mercoledì 27 marzo 2024

Chuck Wepner

 


"Se io riesco a reggere la distanza e se quando suona l'ultimo gong io sono ancora in piedi, se sono ancora in piedi io saprò per la prima volta in vita mia che non sono solo un bullo di periferia"


Questa frase del Rocky Balboa di Sylvester Stallone in realtà veniva da un pugile vero, ne rappresentava percorso, vita, fortuna e cadute. Perché la vita a volte è veramente mille volte più folle di un film. Questo film, come quello dello Stallone Italiano, comincia in una periferia, con un bullo, un pugile, se non fallito, perlomeno ben poco stimato, uno di quelli che finiscono nelle undercard, fanno da trampolino, vengono pagati poco e quasi sempre finiscono male. Siamo fuori New York, siamo nel quartiere malfamato di Bayonne, nel New Jersey. Lì, era nato un ragazzone mezzo tedesco, mezzo ucraino e mezzo polacco, che fin da ragazzino si barcamenava con cento mestieri diversi, ma soprattutto faceva quello che si faceva (e si fa) per le strade di Bayonne: a botte. Chuck Wepner era uno che non si tirava indietro. Mai. Anche a costo di lasciare denti, sangue, pezzi di carne per strada. 


Era un armadio di 196 centimetri, sgraziato, poco elegante, dal fisico un pò bombato, ma dalla tempra di acciaio. Per sbarcare il lunario faceva il buttafuori nei locali del suo quartiere ma soprattutto (proprio come il personaggio di Stallone) non si era mai negato qualche intrallazzo con la criminalità irlandese e italiana che abitava in quei posti. Era il bullo di Bayonne, il Maciste del quartiere e vuoi per una cosa, vuoi per l'altra, aveva deciso di fare il pugile. Due piccioni con una fava in fin dei conti. Da pugile lui continuava a combattere come faceva per strada: era un rissaiolo, un fighter, uno di quelli sporchi, brutti, cattivi e sovente poco puliti che nessuno vuole vedere su un ring, né avversari né pubblico. Ma quando arrivava l'avversario di caratura superiore, gli andava sempre male. Perse con Buster Mathis, perse con Jose Roman, perse contro Joe Bugner, prese una marea di botte contro Sonny Liston e George Foreman.Tutte le volte per ko tecnico, perché l'arbitro o il medico dicevano che poteva bastare il sangue versato, ma lui a terra rifiutava di rimanerci, non mollava.


A fine carriera solo il grande Vito Antuofermo avrebbe collezionato più punti di sutura di lui: 329 per Chuck, 359 per Vito. Il che se uno ci pensa non è proprio il massimo della vita. Anche per questo si era guadagnato il soprannome de "il Sanguinolento di Bayonne". Ma non è che la cosa gli andasse a genio, anzi odiava venire chiamato così per strada, perché lo faceva sentire come si sentiva ogni volta che si guardava allo specchio: un perdente, una mezza calzetta, che non avrebbe mai fatto nulla nella vita. Chuck continuava ad inseguire il sogno: avere una chance per il titolo. Riuscì col tempo a mettere qualche bel nome nel carniere, ma l'occasione non arrivava. La sera in cui il mondo assistette attonito al miracolo di Kinshasa, al Rumble in the Jungle con cui Ali batteva Big George, lui era l'unico né in estasi, né arrabbiato. Era avvilito, era depresso come non mai. Aveva già un contratto per un match contro Foreman, che tutti davano per favorito. Sarebbe stata l'occasione di fare un pò di soldi e contendere una cintura da Campione del Mondo, per farsi conoscere. Pensò di mollare, si butto nella piccola criminalità, nel recupero crediti, mise corna su corna alla povera moglie, litigò col fratello e con gli amici del quartiere.


