domenica 4 marzo 2012

Iran e futuro internazionale


Dopo il successo annunciato alle elezioni parlamentari, il leader supremo può dare corso al progetto reso finora impraticabile a causa della guerra di potere interna alla Repubblica islamica: rinuncia al nucleare in cambio del riconoscimento, inevitabilmente a discapito di Israele, di un ruolo di primo piano nel Grande Medio Oriente. E Obama accetterebbe.
Iran, la doppia vittoria di Khamenei e l’intesa possibile con Obama. La Guida prepara la mossa che può cambiare tutto.


La vittoria di Khamenei è di carattere bidimensionale. La prima dimensione attiene allo scontro con la variegata galassia pseudoriformista, alla quale è stato di fatto impedito di partecipare alla competizione elettorale. La partita contro il network di Rafsanjani, i seguaci di Moussavi, Karroubi e Khatami e il “movimento verde” si è giocata dunque sul piano dell’affluenza. I riformisti hanno inevitabilmente invitato a disertare le urne, atto che gli ayatollah vicini alla Guida suprema, i quali hanno intimato ai fedeli di recarsi a votare per compiere il loro “dovere religioso”, hanno bollato come “peccato”. Il dato dell’affluenza è più o meno in linea con le più recenti consultazioni elettorali. Come sembrano dimostrare anche alcune immagini diffuse dalla tv iraniana, dunque, la diserzione di massa non c’è stata. E questo è il primo successo di Khamenei
La seconda dimensione della vittoria della Guida suprema è invece relativa alla lotta, tutta interna al campo conservatore, tra i suoi seguaci e lo schieramento fedele ad Ahmadi-Nejad. Anche in questo caso, Khamenei ha centrato il suo obiettivo. Sottraendo la maggioranza nel Majlis alla fazione che sostiene il presidente iraniano, la Guida suprema ha infatti eroso le ultime basi del potere di Ahmadi-Nejad, il quale ha dovuto anche subire l’umiliazione della sconfitta della sorella minore Parvin nella città natale di Garmsar. Il peso politico di del presidente iraniano, il cui mandato (non più rinnovabile) scade l’anno prossimo, è ormai praticamente nullo
L’Iran, dunque, è sempre più il paese di Khamenei. Messi definitivamente fuori gioco i riformisti e reso inoffensiva la fazione conservatrice a lui ostile, la Guida suprema esercita un controllo pressoché totale sul sistema di potere della Repubblica islamica. Il che, paradossalmente, potrebbe essere il preludio a un allentamento delle tensioni tra Washington e Teheran. In questo momento, infatti, per gli Stati Uniti l’Iran è un rivale pericoloso ma gestibile che, con l’ottenimento dell’arma nucleare, slitterebbe verso una condizione di potenziale ingestibilità. Per evitare questo tipo di scenario, Washington ha seguito principalmente due corsi d’azione.
Il primo muove dal presupposto che il punto centrale della questione non è il programma atomico iraniano ma chi ne detiene le chiavi. Estromettendo gli attuali vertici della Repubblica islamica e rimpiazzandoli con un novello shah, magari lo “squalo Rafsanjani o chi per lui, gli Stati Uniti potrebbe tranquillamente accettare che l’Iran entri in possesso dell’arma nucleare. O meglio sarebbero costretti ad accettarlo, considerando che il programma atomico rappresenta ormai un pilastro del nazionalismo iraniano rivendicato anche da quei leader del movimento verde che Washington vorrebbe mettere al posto di Khamenei e dei suoi accoliti. In sostanza, l’opzione del regime change consentirebbe di trasformare l’Iran da potenziale rivale pericoloso e ingestibile in un alleato pericoloso ma gestibile.
Il secondo corso d’azione, non cumulabile con il primo perché compatterebbe la popolazione iraniana attorno al regime, consiste invece nell’“indurre” Teheran a rinunciare al programma nucleare. Un’eventualità che, allo stato attuale, sembra non poter essere raggiunta né per via negoziale né attraverso le sole operazioni coperte – attacchi cibernetici e omicidi mirati – già in corso da tempo. D’altra parte, non esiste nessuna garanzia che un’operazione militare contro i siti nucleari iraniani – la quale, peraltro, provocherebbe una reazione asimmetrica da parte dell’Iran capace di mettere a serio rischio i principali interessi geopolitici americani nel Grande Medio Oriente – possa conseguire l’obiettivo di stroncare le ambizioni nucleari di Teheran.
La schizofrenia geopolitica degli Stati Uniti - la cui strategia non tiene conto della contraddittorietà dei corsi d’azione perseguiti e, soprattutto, delle risorse per portarli a termine – non è però l’unica ragione della fase di prolungato stallo nella partita iraniana, tavolo principale del  Grande Gioco mediorientale. Allo standoff, infatti, hanno contributo anche le divergenze tra Khamenei e Ahmadi-Nejad sulle questioni centrali della geopolitica iraniana – il programma nucleare e le relazioni con gli Stati Uniti. Com’è noto, mentre il primo non intende muoversi di un millimetro dalla politica di ostilità nei confronti degli Usa ma sarebbe disponibile a cedere sul programma nucleare in cambio del riconoscimento, sia pure informale, di un ruolo di maggiore influenza nel Grande Medio Oriente, il secondo ha cercato – con scarso successo perché ormai impresentabile in Occidente – di promuovere una politica di apertura a Washington mantenendo però ferma l’intenzione di proseguire il programma atomico.

