo dei
fascisti “irriducibili”, (Quelli rappresentati dai vari Pisanò, Leccisi,
Almirante), impossibilitati ad avere una pubblica espressione politica,
ma esacerbati da una sconfitta le cui ferite erano ancora aperte e
sanguinanti.
Potremmo insomma dire, senza tema di esagerazioni, che era l’Italia
degli scontenti. Gli operai del Nord, protagonisti dei primi, veri
scioperi politici ancora sotto occupazione tedesca, vedevano la promessa
rivoluzionaria “ammortizzata” nella collaborazione con democristiani e
liberali da parte di quegli stessi che si proponevano come leader
rivoluzionari.
La piccola borghesia e quella parte di classe operaia che non si
riconosceva nel marxismo non comprendeva la collaborazione democristiana
coi marxisti. La parte più elitaria del Paese, intellettuali, borghesia
industriale, classi più agiate, tendenzialmente
portata
verso il risorto partito liberale, non comprendeva la partecipazione di
questo partito a quell’esarchia del CLN che sempre più appariva come un
magma, aggravato dalla mancanza di una reale rappresentatività,
derivante dal fatto che non si erano ancora tenute libere elezioni.
Abbiamo voluto soffermarci su questo quadro dell’Italia dell’immediato
dopoguerra perché più facilmente comprenderemo come il grido di “abbasso
tutti”, lanciato l’anno precedente da Guglielmo Giannini, avesse
trovato un ancor più ampio uditorio nel Paese riunificato. Inizialmente
dalle colonne dell’Uomo Qualunque Giannini aveva salutato la
nascita dei “nuovi politici” del Nord, diversi dai profittatori e dagli
“u.p.p.” (uomini politici professionali) del Sud. Vedeva in essi la
nuova guida del Paese:
“ …professionisti, i mestatori, gli speculatori del politicantismo
erano tutti a Roma…in Alta Italia erano rimasti quelli che volevano far
seriamente le cose; ed ecco perché mentre a Roma la politica si è
impantanata nella farsa, nel Nord ha avuto bagliori di tragedia. Tre
giorni di vera epurazione nell’Italia settentrionale hanno spazzato via
più fascismo di quanto, in tanto tempo e con tanta fatica e spesa, non
ne ha disturbato il complicatissimo organismo sedente a Roma…”
Ma la fiducia entusiastica negli uomini del Nord fu di breve durata.
Così come dopo la liberazione di Roma Giannini aveva fatto il giro di
tutti i partiti politici, ricavandone solo delusioni, ora dopo la
liberazione nazionale sterzava bruscamente dalle sue iniziali lodi e
tornava agli abituali toni sarcastici:
“Dopo l’entusiasmo della Liberazione subito la miseria morale dei
soliti ometti in cerca di stipendio ci ha violentemente richiamati alla
realtà… un gruppo di energumeni ha cominciato a strillare le solite
cretinissime formule, a minacciare i soliti finimondi, rivendicando la
rappresentanza esclusiva del solito popolo e delle solite masse, se non
addirittura di tutta l’Alta Italia; e pretendendo di parlare a nome di
milioni di innocenti che non hanno invece aperto bocca… sul disordinato
corale, quattro sole parole si sono udite distintamente: ORA TOCCA A
NOI. E questo, con buona pace di Nenni che lo chiama vento (del Nord,
N.d.R.), di Pacciardi che lo chiama sospiro, è il rutto del Nord”.
Pur nel suo confusionismo, Giannini non rinunciava però a cercare un
riferimento politico e il più naturale gli sembrava il Partito Liberale.
Le sue posizioni erano in fondo, in parte, di liberalismo puro e
assoluto, immaginando uno Stato che non fosse altro che quel “governo
del buon ragioniere” invocato dai primi numeri dell’Uomo Qualunque. Intanto
dalle colonne del settimanale sferzava anche la borghesia, capace di
aver creato l’industria e quindi il lavoro in Italia, invitandola a
riprendere il suo ruolo, senza pavide attese per capire che vento
tirasse.
Un incontro con Benedetto Croce, che considerava “maestro”, lo
deluse però profondamente, per le posizioni elitarie espresse dal
filosofo, mentre lui, Giannini, si sentiva ormai portavoce di una grande
massa di individui, appunto di tutti gli uomini “qualunque” che non
fanno politica, che vogliono vivere in pace e lavorare in pace.
