domenica 13 maggio 2012

INDIPENDENZA VENETA: QUALCHE ISTRUZIONE PER L’USO


di PAOLO L. BERNARDINI
Quando parliamo di indipendenza del Veneto, occorre, ad un tempo, far volare l’immaginazione al giorno radioso in cui il vessillo di San Marco o un simbolo nuovo sostituirà il tricolore in ogni parte del territorio veneto, divenuto da regione italiana stato indipendente; ma anche tenere, per ora, i piedi ben saldi per terra. Per questo, presenterò qui qualche riflessione controintuitiva, diciamo così, per far comprendere, come, a mio avviso modesto, dovrebbe condursi, con riferimento all’Italia, tale cammino. E’ un testo abbastanza lungo, e me ne scuso. Ma anticipa quella che potrebbe essere la mia relazione a Jesolo a fine maggio.
Cominciamo dal 2012 (dove ugualmente finiremo).
Il Presidente Napolitano è presidente dell’Italia, non degli italiani, anche se l’esegesi della Costituzione in alcuni casi oscilla verso la seconda ipotesi. La differenza è immensa: suo compito primario diviene ed è tutelare uno Stato, anche contro il volere dei suoi cittadini. Detto altrimenti, è presidente degli italiani nella misura in cui è presidente dell’Italia, e non viceversa. Non possiamo quindi auspicare che egli dichiari simpatia per nessuno dei movimenti indipendentistici, siano questi veneti o sardi: e ci stupiremmo del contrario! La sua coerenza nella difesa dell’unità dell’entità di cui è massimo rappresentante istituzionale va a suo onore, ma non a nostro discapito. Lo iato tra “Italia” come Stato e “italiani” come cittadini è evidente nelle politiche del governo Monti. Per mantenere in vita la prima, si uccidono i secondi. Per mantenere in vita lo Stato si succhia tutto il sangue possibile ai suoi cittadini, che possono identificarsi con un vampiro se e solo se si sentono o sono in parte anche loro pippistrelli.
Peraltro, però, come già è stato segnalato, nel momento in cui Napolitano afferma “la Padania non esiste” dice una cosa ad un tempo falsa, ma anche vera. Falsa, nella misura in cui la Padania come regione geografica esiste eccome, come ci ricorda Salvi – leggete il suo “L’Italia non esiste”, è un must per ogni indipendentista, e anche per chi indipendentista non sia –, essendo una delle regioni geografiche che compongono l’Italia, insieme ad Appenninia, Sicilia, Sardegna, Corsica, e isole minori. Vera, nella misura in cui non esiste né mai è esistita un’entità politica con questo nome e con tali confini. Né mai esisterà. Certamente, chi a ragione parla di “Padania libera”, auspica, se non delira, prima la liberazione di Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli, Emilia Romagna, poi (forse) la creazione di una Padania con (possibile, ma non necessaria) federazione tra due o più di questi Stati, ex-regioni italiani. Chi invece sogna la “Padania libera” pensando che esista una Padania, proietta nel rischioso regno dell’immaginario una entità politicamente inesistente, perché come diviene libera la Padania? Con un referendum che indisce il governatore della Padania? O piuttosto con un referendum indetto dai governatori di Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Friuli? Con questa proiezione, ritarda, colpevolmente, la liberazione o scissione delle regioni come potrebbe effettivamente avvenire.
Quindi, a saper interpretare sotto le righe, e aldilà certamente degli intenti consci e perfino inconsci di un Napolitano, la frase in questione la possiamo ribaltare: “Bimbi miei, se proprio, ma proprio proprio, non ve ne state buoni buoni e mi rompete i…l’anima con l’indipendenza, che magari senza che lo possa dire vedrei anch’io come una delle possibili fughe da questo marciume, almeno non tirate fuori entità inesistenti, ma cominciate da quel che avete, Lombardia, Veneto, Sicilia, Sardegna…”.
E qui vorrei cominciare io con alcune considerazioni che potranno dispiacere a molti indipendentisti, ma che vorrei fossero fatte oggetto di riflessione profonda. Andiamo in ordine rigorosamente cronologico:
1866.
