domenica 9 giugno 2013

Vartema e Venezia: micro-viaggio nelle pieghe della storia

di PAOLO L. BERNARDINI
E’ finalmente disponibile, da circa un anno, un’edizione commentata alla editio princepsdell’Itinerario di Lodovico de Vartema, che vide la luce a Roma nel 1510. Il lavoro, certo considerevole, si inserisce nella collana ‘Oltramare’ delle Edizioni dell’Orso di Alessandria, una collana che, diretta da studiose del calibro di Mariarosa Masoero e Jeannine Guérin Dalle Mese,  è davvero un faro per quel che riguarda l’odeporica tardo-medievale e rinascimentale. Basti citare, visto che ne stanno celebrando l’anniversario, gli scritti di Amerigo Vespucci, a cura di Mario Pozzi, del 1993, o il Viaggio intorno al mondo di Antonio Pigafetta, a cura della stessa Masoero, e finalmente il bellissimo viaggio in India e Cina di Odorico da Pordenone, emulo di Marco Polo, e di poco posteriore al veneziano, a cura di Lucio Monaco, del 1990. Quasi naturale, dunque, veder buon ultima un’edizione di Vartema, che riproduce la princeps, tenendo costantemente presente l’unico manoscritto esistente, conservato alla Bertoliana di Vicenza.
Ora, l’edizione ha senz’altro molti meriti, se non altro per il testo che mette a disposizione degli studiosi, con un vastissimo apparato di note. La curatrice, però, Valentina Martino, nel lodevole tentativo di accostarsi al testo utilizzando strumenti di numerose discipline, dalla linguistica alla geografia alla storia imperiale, commette numerose ingenuità. Peccati veniali, come continuare a chiamare Sri-Lanka e Myanmar con i vecchi nomi coloniali inglesi, Ceylon e Birmania, ma qualcuno capitale: Venezia non “perde” (!) Costantinopoli nel 1453, non era mai stata veneziana se non per un periodo brevissimo di tempo prima della spartizione dell’Impero nel 1204 a seguito della Quarta Crociata. E’ pur vero che l’azione veneziana trasformò, come ha dimostrato Johathan Harris nel suo Constantinople. Capital of Byzantium, la città dal 1250 circa alla caduta in una sorta di città-stato piuttosto che in una capitale di un impero: ma i veneziani nel fatidico 1453 poco fecero per salvarla, ed anzi eroi furono semmai alcuni genovesi, capitanati da Giovanni Giustiniani Longo , mentre i veneziani lasciarono al suo triste destino il bailo del loro quartiere (avevano solo un quartiere), Girolamo Minotto.
Gli ottentotti, poi, non hanno mai avuto una flotta che potesse sconfiggere e uccidere Francisco De Almeida “al largo del capo di Buona Speranza”. Poveri Ottentotti, sarebbe poi ora di chiamarli con il loro vero nome, khoekhoen, visto che il poco simpatico nomignolo di “ottentotti” (i “balbuzienti”) venne affibbiato loro dagli olandesi. De Almeida fu ucciso sulla spiaggia, dopo un tentativo (evidentemente) fallito di conciliazione con le tribù locali che avevano subito diverse vessazioni da parte dei portoghesi scesi a terra. Manca poi una cartina che illustri un itinerario complicato e lunghissimo a colpo d’occhio, ed è del tutto assente un apparato iconografico, a prescindere dall’immagine in copertina: cosa che sarebbe stato doveroso inserire, perché diverse edizioni presentano un corredo di immagini ragguardevole, come quella olandese del 1644 – si trova in vendita a circa 30.000 dollari – di cui si riproduce qui una delle tre incisioni.
Detto questo, il testo è senz’altro meraviglioso. Certamente, leggendolo, anche con tutta la passione dovuta, non possiamo non domandarci, come ha fatto di recente Franco Cardini, se in tutti quei luoghi il viaggiator (sedicente) bolognese sia mai andato, se davvero questa mirabile peregrinazione laica, compiuta tra 1503 e 1508, sia avvenuta davvero, in toto o in parte. Dal Malabar all’Etiopia al Borneo a Giava, attraverso gran parte dell’India, insomma un gran periplo dell’Oceano indiano – con preventivo giro alla Mecca, il primo occidentale, forse, a compierlo – e descrizione minuta e accurata, ancorché assai spesso contestata, dei costumi locali, della religione e della politica, della flora e della fauna.  Non solo, ma anche l’Arabia “deserta” e quella “felice”, proprio perché contrapposta alla “deserta”, ovvero lo Yemen, contrapposto all’attuale Arabia saudita. Se non fosse caduto in oblio nel Settecento, questo testo avrebbe contenuto la risposta alla domanda che si posero i membri della spedizione Niebuhr, celeberrima: “Perché l’Arabia felice si chiama così?” Proprio perché “felix” nel senso latino, “fertile”.