Maturavano le condizioni per compiere il passo che avrebbe portato in
poco tempo agli Altari e poi nella polvere l’Uomo Qualunque,
ossia la trasformazione di quello che ormai era un movimento di opinione
espresso dal settimanale, e successivamente anche dal quotidiano Il Buonsenso, in partito politico.
Sollecitazioni in tal senso erano pervenute a Giannini dai suoi lettori e
dai suoi molti ammiratori, anche se già la creazione di un Partito,
era, a ben guardare, una contraddizione in termini, perché Giannini
aveva riscosso tanto successo proprio criticando tutti i partiti e la
stessa “politica dei partiti”, invocando lo “stato ragioniere”,
rifiutando quello “Stato etico” che, in base alle ideologie, espresse
dai partiti, pretende di creare una morale e una direttiva di vita per i
cittadini. Lo stesso commediografo era perplesso, perché conscio che il
suo mestiere era quello di scrittore e di commediografo, non certo di
leader politico. Ma i suoi inviti a Vittorio Emanuele Orlando, poi a
Bonomi e successivamente a Nitti, affinché si mettessero alla guida del
nuovo Partito, caddero nel vuoto. E così l’8 agosto 1945, con un
articolo dal pomposo titolo “grido di dolore”, Giannini annunciò la
fondazione del nuovo partito politico:
“Cari amici, credo sia giunto il momento di dare una struttura non più solamente giornalistica alla CORRENTE DELL’UOMO QUALUNQUE, che il nostro giornale non ha
creata,
ma innegabilmente ha rivelata. Per la pace della mia coscienza, debbo
ripetere quanto ho scritto più volte: né io, né nessuno dei redattori e
collaboratori che mi onorano desideriamo diventare ministri,
sottosegretari, deputati, sindaci, consiglieri comunali e altro del
genere… il “grido di dolore” che da ogni parte d’Italia si leva verso
l’Uomo Qualunque non può più essere inascoltato… bisogna fare qualcosa, e
dunque facciamola”.
“… Abbiamo già un punto sul quale siamo tutti d’accordo ed è questo:
VOGLIAMO VIVERE IN PACE E LIBERAMENTE, NELLA MAGGIORE E MIGLIORE
PROSPERITÀ, AMMINISTRATI DA UN GOVERNO CHE CI DIA I PUBBLICI SERVIZI
NECESSARI, CI FACCIA RITROVARE LA VOGLIA DI LAVORARE GARANTENDOCI LA
SICUREZZA DELLA VITA E DEI BENI, E NON CI ROMPA I CORBELLI OBBLIGANDOCI A
PENSARE SECONDO QUESTA O QUELLA DOTTRINA POLITICA…”
Il “programma” del nuovo partito era abbastanza vago, ma la sua forza iniziale stava proprio in questo: l’Uomo Qualunque
si presentava di fatto come un contenitore dove poteva stare di tutto,
dove potevano trovare spazio persone con le idee più diverse, accomunate
però da quell’innegabile disagio che percorreva la vita nazionale.
Parliamo di forza “iniziale” perché, come vedremo, questa sarà anche la debolezza intrinseca del partito, che prenderà il nome di Fronte dell’Uomo Qualunque e che sarà una vera meteora nel panorama politico italiano.
Una delle principali, e fondate, critiche che l’Uomo Qualunque
rivolgeva ai partiti del CLN era la loro mancanza di rappresentatività;
proprio a sottolineare invece il carattere ultra democratico del Fronte,
Giannini invitò i suoi lettori e ammiratori a costituire spontaneamente
ovunque i “nuclei”, ossia la struttura di base. Bastavano da cinque a
cinquanta persone per costituire un “nucleo” del Fronte dell’Uomo Qualunque:
a una settimana dalla pubblicazione del “grido di dolore” le strutture
di base, che eleggevano al loro interno i capi, erano già oltre duemila,
sparse per tutta Italia. Il successo del nuovo partito era, come quello
del settimanale, travolgente.
Ma un partito deve avere di norma una linea politica e l’estrema
vaghezza del messaggio qualunquista fece sì che da subito i vari nuclei
sparsi per il Paese esprimessero le posizioni più diverse, ma che tutte
comunque potevano trovare un appiglio con quel messaggio di Giannini,
che si poteva definire un mix di liberalismo, antifascismo,
anticomunismo, antinazionalismo, anarchismo, e altro ancora, il tutto
unito dalla comune protesta contro le condizioni generali del Paese e
contro la nuova classe politica al potere.