Poi arrivò la chiamata: era Don King che offriva ad "The Greatest" l'occasione di fare un match "tranquillo", e a Chuck di prendere un po' di soldi, ad entrambi la sua abilità nel promuovere il match. Solo Chuck ci credeva, solo lui pensava di potercela fare. "Non porti una Ford ad Indianapolis" commentava cinica la moglie. Ma lui dentro sentiva di essere una Mustang. 100mila dollari. Tanto era la sua borsa. Era più di quanto avesse mai visto in vita sua. Il 24 marzo 1975, Alì sollevò un sopracciglio notando che quel gorillone mezzo pelato era un pò più in forma di quanto pensasse. Il Campione cominciò lentamente, poi alzò il ritmo, tempestando di colpi il testone e il volto di Chuck, che però non dava segno quasi di sentire i colpi. Ogni tanto, quando gli arrivava vicino, azzardava qualche confuso attacco. Spesso eran colpi di striscio o poco puliti, altre volte colpi dietro la nuca, sulla schiena, era il suo stile, lo stile della strada. Poco sportivo ma del resto si sapeva. Mirava a fare il miracolo? No, mirava a dimostrare a tutti che si sbagliavano, che non era un perdente. Paura? Non ne aveva il tempo. "Per tutta la vita" aveva detto prima del match "sono stato un sopravvissuto. Sopravviverò anche ad Alì". Lo stava facendo. 


Alì cominciò a gigioneggiare, quasi annoiato, poi al 9° round, successe qualcosa che nessuno si aspettava. Chuck fece partire un largo gancio al corpo, sorprendendo Alì, prendendolo per una volta in controtempo. E Il Labbro di Louisville finì a terra. Il Palazzetto diventò una bolgia, Howard Cossell quasi non riuscì a farsi sentire dai telespettatori. Prima di Chuck, solo gente del calibro di Smokin' Joe Frazier o Sir Henry Cooper OBE avevan atterrato il Campione del popolo. Wepner si voltò e gridò al suo Manager di andare a prendere la macchina che la banca li aspettava, "siamo milionari cazzo!". Al Braverman, vecchia volpe irlandese, gli disse di voltarsi. Alì era in piedi, torvo, pallido di rabbia sotto la pelle d'ebano. Per le successive 6 riprese, sottopose Chuck ad un bombardamento impressionante, gli aprì tagli ovunque sul volto, deciso a metterlo al suo posto. Quello del perdente. Ma Chuck rifiutava di andare giù. A 19 secondi dalla fine dell'ultimo round, il corpo di Chuck decise che poteva bastare e il gorillone di Bayonne cadde a terra. L'arbitro approfittò per fermarsi al "7" del conteggio e decretare il ko. Alì stramazzò al suolo, esausto, mentre Chuck veniva sorretto dal suo angolo e sommerso dagli applausi di un pubblico stupefatto. 


Alì fu tentato di dargli il rematch, visto che si parlava troppo di quel viso pallido, ma poi lasciò perdere, non voleva un altro match con un pugile così sporco e strano. Dopo l'incontro, l'autostima fece un brutto scherzo a Chuck che cominciò a credersi il Dio di Bayonne. Gli dissero che un giovane regista ed attore, un certo Sylvester Stallone stava facendo un film dopo aver assistito a bordo ring al suo match. Dicevano lo volesse intitolare "Rocky" o una roba così...non volle saperne percentuali e accettò i 100mila dollari che gli furono offerti per il consenso sui diritti. Sperava di aver una particina nel film ma non se ne fece nulla, la cocaina lo stava già mangiando in testa. Divorziò dalla moglie, andò in depressione quando fu fatto notare che in realtà Alì forse era più caduto perché gli aveva tenuto fermo un piede che per il colpo. Per strada, la sua reputazione di duro, di "eroe americano" ne fu intaccata, il che lo rese ancora più rabbioso. Fu arrestato e condannato per spaccio di lì a qualche anno.


Tuttavia il tempo passato in gattabuia ebbe un buon effetto su di lui, gli fece capire che doveva mettersi in riga. Uscito infine per buona condotta, mise le cose in ordine con la famiglia e il fratello, si trovò una seconda moglie, aprì un'enoteca. Sulla sua incredibile e genuina vita nel 2016 è stato tratto Chuck - The Film con Liev Schreiber nei panni del Sanguinolento di Bayonne, di quel match che diventò un film che diventò leggenda. Da 49 anni quello strano incontro affascina e cattura la nostra immaginazione, rappresenta quella possibilità di riscatto che non passa per la vittoria ma per dimostrare che non siamo condannati, che nulla è scritto, che c'è sempre la possibilità di dimostrare a noi stessi qualcosa. Lui, Chuck Wepner, pugile scarso di tecnica ma non di cuore, casinista inguaribile, guerriero sempre insanguinato, brutto come la fame, rimane a modo suo uno di quelli da cui prendere esempio.


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