Negli accordi (austro)-sabaudo-prussiani per il destino del Veneto è prevista l’interrogazione popolare. Ora, storici seri e dilettanti vari si sono esercitati nell’arte semplice di dire che il plebiscito del 1866 è stata una truffa; non lo mette in dubbio nessuno, neanche i più accaniti e scrupolosi difensori del disegno risorgimentale, almeno oggi. Lo sono stati tutti, nel loro svolgersi, questi “referendum”, a partire dai progenitori di quello del 1866, quelli nella Francia post-rivoluzionaria. Ma perfino la loro denominazione, “plebiscito”, indicava che si doveva trattare, come nell’antica Roma, di acclamazione popolare di scelte elitarie, come succedeva nei plebisciti originari, da parte della plebs romana. Insomma, il sì era scontato, doveva esserlo, almeno nella piega che all’interrogazione popolare hanno dato i governanti sabaudi, visto che gli austriaci non entrarono nei dettagli organizzativi, in quanto sconfitti, e neanche i prussiani, per quanto vincitori.
Perché dico questo?
Perché la scelta che fu data agli abitanti della parte veneta dell’absburgico mostro lombardo-veneto, unito solo, con buona pace di Ippolito Nievo, per poco prima del 1848 e per poco dopo, era tra la Savoia e l’Austria, non era una scelta multipla, “volete voi tornare alla repubblica di Manin, piuttosto che alla Serenissima, piuttosto che all’Austria piuttosto che ai Savoia, o ai Francesi?”. Il “no” implicitamente avrebbe comportato un ritorno all’Austria. Si guardi la formula, e si capirà di cosa si trattasse: ”Dichiariamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il Governo monarchico costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi legittimi successori. “ Che senso giuridico, ma perfino logico avrebbe avuto un “no”? Forse che un suddito lombardo-veneto avrebbe potuto avere un potere di non-dichiararsi unito al Regno d’Italia? La farsa è nella formula, nella conduzione violenta e ridicola di una votazione non segreta – ma guardate Il gattopardo e ve lo spiegherà bene, o leggete il libro di Tomasi di Lampedusa, Donnafugata è un esempio perfetto – e ovviamente nei risultati. E’ naturale che i “no” siano stati più di 69, e i “sì” meno dell’iperbolica cifra di 647.246, ma quel primo numero ha un significato simbolico, il funzionario che lo mise forse volle farcelo intendere: nel 1866 erano infatti passati 69 anni dalla fine della Serenissima.
Vi è però un aspetto positivo in questo plebiscito: ovvero, che al popolo sia chiesto il consenso. Non importa poi il modo con cui questa istanza venne applicata e stravolta. Importa il riferimento ad un principio formale, di legittimazione popolare per un cambiamento tanto epocale quanto è quello di governo. Ricordiamoci due cose: chiedendo un referendum per l’indipendenza del Veneto ci richiamiamo a quello che è un precedente, anzi il primo; aldilà dello stravolgimento nella sua esecuzione. E il solo. Quando mai fu richiamato di nuovo ad esprimersi collettivamente il popolo veneto, in quanto veneto? Infatti, mai il popolo della Serenissima, se non agli inizi, quando si poteva ancora praticare una democrazia diretta per limitato numero di popolazione, fu chiamato a negare o concedere il consenso al governo marciano. Il Maggior Consiglio non era il popolo. Indubbiamente, e lo testimoniano le Pasque veronesi, e mille altri episodi in mille anni di libertà, vi era un consenso morale, ma non formale.
La differenza è forte.
In condizioni di svolgimento umilianti, in ogni caso il popolo veneto fu chiamato a decidere dei suoi futuri reggitori, nell’ottobre 1866. L’altra cosa fondamentale: la decisione del 1866 non avrebbe potuto essere vincolante per il 2011, per il semplice motivo che i veneti che votarono allora non possono rappresentare i veneti di ora: altrimenti i popoli sarebbero condannati dalle scelte dei loro padri, che possono anche non essere giuste: giusta in generale e per ora è la Costituzione americana, se è vero che è in vigore dal 1787, ma se sacra è la libertà, non è sacra una qualsiasi carta costituzionale, ovvero una legge, che va bene per il presente solo se si è in accordo con il passato.