Da quanto finora abbiamo visto, appare chiaro che Guglielmo
Giannini era soprattutto un passionale che aveva saputo, con l’istinto
dell’uomo di teatro, capire e interpretare sentimenti diffusi. Del resto
lo stesso Giannini non aveva alcun timore nell’esprimere con la stessa
veemenza concetti opposti. Il suo odio per la guerra faceva a pugni con
la sua iniziale ammirazione per gli “uomini del Nord”, che la guerra
partigiana l’avevano fatta. Il suo irridere al concetto di patria e di
nazione cozzava contro le sue frequenti richieste di ridare dignità alla
“grande, comune Madre, la nostra Italia”. E potremmo trovare
molte altre contraddizioni, forse più apparenti che sostanziali, perché
un messaggio di fondo il qualunquismo comunque l’aveva; ed era il
reclamare il diritto del cittadino a vivere in pace la sua realtà
quotidiana.
Detto così, il messaggio sembra banale; non lo era, se consideriamo che
il Paese usciva disastrato dal ventennio di totalitarismo e paventava di
entrare in altre forme di totalitarismo. Una sciagurata e lunga
esperienza di Stato-Partito, il fascismo, che entrava in tutti gli
aspetti della vita economica, sociale, lavorativa, e anche privata,
pretendendo di forgiare uomini e coscienze, non poteva che generare
crisi di rigetto verso quanti altri, uomini o partiti, si ponessero a
loro volta come portatori della Verità. Ed era facile affermare, con un
battuta che era tale fino a un certo punto, che l’italiano, già oppresso
da un partito (quello fascista), non voleva ora essere oppresso da sei
partiti (quelli del CLN).
Ma torniamo alla nascita dei “nuclei”, che, come dicevamo,
avvenne su base spontanea e con elezioni interne dei dirigenti. Si ebbe
così un po’ di tutto, da nuclei rappresentati da monarchici, ad altri
costituiti perlopiù da liberali, alle prime infiltrazioni dei
neofascisti (privi ancora di un loro partito). Addirittura a Caserta un
nucleo del Fronte dell’Uomo Qualunque elesse a suo dirigente un locale esponente comunista.
Giannini si rese conto che la “rapida, entusiastica autorganizzazione dell’Uomo Qualunque” era anche il suo punto debole e ben presto il “partito dei senza partito” si
sarebbe
dato le strutture classiche di un partito politico, con tessere,
distintivi, organi gerarchici e consiglio di disciplina. In un primo “bilancio dell’Uomo Qualunque”,
pubblicato sul settimanale il 19 settembre 1945, Giannini ribadiva il
grandissimo successo conseguito dal nuovo partito e anzitutto replicava
all’inevitabile accusa di fascismo, col suo abituale stile irruente:
“Noi non siamo fascisti, e lo dimostriamo – parlando chiaro come il
fascismo non ha mai fatto – votando, come il fascismo non ha mai
permesso – costituendo la nostra organizzazione DAL BASSO – come il
fascismo non ha mai voluto e potuto fare! L’ultimo dei capi nucleo
dell’U.Q. ha più autorità di Togliatti, di Nenni, di Carandini, di
Cianca, di De Gasperi, di Ruini, CHE NESSUNO HA MAI ELETTI E NOMINATI e
che non rappresentano che sé stessi. Il solo fascismo agente ed
esistente in Italia è il loro…”
“Dunque, non spaventarsi dell’accusa di fascismo che oggi, come
giustamente dice il ministro inglese Bevin, si muove contro chi non fa
comodo; e a chi ci dà del fascista, dare del cornuto e del pederasta in
legittima ritorsione d’ingiuria. E, potendolo fare senza inguaiarsi,
rompergli la faccia di ebete e di figlio di puttana…”
Quanto alla linea politica, Giannini ribadiva le sue simpatie per il liberalismo: “Noi
abbiamo il più bello, il più nobile, il più ricco, il più collaudato
programma politico: quello del LIBERALISMO, sfrondato delle sciocchezze
dei nuovi e vecchi fregnoni del sedicente Partito Liberale Italiano, e,
principalmente, ripulito di quella criminosa e infruttifera cretinaggine
che è l’anticlericalismo di maniera, il laicismo parolaio e
inconcludente”.