Sulla politica estera l’ultima parola spetta alla Guida suprema, ma fino a questo momento Khamenei non ha potuto perseguire fino in fondo la sua strategia per ragioni legate agli equilibri di potere interni. Come si è detto, infatti, il programma nucleare è divenuto una sorta di totem dell’orgoglio nazionale iraniano. Cedere su questo punto, dunque, significherebbe regalare ad Ahmadi-Nejad e ai suoi sponsor un efficacissimo argomento di propaganda. Ora che la Guida suprema ha messo fuori gioco tanto la fastidiosa opposizione quanto l’insidiosa creatura da lui stesso creata, le cose potrebbero però cambiare.
Pur non avendo mai messo il naso fuori dall’Iran, Khamenei ha una visione geopolitica molto meno ristretta di quello che sembra. La Guida suprema iraniana è infatti perfettamente consapevole che dal punto di vista pratico il programma nucleare è un bluff, dal momento che ci vorrebbero secoli perché Teheran possa anche solo pensare di pareggiare il conto con le centinaia di testate a disposizione di Israele. Senza contare che le altre potenze regionali – cioè la Turchia e l’Arabia Saudita, che di fatto cogestisce le bombe pakistane – potrebbero facilmente recuperare il divario accumulato con l’Iran sul piano del nucleare grazie all’aiuto dell’Occidente.

Ora che non deve più temere trappole da parte dei riformisti e degli (ex) fedelissimi di Ahmadi-Nejad, molti dei quali molleranno quanto prima il presidente per allinearsi alla Guida suprema, Khamenei potrebbe essere pronto alla mossa che prepara da tempo. Una mossa suscettibile di rivoluzionare i paradigmi stessi della geopolitica mediorientale e, quantomeno informalmente, ribaltare le alleanze e le rivalità più consolidate.

La posta in palio
Un’eventuale rinuncia dell’Iran alla dimensione militare del suo programma nucleare (dimensione che Teheran ammette implicitamente non consentendo agli ispettori dell’Aiea di vistare i siti più controversi) darebbe vita a un effetto domino la cui principale conseguenza sarebbe quella di segare le gambe alla propaganda anti-iraniana delle lobby israeliane negli Stati Uniti. Le ambizioni nucleari di Teheran, infatti, non sono altro che uno specchietto per le allodole funzionale a distrarre l’attenzione dalla vera posta in palio della partita iraniana: il ruolo rispettivo di Gerusalemme e Teheran nell’equazione geopolitica panmediorientale. Israele usa infatti il programma nucleare iraniano come arma di ricatto nei confronti di Obama, la cui amministrazione è la meno filo-israeliana della storia americana recente, per cementare un altrimenti traballante “relazione speciale”.

Al di là della retorica, infatti, la principale minaccia agli interessi americani nel Grande Medio Oriente non è il programma atomico dell’Iran ma la sindrome autodistruttiva che pervade la leadership israeliana. Una sindrome che grazie alle perverse dinamiche elettorali statunitensi – le quali consentono al primo ministro israeliano Netanyahu di svolgere il ruolo di leader repubblicano al Congresso – rischia di trascinare nel baratro anche gli Stati Uniti di Obama, il quale, pur se controvoglia, è stato più volte costretto ad arrendersi alla potenza di fuoco delle lobby israeliane.

Con una sola mossa tattica, dunque, Khamenei centrerebbe due obiettivi strategici: svelare le crepe che da tempo incrinano la “relazione speciale” israelo-americana e, proprio per averlo liberato dalla morsa di Gerusalemme, contrarre un colossale credito geopolitico con il presidente Obama. In termini pratici, ciò significherebbe assicurarsi un posto d’onore al tavolo dove si gioca la partita mediorientale pur mantenendo una politica regionale ostile agli interessi americani nella regione. Uno scenario reso possibile dal fatto che per gli Stati Uniti riconoscere un ruolo di maggiore influenza a un rivale pericoloso ma (ancora) gestibile è pur sempre meglio che farsi trascinare in un conflitto dagli esiti difficilmente prevedibili da un alleato pericoloso e ingestibile.
 
 
 

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