1. LA GAZZETTA DELLO SPORT: "IL 14 FEBBRAIO 2004 MARCO PANTANI NON SI SUICIDÒ. IL FUORICLASSE DI CESENATICO NON ERA SOLO IN QUELLA MALEDETTA CAMERA D'ALBERGO. DIECI ANNI DOPO, L'INCHIESTA DELLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI RIMINI HA RIAPERTO IL CASO" - 2. LA PROCURA, NUOVA IPOTESI “OMICIDIO CON ALTERAZIONE DEL CADAVERE E DEI LUOGHI’' - 3. PANTANI PICCHIATO E COSTRETTO A BERE LA COCAINA NELLA PROPRIA STANZA D'ALBERGO - 4. PESA LA NUOVA PERIZIA DEL PROFESSORE AVATO: LE GRANDI QUANTITÀ DI STUPEFACENTE TROVATE NEL CORPO DI PANTANI SI POSSONO ASSUMERE SOLO SE DILUITE IN ACQUA -
Ansa.it
"Il 14 febbraio 2004 Marco Pantani non si suicidò. Il fuoriclasse di Cesenatico non era solo in quella maledetta camera d'albergo. Dieci anni dopo, l'inchiesta della Procura della Repubblica di Rimini ha riaperto il caso".
Lo scrive nella notte con un tweet la Gazzetta dello Sport, aggiungendo che "non si sarebbe trattato di suicidio, ma Marco sarebbe stato ucciso: 'omicidio con alterazione del cadavere e dei luoghi', la nuova ipotesi della Procura". La stessa notizia compare nell'edizione online della Repubblica.
Secondo quanto riferisce il quotidiano sportivo, "Marco Pantani sarebbe stato picchiato e costretto a bere la cocaina mentre era nella propria stanza d'albergo. Questa è la nuova ipotesi dell'inchiesta condotta dal procuratore capo di Rimini, che ha accolto l'esposto della famiglia Pantani. Pesano le conclusioni della nuova perizia realizzata dal professore Avato, secondo la quale le grandi quantità di stupefacente trovate nel corpo di Pantani si possono assumere solo se diluite in acqua".
“FU UN OMICIDIO VOLONTARIO” NUOVA INCHIESTA SUL CASO PANTANI
Gianni Mura per “la Repubblica”
“ME L’HANNO ammazzato”. Questo fu il grido della madre di Pantani quando seppe della sua morte. Ed è soprattutto grazie alla sua ostinata ricerca di una verità diversa dalla morte per overdose, che la Procura di Rimini ha deciso di riaprire il caso. Sono passati più di dieci anni da quella notte di San Valentino, in un residence di Rimini. Già nei giorni successivi s’era capito che l’inchiesta era stata frettolosa, mal condotta.
S‘era capito che era stata condizionata da piccole e grandi omertà e connivenze nel giro dello spaccio di droga, in una Riviera romagnola senza più turisti ma con un consistente numero di consumatori. Chi vuole, oggi, può andarsi a rileggere il libro-inchiesta di un giornalista francese, Philippe Brunel, sugli ultimi giorni di Pantani. Un libro che non parla delle glorie e delle vittorie di Pantadattilo, ma solo della lenta, inesorabile caduta.
Già in quelle pagine v’erano segnalate manchevolezze nell’indagine: nessuna spiegazione per i resti, in un cestino della camera, di avanzi di cucina cinese mai richiesti da Pantani. Del tutto trascurate le impronte digitali, e anche alcune ferite alla testa di Marco. Scarsa attenzione a un particolare: gran parte della droga, in misura sei volte superiore a un’overdose, era nella bocca di Pantani, quasi qualcuno l’avesse obbligato a mangiarla.
Altrettanto strano, per chi segue la cronaca nera, che in un caso del genere, con un morto di fama internazionale, non fossero stati chiamati a intervenire i Ris di Parma, a sole due ore d’autostrada. Più che inquietante e macabro un episodio rivelato da Brunel, mai smentito: il medico che eseguì l’autopsia si portò a casa il cuore di Pantani e lo nascose in cucina, in una scatola di biscotti, per paura che lo rubassero.
Insomma, già c’erano molti motivi per pensare che quella di Pantani non fosse solo una malamorte, ma una morte buia, oscura in quanto non chiariva molti, troppi passaggi. Ora io non so a cosa possa condurre un’inchiesta riaperta: il residence Le Rose è stato smantellato pochi mesi dopo la morte di Pantani. Sulla verità vera s’è incrostata e forse cementata una verità di comodo: overdose, ultima fermata di un campione che non riusciva a vivere senza bicicletta, che si sentiva spiato e perseguitato, che aveva a più riprese cercato di tornare in gruppo, accumulando altre rabbie e altri dolori.
Quando Pantadattilo vinceva alla sua maniera, diceva che la cosa più bella non è vincere, ma restare da soli in salita dopo avere staccato tutti. Era, a modo suo, un grande attore drammatico, che seguiva un rituale preciso, quasi da samurai, quando attaccava. Difficile ritrovare una sua immagine sorridente o festante sul traguardo. Esibiva sofferenza e stanchezza, non è un caso se la sua frase più citata, parlando delle salite, sia: «Vado così forte per abbreviare la mia agonia».
L’ha allungata giù dalla bici. La sua agonia è durata più di quattro anni. A questo punto non ha molta importanza se Pantani si sia drogato sportivamente, per vincere, e che poi sia scivolato nell’altra droga, quella delle notti bianche e dello sballo. Mezza Italia si fermava, dai bambini alle nonne, per vederlo attaccare in salita, alla sua maniera.
Lo si può criticare finché si vuole, ma dimenticarlo è impossibile. Avrebbe meritato una vita più lunga e tranquilla, non quel passaggio così brutale dal paradiso all’inferno che avrebbe stroncato gente più dura di lui. Troppo sensibile per vivere bene nei panni dell’angelo maledetto. La solitudine che cercava con tanta gioia pedalando gli è stata ultima, dura compagna. Ma se qualcuno gli ha dato una spinta per fare l’ultimo passo, è giusto che si sappia.
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