A Roma, dal 16 al 19 febbraio 1946, si svolse il primo congresso
Nazionale del Fronte dell’Uomo Qualunque. Pur in una certa confusione,
favorita da quello spontaneismo che aveva caratterizzato la nascita
stessa del Partito, Giannini poté tracciare un bilancio ampiamente
positivo sia dal punto di vista politico , sia dal punto di vista
organizzativo. La sua azione politica, in poco più di un anno, aveva
ridimensionato il potere del CLN, aveva, seppur in parte, contribuito
alla caduta di Parri, messo alla berlina le intime contraddizioni dei
democristiani e dei liberali.
Col Fronte avevano stretto patti di alleanza anche altri gruppi
(il Partito Laburista, i gruppi monarchici del generale Bencivenga,
persino l’Alleanza Democratica del socialista, ed esule antifascista,
Antonio Labriola). L’Uomo Qualunque era il settimanale più diffuso d’Italia e dal 30 dicembre 1945 era affiancato anche dal quotidiano Il Buonsenso, nonché da una trentina di fogli locali. In concorrenza con la Democrazia Cristiana, Giannini ribadiva che “crediamo
in un’etica e abbiamo una morale: l’etica, la morale cristiana, che
vogliamo accettare e accettiamo dalla Chiesa Cattolica, maestra davanti
alla quale vogliamo chinare e chiniamo umilmente il capo”.
Il motivo religioso si inseriva poi in un contesto europeista, di “abbraccio generale dei popoli europei”,
auspicando la nascita degli “Stati Uniti d’Europa”, col ripudio del
militarismo e dei nazionalismi, che avevano portato alle catastrofi di
due guerre. Veniva ribadita la linea liberale, secondo la quale l’unica
concessione da fare allo Stato era la gestione delle ferrovie, mentre
per il resto l’iniziativa privata doveva essere libera da ogni vincolo.
Si avvicinava la data del 2 giugno 1946, quando gli italiani sarebbero
stati chiamati alle urne, per la prima volta con suffragio realmente
universale, per scegliere tra monarchia e repubblica e per eleggere i
deputati dell’Assemblea Costituente, che avrebbe dovuto elaborare il
progetto della nuova Costituzione. Il 10 dicembre del 1945 Alcide De
Gasperi aveva costituito il primo governo a guida democristiana, ancora
sostenuto dai sei partiti del CLN.
La campagna elettorale fu lunga e drammatica, punteggiata da
molti disordini di piazza e violenze fomentate dai comunisti che
mostravano il loro doppio volto, di partito di governo e di
organizzazione rivoluzionaria, che non aveva ancora smobilitato
l’apparato paramilitare della guerra partigiana. Da parte sua la
Democrazia Cristiana incentrò la sua
campagna
elettorale in buona parte sull’anticomunismo, come risposta ai timori
suscitati non solo dai tumulti di piazza, ma anche da quanto andava
accadendo nell’Europa Orientale, dove nei Paesi occupati dalle truppe
sovietiche si instauravano via via le “democrazie popolari”, eufemismo
che stava ad indicare i regimi a partito unico comunista.
In questo strano clima politico, con i due principali partiti di governo
che si combattevano tra di loro, Giannini affrontò la campagna
elettorale con il suo consueto impeto: famoso restò un suo comizio ad
Avellino dove, fischiato dalla folla comunista che aveva riempito la
piazza per impedirgli di parlare, rispose con la frase “razza di
cretini, prima lasciatemi parlare, poi deciderete se fischiarmi”. Tenne
duro per venti minuti, poi la folla dei contestatori si stancò, mentre
lui, imperterrito, proseguiva il suo discorso per la prevista durata di
un’ora.
I risultati del 2 giugno videro, come noto, la vittoria di misura della
Repubblica (che si affermò con 12.717.923 voti, pari al 54,3%).
All’Assemblea Costituente la DC , con 8.080.664 voti (pari al 35,2%),
ottenne 207 seggi. I comunisti ebbero il 19% dei voti (4.536.686) e 104
seggi, di poco superati dai socialisti, che ottennero 115 seggi.
Ma la Democrazia Cristiana, sommando i propri seggi a quelli dei
partiti di centro e di destra, deteneva la maggioranza. Le sinistre non
erano riuscite a conquistare il primato parlamentare che avevano
preconizzato. Quanto al nostro protagonista, il Fronte dell’Uomo Qualunque ottenne
un’affermazione lusinghiera, con 1.211.956 voti, pari al 5,3% e a 30
seggi (che diventeranno 31 grazie ai recuperi sul collegio unico
nazionale).
