Eris entra di lato. Da un angolo morto non sorvegliato.
Non picchia: innesca.
La sua arma non è la spada, è il gesto minimo che costringe tutti a mostrarsi.
Sceglie i margini perché lì i sistemi rivelano le cuciture.
Le sue sorelle sono fame, dolore, menzogna, giuramento tradito: lei lavora dove questi difetti trovano varchi.
Al banchetto di Peleo e Teti non è invitata.
Non fa scenate, non rovescia tavoli.
Appoggia una mela d’oro con tre parole: alla più bella.
È una bomba cortese. Era incarna la legge, Atena l’intelligenza, Afrodite il desiderio.
Nessuna può cedere senza sentirsi diminuita.
Zeus rifiuta di giudicare: sa che qualunque verdetto incrinerebbe l’architrave.
Passa la palla a un pastore che non sa che sta portando sul prato i destini di due città.
Ermes accompagna.
Le tre offerte non sono fiori: sono mondi.
Potere. Vittoria. Amore.
Paride sceglie Afrodite. Il premio è Elena.
La scia è Troia in fiamme. Eris lo sa, non perché odia: perché osserva.
La mela è un promemoria universale, basta una scintilla a trasformare rivalità latenti in guerra civile.
I poeti antichi hanno visto il suo paradosso.
Per Esiodo esistono due Discordie.
La prima lacera e gode del sangue.
La seconda punge e obbliga a fare meglio.
Una urla e chiama branchi. L’altra sussurra e moltiplica officine.
Quando la città confonde competizione e odio, vince la prima; quando tiene separate le due strade, la seconda fa scuola.

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