mercoledì 13 marzo 2024

DENNIS BERGKAMP

 



Erano dribbling filosofici. Di chi, dopo una finta che sbilancia l'avversario, pone una domanda senza risposta: che ci faccio qui? Dennis Bergkamp, il calcio come aggraziata lezione di stile che scivola nel manierismo. Durante la permanenza a San Siro il tacchino freddo non smise mai di chiederselo. "Sono stressato" disse, ed erano passati solo due mesi dal suo arrivo all'Inter. Fu pagato 60 miliardi, comprensivi di altro pacco: il compagno Jonk. "Gioco così male che non mi riconosco più", i mesi erano diventati tre. Bergkamp aveva l'aria del valletto in un film di James Ivory: raffinatissimo dal punto di vista formale, stilisticamente perfetto ma inutile alla causa. Fine, lieve, dal tocco vellutato della mezzapunta borghese, il tulipano appassito di spleen giocava un calcio colto, sottilmente ambiguo, suadente, allusivo, di matrice letteraria quasi. Poteva andare d'accordo con Osvaldo Bagnoli, naso arricciato da gregario, berrettone di lana che manco nelle bocciofile si usava più e infanzia alla Bovisa, Milano operaia? Poteva andare d'accordo con uno che aveva vinto lo scudetto a Verona con Ciccio Garella detto Garellik, l'unico portiere al mondo che parava senza mani, con voli sghembi e letteralmente col culo? Non poteva. "Solo sono una vittima", disse andandosene (te pareva). Fu ceduto all'Arsenal per 19 miliardi e 213 milioni. In Inghilterra divenne un idolo, vinse molto, giocò fino ad età da geriatrico e per anni continuò a regalare i suoi dribbling filosofici a chi preferisce le domande alle risposte.

Facebook 

Nessun commento:

Posta un commento