Parla il pentito mafioso accusato dell'omicidio del banchiere di Dio ucciso nel 1982.
Sono passati quasi 30 anni dal 18 giugno 1982, la notte in cui il corpo
inanimato di Roberto Calvi fu trovato appeso sotto il ponte dei Frati
Neri di Londra, con le tasche riempite di mattoni. All'inizio si parlò
di suicidio.
Poi fu aperta un'inchiesta per omicidio. A un mese dall'anniversario
della macabra scoperta, c'è una sola certezza: il banchiere di Dio,
presidente del Banco ambrosiano, all'epoca la più importante banca
privata italiana, l'uomo di fiducia dello Ior e della finanza vaticana,
l'amico e socio in affari del potentissimo finanziere Michele Sindona, è
stato ammazzato. Sull'identità dell'assassino, però, nulla è scritto. E
nulla lo sarà mai, stando alle parole che il mafioso pentito Francesco
Di Carlo ha affidato al quotidiano inglese Guardian.
KILLER PROTETTI DALLO STATO. «I killer di Calvi sono protetti dallo Stato e dalla Loggia P2: rimarranno impuniti».
L'ultima parola è stata però pronunciata nel 2010 con l'assoluzione
degli ultimi accusati dell'omicidio - il faccendiere Flavio Carboni, il
cassiere della mafia Pippo Calò e il criminale vicino alla Banda della
Magliana, Ernesto Diotallevi. Nella sentenza il tribunale di Roma ha
ammesso: «Calvi è stato ammazzato, non si è ucciso». Un assassinio senza
assassini.
DI CARLO «IN CONTATTO COI SERVIZI». Un
procedimento, a dir la verità, è ancora in corso in Inghilterra. Ma per
Di Carlo, attualmente collaboratore di giustizia, non ci sono speranze.
La sua opinione nel campo è autorevole. Di lui il boss di cui Totò Riina
disse: «Chiedete a Di Carlo delle stragi era lui in contatto con i
servizi segreti».
Il pentito Francesco Marino Mannoia, invece, lo indicò come uno degli
esecutori del delitto Calvi. Ma Di Carlo, lo «Strangolatore» per gli
amici, è riuscito per molto tempo a rimbalzare le accuse verso altri
mafiosi e camorristi. O molto più in alto.
«Non ho appeso Calvi da solo» ma «più in alto vai meno prove trovi»
Ancora oggi il racconto di Di Carlo è vivido: «Ero in prigione a Londra e alla televisione parlavano dell'omicidio di Calvi. Quando sentii pronunciare il mio nome, i compagni di cella e le guardie si girarono verso di me. Scrollai le spalle e dissi: devono parlare di qualcun'altro con il mio stesso nome».Dopo 25 anni di reclusione nel Regno Unito per traffico di droga, Di Carlo è divenuto collaboratore di giustizia, vive in un paesino del centro Italia e ha testimoniato al processo di Palermo contro Marcello Dell'Utri, raccontando delle relazioni tra Cosa Nostra e Forza Italia, tra Silvio Berlusconi e il boss Stefano Bontate.
PIPPO CALÒ MI CERCÒ. Ora, come volesse a suo modo celebrare l'anniversario di Calvi, ha aperto la memoria anche su quella nera notte londinese.
«Ero a Roma», ha dichiarato ai giornalisti inglesi, «quando ricevetti una telefonata da un amico siciliano, che mi disse che c'era un mafioso di alto rango che doveva essere eliminato. Non ho mai dimenticato la data per un motivo: era il 16 giugno 1982, due giorni prima che Calvi fosse ammazzato».
E ancora: «L'amico mi disse che Pippo Calò mi stesse cercando. Nella gerarchia di Cosa Nostra, lui era un generale, io un colonnello, quindi era un mio superiore».
Quando i due si parlarono, però, la questione «era stata risolta». Il punto è che Calvi stava facendo i nomi: «Nessuno si fidava più di lui. Possedeva un sacco di soldi, ma tutti i suoi amici si erano allontanati. Era stato arrestato e aveva iniziato a parlare. Provò anche a uccidersi, tagliandosi le vene ai polsi. Era debole, un uomo spezzato».
PROTETTI DALLO STATO. Poi si lascia andare in uno sfogo: «Un giorno scriverò tutta la storia, ma i veri killer non verranno mai presi, perché sono protetti dallo Stato italiano, dai membri della loggia massonica P2: hanno un potere schiacciante. Sono una miscela di leader politici, presidenti di banche, militari e vertici degli apparati di sicurezza. Questo caso lo continuano ad aprire e chiudere di continuo, ma non verrà mai risolto».
C'è una legge che vale sempre in questi casi: «Più in alto vai, meno prove trovi». Del resto lo diceva lo stesso Calvi: «Il Banco ambrosiano non è mio, io sono soltanto il servitore di qualcuno».
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