Quindi, ponendo anche che quella stragrande maggioranza che votò per i Savoia fosse stata realmente tal — cosa su cui ovviamente dubito — quel che fu deciso nel 1866 può essere benissimo ribaltato nel 2012.
Saggiamente, la Serenissima mutò nei secoli, e in modi discreti, e flessibili, la propria costituzione. Senza alcuna saggezza, ma con ridicola arroganza, la formula sabauda prevedeva una fedeltà ai “legittimi successori” di Vittorio Emanuele II. L’Italia democratico-repubblicana nata nel 1948 può definirsi “legittimo successore” di quel re? Di quella dinastia? Di successore ne abbiamo uno, fa il cantante in duo con Pupo, sono le gemelle Kessler dimezzate del postmoderno sanremasco.
1948.
Entra in vigore la Costituzione italiana. Si tratta di un documento NON sottoposto all’approvazione popolare, sulla base del principio che i costituenti incarnassero già la volontà popolare quantomeno della maggioranza. Inoltre, era stato sottoposto a referendum, e non a plebiscito, l’ordinamento dello Stato, ed una maggioranza risicata, e geograficamente non uniforme, aveva preferito la repubblica democratica al regno, probabilmente con molti brogli. Questo legittimò, in parte, l’operazione rischiosa di non sottoporre a referendum popolare la carta costituzionale. Ora, si tratta di un documento fieramente, ostinatamente, caparbiamente e ciecamente centralistico.
Eppure…
Eppure è nel suo dettato che vanno almeno parzialmente rintracciate le tracce, i precedenti, gli appigli, ancorché vaghi, anche per l’indipendenza.
In fondo riconosce le Regioni, e addirittura, contraddicendo il principio di uguaglianza dinanzi alla legge che l’ispira e che riafferma prepotentemente, ne riconosce alcune a “statuto speciale”, di diritto e di fatto creando italiani privilegiati rispetto al resto. E’ un riconoscimento di portata storica, aldilà della pochezza (relativa) dei privilegi concessi. Riporto qui l’articolo che le prevede, il 116:
“Il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.
La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e Bolzano.
Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.”
Il successivo articolo 117 definisce i limiti della potestà legislativa, che ovviamente sono ampiamente favorevoli allo Stato rispetto alle Regioni, dal momento che lo Stato mantiene legislazione esclusiva sulle materie principali. Ma, ed è un “ma” con grande valore, un minimo di potestà legislativa viene riservata, sia pure in materie secondarie, alle Regioni. Ovvero, se quel che viene concesso legislativamente è minimo, il sistema regionale è storicamente comunque importante per un futuro di indipendenza perché sancisce due principi: vi sono unità amministrative con potestà legislativa; all’interno di tali unità amministrativo-politiche, ve ne sono ben 5 (il 20%) dotate di statuto speciale e poteri/privilegi “superiori” alle altre 15.
Ora, la patria “una ed indivisibile” presenta già un duplice ordine di divisione. E’ vero che le Regioni, nei loro confini, vennero tagliate con l’accetta, mal concepite da Correnti e compagnia nell’Ottocento ignavo (come ben mostra) Miglio e ignaro di scienza amministrativa, si veda la strana partizione che ci riguarda, Veneto, Lombardia, Friuli e Trentino, ma anche vero, indubitabilmente, che il Veneto attuale ha somiglianze notevoli con la Serenissima nel 1797, escluso i domini adriatici e greci, la riva sinistra d’Adda, Bergamo, Brescia, etc., e perfino con la Regio X di Augusto, esclusa Mantova, Pola, etc.
Invece la Padania davvero non esiste.
L’Italia non è uno stato federale, certamente; ma presenta divisioni amministrative non casuali, che forse i costituenti potevano anche ignorare, “dipartimentalizzando” in modo napoleonico, ovvero frammentando ancora di più (o di meno) il territorio. Eppure non lo fecero. Certamente, nessuno di loro aveva mire occulte o palesi verso l’indipendentismo, che pure si era fatto appena sentire e in modo non episodico nella Sicilia sotto l’occupazione americana, con quell’eroe che risponde al nome di Finocchiaro Aprile, e che venne prima ancora tacitato con la violenza da Mussolini, si pensi solo ai sardi (Lussu e altri).