Siamo quindi nel territorio della pura invenzione, della parziale invenzione, o del resoconto preciso e affatto reale? Le medesime domande ci si pone, con risposte affatto concorrenti, per Marco Polo. Probabilmente non lo sapremo mai. Non sapremo mai se Lodovico, dal misterioso cognome “Vartema” (nobile famiglia genovese, tra l’altro, ma anche cittadina lombarda, Vertemate), sia mai approdato in cotali e cotante lande estreme. Non sapremo mai se abbia davvero visto tutto quel che descrive, o si sia basato su altri resoconti di viaggio e fonti orali, allora non abbondanti ma neppure scarse. Molto probabilmente Vartema è davvero bolognese – cosa che si potrà stabilire solo quando sarà ritrovato il suo atto di battesimo – nato intorno al 1470, morto nel 1517 (pare). Per me, ritornare su Varthema (o forse Vartema senza la h), significa riaprire un’ideale questione, che certo è tornata assai spesso nella storiografia, sui suoi rapporti con Venezia, ed azzardare qualche ipotesi interpretativa.
Innanzi tutto, il viaggio comincia a Venezia, nel 1502 o 1503, e pur concludendosi a Lisbona, è a Venezia (al pien Collegio, ricevendone 25 ducati) che Vartema descrive in anteprima quel che ha visto, “riferisce”, giusto le parole di Sanuto, che riporta notizia dell’audizione, dandone una data precisa, 5 novembre 1508. Non nuocerebbe una puntatina all’Archivio di Stato, ai Frari, per qualche verifica. Inoltre, mentre la lingua presenta diversi  venetismi, indubbiamente – ma questo doveva essere comune ad ogni viaggiatore del tempo – vi sono interessanti riferimenti a Venezia nel testo, prima di tutto il costante parametrare ogni valore al “ducato”, anche se anche per questo c’è una spiegazione, il ducato era il vero dollaro del tempo, la valuta universalmente accettata e rispettata. Ma poi colpisce l’incontro che Lodovico fa con due personaggi, definiti “milanesi”, “Ioanmaria” e “Pierantonio”, che i commentatori francesi hanno già ritenuto esser spie dei veneziani. Ioanmaria, alla domanda se fossero “ cristiani” rivoltagli da Lodovico, risponde “Si semo ben noi”… Ma non sono personaggi di poco conto, se non altro perché in grado di insegnare l’arte di costruire cannoni. Che si tratti di bresciani, o delle valli limitrofe? Maestri delle brescianelle, armi non di qualità eccelsa, ma funzionali.
Questo spiegherebbe sia la definizione di “milanesi”, sia il fatto che fossero spie veneziane originariamente sbarcate a Calicut sulla flotta portoghese. Brescia fa parte della Serenissima dal 1426. Un viaggio dunque comincia a Venezia, e la cui prima relazione vien esposta, in sede pubblica, a Palazzo Ducale. E’ pur vero che la prima edizione, ormai rarissima, naturalmente (ma non meno di tutte quelle cinquecentesche), esce a Roma. Ma qui abbiamo un altro elemento di mistero, poiché tra gli editori figura un’altra figura straordinaria, di vicentino, stavolta. Lodovico degli Arrighi. Singolari le analogie, sempre nel regno inquietante delle pieghe ignote della storia, con Vartema. Si chiamano entrambi Lodovico, entrambi nascono intorno al 1470, entrambi hanno diuturni rapporti con Roma. Ma dell’Arrighi calligrafo, uno degli ultimi grandi copisti rinascimentali, l’inventore del corsivo, l’ideatore di un inchiostro speciale, conosciamo la patria, Cornedo Vicentino, e anche la data di morte, il 1527, nel celeberrimo sacco di Roma. Di mano dell’Arrighi, e custodito tra i tesori della Bertoliana a Vicenza, l’unico manoscritto rimasto dell’opera di Vartema , che varrebbe la pena di riprodurre in anastatica con commenti adeguati.  Significativo anche il fatto che edizioni successive riportino all’inizio la volontà del Vartema di descrivere luoghi non precedentemente descritti proprio dai veneziani (nella prima edizione non vi è questo riferimento preciso). Ignoriamo se Vartema, oltre ai 25 ducati di cui parla Sanuto, somma comunque considerevole, ottenne altre benemerenze da Venezia. Ma a Venezia venne ripubblicato un numero altissimo di volte il suo itinerario per tutto il Cinquecento: Zorzi di Rusconi (da notare l’ulteriore legame con Milano) lo ripubblicò una prima volta nel 1517, e nel 1522, ed ebbe alcune altre edizioni veneziane successive. Al suo ritorno, ottenne da Giulio II il titolo di patrizio romano, e il re portoghese Manuele I lo confermò nel cavalierato che gli era stato conferito dall’Almeida.
