Qualche giorno sono stati diffusi gli ennesimi, catastrofici dati sul mercato del lavoro nostrano. Secondo l’Istat, in Italia «ci sono 3 milioni di “inattivi”, persone che non cercano lavoro ma sarebbero disponibili a rimboccarsi le maniche». Si tratta del “record” dal 2004. Repubblica ha scritto che «se si sommano questi individui con i disoccupati in senso stretto, sono circa 5,8 milioni gli italiani senza un impiego». Per completare il quadro, Fabio Panetta (vicedirettore della Banca d’Italia) ha avvertito che dal 2007 «si sono persi 7 punti di Pil e 600 mila occupati».
Insomma, la situazione è oggettivamente drammatica, la recessione picchia sempre più duro e nessuno sa veramente come uscirne. O meglio: quasi nessuno.
Il 15 aprile su Corriere.it è apparso un mirabolante articolo intitolato “Lavoro, mancano 6 mila pizzaioli. Consigli Fipe: «Giovani, pensateci»”, in cui Enrico Stoppani (presidente del Fipe, una federazione di esercenti affiliata a Confcommercio) lanciava un accorato allarme: ci sono 6000 posti vacanti da pizzaiolo – e i giovani li schifano.
Sa qual è il problema? I nostri giovani la percepiscono come una professione a basso valore aggiunto. Anche chi frequenta l’alberghiero opta per la vita di chef nei grandi alberghi. Ma il vantaggio di imparare a fare bene la pizza è quello di trasformarsi da subito in imprenditori di se stessi.
L’assunto alla base del pezzo è che le abitudini alimentari degli italiani stanno cambiando: ora la pizza si mangia anche a colazione. Di converso, la «domanda di pizza» non può che crescere esponenzialmente. Sarà. Fatto sta che «i più lesti a capire il radicale cambiamento dei consumi sono stati gli egiziani, ormai i più bravi anche nell’impasto e nella vendita del prodotto». Et voilà: i pigri, ingrati (giovani) italiani sono riusciti a farsi scippare dai «lesti» egiziani persino la pizza.
L’articolo è praticamente una variazione di un Buongiorno di Gramellini di due anni fa, con i pizzaioli al posto dei panettieri. All’epoca, l’Illuminato Corsivista aveva raccolto con penna lievemente indignata le lamentele dell’Unione Panificatori di Roma, alla disperata ricerca di «trecento ragazzi disposti a fare il pane per duemila euro al mese». Le argomentazioni di Gramellini sono piuttosto simili a quelle del Presidente del Fipe:
Al di là degli orari infelici, il problema di certi mestieri resta la loro scarsa considerazione sociale. È una delle follie di questo capitalismo finanziario, per fortuna malato terminale: il disprezzo per i lavori che producono beni materiali e richiedono uno sforzo fisico diverso dal tirare calci a un pallone.[…] Ora, mi spiegate perché uno che passa otto ore davanti al computer, a fare nemmeno lui sa cosa, dovrebbe sentirsi più elevato socialmente di un altro dalle cui mani escono cose tangibili: un vestito, una scarpa, una pagnotta?
In realtà, le cose non stavano esattamente così. Come ha dimostrato Valigia Blu, «più di una caterva di posti da panettieri a duemila euri al mese», esistevano (ed esistono) «una caterva di corsi per pizzaioli/pasticceri/barman a pagamento». Corsi, per inciso, la cui funzione primaria è quella di lucrare sulla disperazione ed il precariato del giovane che «passa otto ore davanti al computer».
Questi due articoli non sono casi isolati. Anzi, rientrano appieno nella narrativa giornalistica del «Giovani Snob Istruiti & Lamentosi Che Vogliono Diventare Novelli Gordon Gekko (O Professoroni) E Non Azzardano A Sporcarsi Le Mani» – un sottogenere che, da quando è iniziata la crisi, ha letteralmente spopolato presso tutte le redazioni dei Giornaloni italiani.
L’apice si è probabilmente raggiunto qualche mese fa, con una serie di articoli imbarazzantisull’audace operazione di rebranding di McDonald’s Italia. Il messaggio era univoco: lavorare in questa «fabbrica post-moderna» degli anni ’10 è una figata assurda, con tanto di assunzioni a pioggia, contratti stabili e regolari, «cultura ispirata alla stabilità del lavoro» ed una «forte mobilità sociale all’interno dell’organigramma del gruppo».
Per provare a convincere gli scettici McDonald’s aveva anche commissionato uno strombazzatissimo spot al regista Gabriele Salvatores, in cui i “dipendenti” – naturalmente tuttigiovani, bellissimi e con i denti bianchi candidi – sorridevano entusiasti per la grande opportunità di lavorare in un’azienda che crede nel Sistema Italia.