Lo Stato centrale, ovviamente, nelle mani di generazioni di malfattori, applicò solo tardivamente la Costituzione – che è sempre stata una spina nel fianco per i delinquenti assisi in parlamento, che generalmente la ignorano o la violentano – e le Regioni cominciarono a funzionare solo nel 1970.
Ma indubitabilmente ci sono, e dovrà essere il Presidente di un Consiglio regionale a convocare il referendum per l’indipendenza, non vedo nessun altro che possa arrogarsi, o avocare a sé tale titolarità.
E nel momento in cui essa sarà ottenuta l’indipendenza, e solo allora, si potranno iniziare negoziati, con estrema cautela, con territori limitrofi interessati a far parte dello Stato Veneto piuttosto che di quello Lombardo, e così via. Geograficamente, almeno all’inizio, non vedo altra alternativa: i confini del Veneto Regione attuale saranno quelli del Veneto Stato, e il Consiglio regionale assumerà pieni poteri, in regime transitorio, in attesa che vengano studiate nuove e necessarie forme di governo.
La Costituzione, che pare essere il maggior nemico dell’indipendenza, potrebbe rivelarsi strumento collaterale, aggiuntivo, per il suo raggiungimento, per quanto paradossale ciò possa suonare. Che l’Italia non sia tanto unita dovettero riconoscerlo perfino i suoi unificatori, e poi ancora i suoi legislatori primi, in un contesto di democrazia faticosamente, e quanto faticosamente ottenuta!
Tanti costituenti non si erano temprati nell’arte di corruzione e concussione, tutta romana, ma in quella della guerra partigiana, non c’erano per loro le tette della Minetti dove appendere il Crocifisso, i balletti rosa con Lele Mora ed Emilio Fede, i balletti verdi dei leghisti, e tutte queste caricature di uomini e donne: c’erano per loro, o almeno molti di loro i mitra dei tedeschi, e dei repubblichini, le torture e l’esilio e la morte. Difesero certo (non tutti) uno Stato centrale, ma il loro problema non era quello di uno Stato centrale piuttosto che tanti piccoli Stati indipendenti, il loro problema era la libertà dall’invasore (ex-alleato) e dalla dittatura. Per tanti aspetti, fecero il loro meglio con la Costituzione. Ma, appunto, era il 1946-48, tre generazioni fa, o quasi. E molti tra i partigiani credevano, a destra e a sinistra, in uno stato meno centralizzato, auspicavano, con Einaudi, l’abolizione di province e prefetti, l’odiosa longa manus del governo centrale così rafforzata, ovviamente, dal regime fascista, il primo ad usare coscientemente il tricolore come velo per coprire, e glorificare, ogni malversazione e ruberia.
1971.