Tutto, forse, si comprende meglio se inseriamo due coordinate macrostoriche. Il Portogallo sta creando il proprio impero, non solo in America latina, ma soprattutto, e a partire da inizio Quattrocento, da un secolo ormai, tra Africa e India. Nel frattempo Venezia, all’apice della propria potenza, sta per essere attaccata dalla poderosa Lega di Cambrai. Di cui non farà parte, unica, o quasi unica eccezione notevole, il Portogallo di Manuele I. Ma che sarà guidata proprio da quel Giulio II sotto i cui auspici viene pubblicata la prima edizione dell’Itinerario nel 1510. Ad uno storico anche solo un pochino avvertito uno sguardo ancorché superficiale sulle date non potrà che fornire un qualche motivo di riflessione. La Lega di Cambrai ha una data di nascita (oltre che un luogo, l’interessante Cambrai, all’estremo nord della Francia, città natale di Fénelon tra gli altri). Il 10 dicembre 1508. Sappiamo che l’audizione in pien Collegio del nostro Lodovico ebbe luogo il 5 novembre, un mese e cinque giorni prima. Ma se facciamo un salto di due anni, vediamo che la data riportata nella prima edizione del libro è 6 dicembre 1510. Sono passati esattamente due anni. Giulio II ha “perdonato” Venezia e la Lega di Cambrai si è sciolta (il 24 febbraio). A gennaio 1511 vi sarebbe stato quel rovesciamento delle alleanze che portò alla creazione della Lega Santa, in funzione antifrancese. Con Venezia e il papa alleati. Nel frattempo il Portogallo continua a rafforzarsi in India, non senza lotte intestine tra i vari capi e ammiragli (esemplare quella tra Albuquerque e Almeida senior…) Quest’ultimo lasciava malamente questo mondo il primo di marzo 1510. Ma nel frattempo il Portogallo avanza nella sua mirabile opera di esplorazione (Groenlandia, Terranova) e colonizzazione (India, Marocco). Manuele I perfezionava la politica espansionistica di Giovanni II. E Venezia se non poteva opporsi, quantomeno doveva sapere, indagare, mettersi le spalle al coperto, soprattutto perché Manuele I stava mandando ambascerie in Cina, e in Persia, alleata della Serenissima in funzione antiturca. Insomma Lisbona, senza dichiarare alcuna guerra, metteva in grave crisi la Serenissima. Forse la partecipazione del potentissimo Portogallo alla Lega di Cambrai avrebbe mutato le sorti della guerra, rafforzando una coalizione già di per sé poderosa che avrebbe potuto davvero por fine alla corrusca vicenda della Serenissima. Ovvio che la Serenissima sperasse di tenerlo lontano. Nel triangolo Roma-Lisbona-Venezia si svolge una vicenda affascinante, se non tutta, in gran parte da scoprire.
Lodovico inizia il suo splendido libro con una dichiarazione di innocenza. Viaggia per conoscere terre nuove, genti nuove, e per null’altro. Non dice chi il viaggio finanzi. Ideale progenie di Leonardo, tesse lode all’empirismo italico, tutto di buon senso, di praticità, di primato della vista sull’udito, prima che Bacon ne faccia, un secolo dopo, materiale “scientificamente” filosofico: “…deliberai con la propria persona – scrive Vartema – e con li occhi medesmi cercar cognoscere li siti de li lochi, le qualità de le persone, le diversità degli animali, le varietà de li arbori fruttiferi, e odoriferi de lo Egitto, de la Surria, de la Arabia deserta e felice, de la Persia, de la India e della Etiopia, massime recordandome esser più da estimare uno visivo testimonio che diece de audito.” Quale candore, da Chatwin ante litteram, da Odisseo dantesco. Ma forse le cose non stavano proprio così.
Il mondo era in fibrillazione, e con esso, naturalmente, Venezia. Mentre il nostro Lodovico era in viaggio, si concludeva la conquista di Goa (nel 1510, esattamente), e i Portoghesi scendevano a Mauritius e nel Madagascar (1507). I legami tra Venezia e il Portogallo nel Cinquecento sono stati approfonditi da un ottimo lavoro di Julieta de Oliveira (Veneza e Portugal no sécolo XVI, Lisbona, 2000, lavoro che presenta anche un vastissimo apparato documentario), e sarebbe il caso, dunque, di riaprire il caso Vartema, alla luce di questo libro e di quanto scritto qui. Mai credere alle iniziali professioni di candore. Soprattutto in quei tempi (ma anche nei nostri). Senza d’altra parte sottoscrivere la celebre frase di Edward Gibbon, secondo cui quando per un’azione esiste una motivazione meschina e una nobile, occorre credere sia vera la prima. Forse in questo libro il candore è solo quello degli elefanti così ben descritti da Lodovico, “perché il ditto leofante ha più sentimento che animale che sia nel mondo…”



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