Peccato che, anche in questo caso, la realtà si sia messa di traverso. Alla fine di marzo i lavoratori di diversi McDonald’s in Campania (Napoli, Afragola, ecc.) hanno scioperato per due volte nell’arco di una settimana per protestare contro il mancato rispetto da parte della Napoli Futura (società partecipata al 50% da McDonald’s che gestisce i dipendenti campani) «degli accordi sottoscritti riguardanti il blocco dei trasferimenti del personale».
Il sito ClashCityWorkers, inoltre, ha riportato una storia parecchio diversa da quella raffigurata nello spot:
Le lavoratrici con cui abbiamo parlato lamentano un controllo asfissiante “da Gestapo” durante le ore di lavoro, mansioni che vanno ben oltre quelle previste dai contratti, come ad esempio la pulizia dei bagni, e come ci dicevano loro “Non solo lavoriamo, in maniera onesta, sempre col fiato sul collo, poi veniamo pure penalizzati; qua già mi chiamano “paladina della giustizia” solo perché oggi sono qui a scioperare.”
E ancora:
Dalle chiacchierate con lavoratori e lavoratrici emerge però anche altro che macchia non poco il mondo patinato di McDonald’s. Lavoratrici costrette a svolgere contemporaneamente diverse mansioni (addette alle patate, alle bibite e alla cassa), con ciò che si può immaginare in termini di rispetto delle condizioni igieniche. Mancato rispetto dei minimi di riposo tra un turno e un altro, con la violazione palese dei termini normativi. Tante ore di straordinario e di ferie arretrate e non godute (che l’azienda ha cominciato a costringere a ‘godere’ secondo i suoi desiderata, vale a dire soprattutto nei periodi di calo della clientela).
(leggi anche questa testimonianza comparsa su queste pagine il primo giorno di pubblicazione di MenteCritica 11 marzo 2007)
Se letti in leggera controluce, questi pezzi su panettieri, pizzaioli, friggitori di patatine e <inserire qui mansione “umile” e “snobbata”> sbattono in faccia al lettore un fastidiosissimo pauperismo d’accatto e, come giustamente ha osservato l’amico Matteo Pascoletti, essenzialmente scaricano i problemi su chi li subisce. Il frame è sempre lo stesso: «Sei disoccupato? Allora sei stronzo, ed è solo colpa tua».
Non è sempre stato così. In Precari. La nuova classe esplosiva, Guy Standing afferma che nell’epoca pre-globalizzazione la disoccupazione «era considerata come il frutto di fattori economici e strutturali, per i cui i disoccupati erano persona sfortunate, capitate al posto sbagliato nel momento sbagliato». Se si guardano i dati citati all’ inizio dell’articolo, è impossibile pensare che quasi 6 milioni di persone abbiano fallito così miseramente nello stesso momento storico.
Eppure questo è quello che cercano di farci ingoiare a forza da anni e anni. Scrive Standing:
Nello schema neoliberista, la disoccupazione è diventata una questione di responsabilità individuale, quasi che fosse “volontaria”. Si sono cominciate a valutare le persone in termini di “impiegabilità”. […] L’immagine del disoccupato è radicalmente mutata; egli è dipinto ormai come un individuo “non impiegabile”, vittima dei suoi stessi sbagli e per di più incapace di accontentarsi di un lavoro o del salario che gli si offre.
In tutto ciò, la cosa più grottesca è che quella del disoccupato, sempre secondo Standing, è diventatata un’”attività” che «rientra a pieno titolo nei processi di terziarizzazione»:
Molti sono i suoi “luoghi di lavoro”, dalle agenzie di collocamento agli uffici della pubblica assistenza, alle aule di formazione, e molto è l’impegno finalizzato al lavoro che devono assolvere: compilare moduli, fare la coda agli sportelli, spostarsi come “pendolari” tra uffici, agenzie, aule, ecc. La condizione di disoccupato diventa un vero e proprio lavoro a tempo pieno e richiede flessibilità, dal momento che occorre essere quasi sempre pronti e disponibili. Solo a fini politici si può ritenere “ozioso” il tempo che un disoccupato trascorre anche soltanto nella tormentosa, interminabile attesa che giunga una telefonata.
La “rivoluzione culturale” che si sta compiendo sulla pelle di precari e disoccupati non potrebbe essere più devastante. Obbligati ad accogliere in tutto e per tutto le «forze del mercato» come propria guida, precari e disoccupati devono essere «infinitamente adattabili alle loro esigenze» e non farsi troppe domande. C’è un posto da panettiere? Buttati. Non sai fare la pizza? Impara. Non riesci a smuovere quella zolla? Muovi il culo. Non sai usare trapano e chiave inglese? Applicati. Sei scoraggiato? Sei un fallito – e aggiorna quel cazzo di curriculum. Vuoi studiare? Lascia perdere: il mercato ritiene che sia inutile. Stai per caso aspettando una telefonata di risposta per le attività appena elencante qui sopra?
Rassegnati, non arriverà. Lo dice il mercato.
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