Legge 340 del 22 maggio. Altro non è che lo Statuto vigente della Regione Veneto. Più che predisporre l’indipendenza, pone chiari paletti onde essa non abbia mai a nascere. Eppure, all’articolo II, il legislatore va aldilà chiaramente dello spirito, delle finalità, e delle intenzioni di una legge dello Stato centrale: “L’autogoverno del popolo veneto si attua in forme rispondenti alle caratteristiche e tradizioni della sua storia.” Ora, l’autogoverno è minimo, la regione è un fantoccio nelle mani dei potentati romani, ma sorprende l’uso della locuzione “popolo veneto”. Chi appartiene ad esso? Perché fu inserita tale nozione? In mancanza di chiarimenti e di altri riferimenti legislativi, ci pare di intendere che il popolo veneto sia quello dei residenti in veneto; o, altrimenti, quello di coloro che sono nati in Veneto. Il legislatore lascia intendere questo. Ma soprattutto, dato il contesto, ritengo che l’interpretazione corretta sia quella che riferisce il “popolo” ai legalmente residenti. Insomma, dice il giovane Luca Schenato, “Veneto è chi il Veneto fa”. E in Veneto sta (legalmente). Ma sorprende ancora di più il fatto che il legislatore faccia riferimento a “caratteristiche e tradizioni della sua [del popolo veneto] storia”. Riconosce dunque che il Veneto, e i veneti, hanno tradizioni peculiari e perciò stesso diverse o solo parzialmente coincidenti con quelle degli altri italiani. Che a loro volta le hanno peculiari, per cui “caratteristiche e tradizioni della storia degli italiani…” non ci sono. Ci sono quelle dei sardi, dei lombardi, dei siciliani, dei liguri, dei piemontesi…
Sono le crepe della casa Usher che si chiama Italia-Stato. Il legislatore ha fatto un clamoroso lapsus, indicando in un testo legislativo “il popolo veneto”. Volente o nolente, ha riconosciuto un’entità che potrebbe e dovrebbe avere peso. Ma carta canta. Dura lex sed lex…Se avesse evitato quella paroletta, “popolo”, di significato profondo ed estremo e sinonimo di nazione, ma forse ancora più pregnante, “l’autogoverno del Veneto” avrebbe significato l’autogoverno di una Regione (abitata implicitamente da “italiani”).
Ma la parola c’è e le parole sono pietre, anche pietre miliari per la ricostruzione dell’indipendenza.
1977.
Legge 881, 25 ottobre. Ratifica ed esecuzione del c.d. patto di New York. Ovviamente, di diuturna elaborazione da parte italiana, visto che il patto di New York data 16-19 dicembre 1966. Undici anni dopo!
“Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”.
Ora, dal momento che la legge succitata del 1971 parla di “popolo veneto”, anche se l’autogoverno si riferisce tecnicamente alle materie risibili di competenza regionale, il combinato disposto, ad un livello semplificato ma che mi pare abbastanza corretto di interpretazione, delle due leggi dello stato, concede da un lato esistenza (giuridica) al popolo veneto, e ne prevede, di nuovo giuridicamente, anche l’autodeterminazione. Almeno in linea teorica, quando la volontà del popolo (cosa diversa concettualmente dal “popolo”) la desideri, a maggioranza più o meno qualificata (anche se personalmente credo che la maggioranza che fu stabilita per il Montenegro, il 55%, sia un abominio: la maggioranza aritmetica e naturale è il 50% più uno).
2006.
Legge 85, 24 febbraio. Finalmente il vecchio veto fascista e post-fascista che impedisce la libertà di parola in merito a possibili secessioni, indipendenze, etc., è abrogato. Prima del 2006 tutti coloro che scrivevano quel che vado scrivendo io ora, e tanti patrioti da tempo, assai prima di me e rischiando assai di più, avrebbero potuto perfino incorrere nell’ergastolo. Anche questa, è la realizzazione tardiva non di improbabili sogni liberali, o ideali indipendentistici, ma del dettato costituzionale: l’art. 21. Occorre dire, coevo all’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo:
“Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”
2012.
Il presidente della Regione Veneto, in un sussulto d’orgoglio visto che si suicida un veneto al giorno per la disperazione, indice un referendum, con legge regionale, in cui ogni cittadino residente in Veneto e di maggiore età viene chiamato ad esprimersi circa l’indipendenza. Anche in questo caso, posto che un minimo strappo sarà pur necessario nei confronti degli ordinamenti vigenti, prima di tutto proprio la Costituzione (o stratagemma, ma su questo invito ad un confronto Dal Col e Morosin soprattutto), siamo di fronte ad un (possibile) evento di portata epocale, ma da distinguere, concettualmente, in due distinte parti.
La prima: si tratterebbe, indipendentemente dall’esito, della prima volta (dopo il 1866) che il popolo veneto in quanto tale (non mescolato con quello italiano che non esiste se non come finzione) viene chiamato ad esprimersi circa il proprio futuro. Considerando che sono passati 146 anni, vi sarebbero monitoraggi internazionali etc., a garanzia dell’onestà delle procedure. Si chiamerebbe propriamente referendum, e non plebiscito. Quindi già di per sé, la sua convocazione sarebbe un momento grandioso per la storia del Veneto. Naturalmente, l’auspicio mio e degli amici di Veneto Stato è che trionfino i “sì” o almeno raggiungano il fatidico 50% più uno.