Non erano pochi voti, se si considera che provenivano soprattutto dal
Sud, dove Giannini, convinto repubblicano, si era alienato non poche
simpatie di quell’elettorato, che aveva votato per oltre il 60% a favore
della Monarchia. Ma soprattutto fu notevole il successo personale di
Giannini, che fu terzo, dopo De Gasperi e Togliatti, per numero di
preferenze ricevute. In tutto votarono per il commediografo napoletano
quasi 200.000 elettori.
De Gasperi presentò le dimissioni e ricevette di nuovo l’incarico di
costituire il nuovo governo, da Enrico De Nicola, eletto il 28 giugno
dall’Assemblea Costituente capo provvisorio dello Stato.
Dopo una campagna elettorale all’insegna dell’anticomunismo, De Gasperi
costituì il nuovo governo (che entrò in carica il 14 luglio 1946) con la
partecipazione di comunisti, socialisti e repubblicani. Questo fu un
invito a nozze per Giannini, che poté accentuare i suoi attacchi ai demofradici cristiani, accusati di essere un “partito biscia”, infido e che aveva tradito i suoi elettori.
Se del vero c’era nelle affermazioni del ribollente leader
dell’Uomo Qualunque, è anche vero che De Gasperi, col suo consueto
pragmatismo, capiva che una rottura coi comunisti avrebbe portato ad
enormi difficoltà nei lavori della redazione della nuova carta
costituzionale, soprattutto in un punto che stava molto a cuore alla DC,
ossia il riconoscimento costituzionale dei Patti Lateranensi. D’altra
parte Giannini aveva facile gioco nel sostenere che a questo punto il
suo partito era l’unico vero punto di riferimento per l’elettorato
cattolico e anticomunista. Qualcosa però si muoveva nella stessa
sinistra: nel gennaio del 1947 la componente moderata socialista,
rappresentata da Saragat, si distaccava dal PSIUP per fondare il PSLI
(Partito Socialista dei Lavoratori Italiani), mentre il PSIUP tornava la
vecchia sigla PSI.
Forse De Gasperi sottovalutava il disagio dell’elettorato democristiano,
forse non aveva capito che sotto la cenere di un generico malcontento
covava un fuoco su cui Giannini stava soffiando con energia. E le
elezioni amministrative del novembre di quell’anno (siamo nel 1946)
furono un sonoro campanello di allarme. Il preconizzato, da Giannini,
“Vento del Sud”, prendeva l’intensità di una tempesta, rischiando di
spazzare via la Democrazia Cristiana, che pochi mesi prima, il 2 giugno,
si era laureata partito di maggioranza relativa.
A Roma il Fronte dell’Uomo Qualunque superava, seppur di poco (il
20,7% contro il 20,3%) la DC. A Bari, Catania, Foggia, Lecce, Messina,
Palermo, Salerno si affermava come partito di maggioranza.
Ma se al Sud l’affermazione delle liste del “torchietto” era stata strepitosa, anche al Nord venivano conquistati diversi seggi in città dove la presenza dell’Uomo Qualunque era stata, pochi mesi prima, irrilevante. 5 seggi a La Spezia, 4 a Mantova, 7 a Torino, 8 a
Firenze;
non erano certo grandi cifre, ma divenivano importanti laddove si
considerava che in quelle città la lista di Giannini non aveva riscosso
quasi nessun suffragio alle elezioni del 2 giugno.
Fu l’apice per il partito di Guglielmo Giannini e fu anche l’inizio
della sua fine. La DC rifiutava la collaborazione con l’Uomo Qualunque a
Roma, preferendo il commissariamento, inevitabile non volendosi alleare
neanche con le sinistre. D’altra parte il partito di De Gasperi
iniziava una profonda revisione interna, rendendosi conto che il suo
elettorato aveva radici anche su quella borghesia piccola e media che si
era sentita tradita e che si era vendicata. La collaborazione con le
sinistre poteva durare ancora poco, giusto il tempo necessario per
portare a termine i punti fondamentali della Carta Costituzionale, ma
proseguendo avrebbe portato all’affossamento del partito democristiano.
Giannini da parte sua, imbaldanzito dal grande successo alle
amministrative, palesò in pieno la sua personalità di non – politico,
con un’iniziativa sconcertante, che, insieme alla mutata strategia
democristiana, portò alla fine politica dell’ Uomo Qualunque.
Offeso dal rifiuto democristiano di guidare insieme al Fronte
dell’Uomo Qualunque il Comune di Roma, Giannini, proiettando i risultati
delle amministrative nelle future elezioni politiche (quando
l’Assemblea costituente avesse terminato il suo compito, le nuove
elezioni dovevano determinare la composizione del primo parlamento
repubblicano), prevedeva possibile la conquista di oltre un centinaio di
seggi, che avrebbero consentito all’Uomo Qualunque di costituire il
Governo insieme alle sinistre, tagliando fuori i democristiani.
L’affermazione era sconcertante, considerando che Giannini aveva fatto
dell’anticomunismo uno dei suoi cavalli di battaglia, rinfacciando alla
DC il suo anticomunismo solo a parole, seguitando la collaborazione al
governo con Togliatti e Nenni. Ma era meno strana se si considerava che
per Giannini questo rappresentava un ritorno al qualunquismo “puro” che,
perseguendo lo “stato amministrativo”, non poneva alcuna pregiudiziale
ideologica.
Giannini non era un politico, Togliatti e De Gasperi erano due ottimi
cervelli politici, ciascuno pragmatico al punto giusto. E l’ingenuo
commediografo napoletano restò stritolato tra i due personaggi che si
era illuso di poter dominare, essendo lui a capo del “partito più
immenso”, come ebbe a scrivere in un refuso che restò famoso. Tra
Togliatti e Giannini iniziò un dialogo, condotto sulle colonne dell’Unità e dell’Uomo Qualunque. Mentre
il leader comunista riconosceva le radici popolari del qualunquismo,
Giannini arrivava a definire il suo partito come un partito di “extra sinistra, che va aldilà del comunismo e oltre il comunismo”,
chiedendo però a Togliatti quali garanzie lui dava di volere un
comunismo italiano, non totalitario e non dipendente dalla casa-madre di
Mosca.
Erano, come si vede, domande a dir poco ingenue, poste in quello
che Giannini definì come un “bellissimo dialogo tra gentiluomini”. La
stravagante nuova posizione di Giannini verso il comunismo fu ribadita
anche nel secondo congresso del partito, tenutosi a Roma dal 21 al 26
settembre 1947. C’era di che lasciar smarriti gli elettori che avevano
dato il loro voto a un Uomo Qualunque decisamente e sicuramente anticomunista.
Ma se l’elettorato era smarrito, i deputati e gli assessori qualunquisti
erano invece impegnati in lotte interne di potere che obbligavano di
continuo il “Fondatore”, come Giannini era chiamato nel suo partito, a
intervenire con provvedimenti di disciplina. Nel frattempo si avverava
anche la svolta democristiana: il 31 maggio 1947 De Gasperi costituiva
il suo quarto governo, che rappresentava la fine dell’esperienza del CLN
e l’inizio di quella svolta moderata che l’elettorato aveva chiaramente
reclamato con i risultati alle amministrative del novembre precedente.
Il nuovo esecutivo vedeva la partecipazione dei liberali, ai quali si
sarebbero aggiunti, alla fine dell’anno, i repubblicani e i
socialdemocratici di Saragat.
Con i soli voti democristiani e liberali però il governo non avrebbe
avuto la maggioranza; e la fiducia arrivò con i trentuno voti
qualunquisti, decisi dopo una tumultuosa seduta della direzione del Fronte dell’Uomo Qualunque,
nella quale Giannini, trovatosi in minoranza (era deciso a negare la
fiducia a De Gasperi), iniziava a rendersi conto che la sua creatura gli
stava sfuggendo dalle mani.
Estromessi i comunisti dal governo, assicuratosi una maggioranza
più stabile con la cooptazione di repubblicani e saragattiani, De
Gasperi poté affrontare con piglio deciso e ottimistico la campagna
elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile 1948.
I risultati di queste elezioni, per quanto riguarda il duello principale, quello fra DC e
socialisti
e comunisti (uniti sotto la denominazione di Fronte Democratico
Popolare), sono noti: col 48,5% la DC ottenne 305 seggi, contro i 183
conquistati dalle sinistre.