La seconda: l’esito. Un esito positivo porterebbe alla creazione di uno Stato Veneto, un esito negativo al rafforzamento italiano, un rafforzamento tale che farebbe procrastinare di molto, credo, l’indizione di un nuovo referendum. Si assisterebbe ad una grandiosa battaglia politica, dove verrebbero poste in campo argomentazioni di ogni tipo, e mobilitate grandi risorse, dall’una e dall’altra parte. Il referendum potrebbe anche avvenire dopo, pongo il 2012 evidentemente come data fondamentale perché storicamente credo che ci siamo, vista l’attuale situazione disastrosa. Si tratta di far uscire in tempo dall’acqua un insieme di popoli che sta annegando. Se li si tirerà fuori troppo tardi, moriranno sulla spiaggia, per quanto siano ancor vivi nel breve drammatico tragitto dalle onde alla battigia.
Ora, in conclusione, vorrei definire il senso di questo mio lungo intervento. Se l’indipendenza deve essere ottenuta, e la riteniamo l’unica salvezza dall’abisso di miseria, totalmente illiberale, in cui stiamo precipitando – miseria morale e materiale, trionfo del liberticidio – essa deve essere ottenuta, nei limiti del possibile, “con dolcezza e con riguardo”, come scrivevano i miei autori settecenteschi. Non ha senso, almeno per noi, almeno per me, andare al di fuori del diritto, soprattutto in uno stato di diritto, l’Italia: che è da sempre, o perlomeno da troppo tempo, nelle mani dei delinquenti che tale diritto violano per perseguire i loro interessi particolari, trasformando l’Italia, costruzione già di per sé storicamente debole, in un eccezione senza più regole.
Questo non vuol dire che gli accordi del 1866, la Costituzione del 1948, e leggi successive che ho citato siano una sorta di preparazione dell’indipendenza. Non lo sono affatto! Ma sapendole leggere, tra le righe, intrecciando lo sguardo dello storico (professionista) con quello del giurista (dilettante), vi sono elementi che giocano, a volte paradossalmente, a favore dell’indipendenza.
Poi, la si può ottenere per altre vie. Se facessi leggere tutta questa pappardella a Hashim Thacis, padre del Kosovo indipendente, forse mi direbbe, “Sì, bravo bravo, ma vieni qui che ti insegno a usare l’AK47”. Ma il Kosovo veniva da una situazione di guerra, e la sua indipendenza è stata di conseguenza ottenuta in modo piuttosto violento, anche se poi (quasi) universalmente accettata in modo legale, per quanto l’aggettivo si confaccia al diritto internazionale. Io credo che vi siano le circostanze, anche per il Veneto, per l’ottenimento legale dell’indipendenza. E allora occorre riflettere sulla storia giuridico-costituzionale che ho presentato per sommi capi qui. Non tutta l’Italia è Italia-Stato il nemico. Lo stato centrale è solo la sua degenerazione che purtroppo o per fortuna era già in (quasi) tutte le sue premesse.
Vi sono poi leggi pre-costituzionali, che invoca spesso l’avvocato Morosin, che risalgono alla fine al diritto naturale, alla libertà originaria degli individui, poi trasferita nella libertà dei popoli intesi come insieme di individui. L’incontro la tra le norme del diritto internazionale ora evocate, e fatte proprie dall’ordinamento italiano, volente o nolente, e quelle del diritto naturale da cui il diritto delle genti deriva, origina l’incontro di due fonti extra-nazionali, ma recepite parzialmente dall’ordinamento italiano, preparano la strada all’indipendenza, e la Costituzione italiana, con tutte le sue volontarie o involontarie (minime) aperture particolaristiche, le sue piccole crepe, può essere opportunamente evocata.
Ma quel che rimane davvero, di “una e indivisibile” dev’essere la volontà dei popoli, che nasce da una volontà originaria dell’individuo, cui si deve riferire la norma. Insomma il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato.

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