Il Fronte dell’Uomo Qualunque, presentatosi insieme al Partito Liberale
con la lista “Blocco Nazionale”, ebbe solo il 3,8% dei voti (nel 1946
l’Uomo Qualunque, da solo, aveva avuto il 5,3%). Solo nove uomini
dell’Uomo Qualunque entrarono in Parlamento, contro i trentuno della
costituente. Rispetto poi ai voti delle amministrative del novembre
1946, era il crollo. La Democrazia Cristiana aveva saputo riprendersi lo
spazio occupato da Giannini, con quella virata moderata che era
esattamente quella che chiedevano i numerosissimi “uomini qualunque” che
per un breve periodo avevano dato la loro fiducia al commediografo
napoletano. La Democrazia Cristiana si sarebbe definita poi “partito
interclassista”, termine molto più elegante di “partito dell’uomo
qualunque”.
Per il povero Giannini, che ebbe anche l’amarezza di entrare alla Camera
solo un anno e mezzo dopo il 18 aprile 1948, quando fu accolto il suo
ricorso circa errori nei conteggi dei voti di preferenza in diverse
circoscrizioni, iniziarono anche i guai finanziari.
Il quotidiano Il Buonsenso era pieno di debiti, la struttura
del partito era cresciuta a dismisura (e con essa i costi), ma i
finanziamenti, in particolare quelli della Confindustria (come ammise lo
stesso presidente Costa) non arrivavano più. Il Fronte ormai non
serviva più. Fu il Vaticano, tramite l’arcivescovo di Lepanto,
monsignor Ronca, a evitargli anche un’accusa di bancarotta fraudolenta,
coprendo buona parte dei debiti.
Il tramonto politico di Giannini fu malinconico. Presentatosi come
indipendente nelle liste democristiane nel 1953, ottenne solo 13.432
voti e non fu rieletto. Ritentò nel 1958, iscrivendosi nelle liste
monarchiche con l’intercessione del generale Messe. E fu giocato come un
bambino dal signore e padrone del partito monarchico, l’armatore
Achille Lauro. Questi infatti, eletto in tre collegi, Roma, Napoli e
Milano, optò per Roma, chiudendo così la strada a Giannini, primo dei
non eletti in quella circoscrizione e facendo invece entrare a
Montecitorio l’ex qualunquista Bruno Romano, primo dei non eletti a
Napoli.
Giannini morì a Roma il 13 ottobre 1960, alla vigilia del suo
sessantanovesimo compleanno. Si era ritirato dalla vita politica, era
amareggiato e si occupava solo della pubblicazione del suo settimanale,
ormai ben lontano dalle centinaia di migliaia di copie di un 1945
lontano mille anni luce.
E la parola “qualunquista” è rimasta nel linguaggio politico con
tutta la sua valenza spregiativa. Ci sembra ingiusto. Il qualunquismo fu
un fenomeno legato ad un momento particolarissimo. Anzitutto troviamo
del tutto scorretto volerlo assimilare al neofascismo, come spesso si è
fatto, perché non ne ebbe alcune delle caratteristiche. Fu piuttosto
l’espressione di una realtà che ancor oggi, seppur in ben diverse
situazioni, affligge il nostro Paese: il distacco tra cittadini e classe
politica. Giannini ebbe diverse intuizioni geniali, ma del tutto fuori
del tempo in cui viveva: oggi si opera per l’unità europea, che lui già
invocava nel 1946. Spezzò, in anticipo su molti, tanti miti di cui oggi
si riconosce la negatività, primo fra tutti quello nazionalista. Seppe
condurre una polemica disordinata e spesso contraddittoria, ma comunque
sempre imperniata su un amore per la libertà, quasi più anarchico che
liberale.
Di sicuro non era un politico e il suo vero errore fu quello di entrare
in un meccanismo che lo stritolò. Un paragone ci viene in mente:
Giovannino Guareschi. Il creatore di Don Camillo e Peppone condusse a
sua volta una grande battaglia politica dalle colonne del suo giornale;
Ma seppe non fare il passo di troppo (pur da molti consigliato) di
entrare nella politica attiva. Se anche Giannini avesse avuto questa
prudenza, oggi lo ricorderemmo solo come lo scrittore che, con tutte le
sue stravaganze, le sue “parolacce”, il suo esibizionismo, aveva però
lanciato un grido in difesa del diritto alla vita tranquilla di
quell’Uomo Qualunque che, ci piaccia o meno, costituisce la maggioranza
della società.
http://www.storiain.net/arret/num101/artic4.asp |
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