lunedì 14 aprile 2014

Uno sguardo diverso sul lavoro

Abbiamo bisogno di mettere in discussione il modo tradizionale di guardare la crisi occupazionale. Un’analisi di Alberto Castagnola, altereconomista, utilizza i dati messi in circolazione dai grandi media per mostrare limiti e contraddizioni delle ricette imposte dagli ultimi governi e per suggerire alcune possibili alternative. Un punto di vista interessante nei giorni in cui in parlamento arrivano le misure relative al lavoro del governo Renzi
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di Alberto Castagnola
  1. A cosa serve questa analisi
Questa sommaria analisi della situazione occupazionale e del precariato, nonché delle più diverse iniziative volte a creare posti di lavoro anche al di fuori delle dinamiche del sistema economico tradizionale, cerca di aprire delle prospettive di azione ai movimenti di base che sono sempre più preoccupati dalla palese difficoltà che il sistema dominante incontra ad uscire dalle crisi. E’ ormai evidente che la forte carenza dal lato dell’offerta di posti di lavoro è destinata a protrarsi ancora per molti anni e che è quindi urgente aprire nuove strade per mettere in atto iniziative capaci di creare e garantire nel tempo dei posti di lavoro regolarmente retribuiti.
Destinatari di queste informazioni sono le molteplici esperienze economiche e culturali che con una forte carica di creatività operano per avviare e moltiplicare attività di rilievo economico e sociale, capaci di contribuire, anche se in misura ancora limitata, a una offerta alternativa di posti di lavoro. Il quadro delineato utilizzando al massimo i dati messi in circolazione dai grandi mezzi di comunicazione – e quindi noti al mondo politico e alle sedi decisionali ma quasi completamente ignorati o respinti – evidenzia molte esperienze e iniziative che potrebbero servire a impostare strategie occupazionali fortemente innovative ma che i recenti governi hanno preferito disattendere, con la speranza che un serio dibattito possa finalmente emergere.
  1. La povertà è in aumento
Il 10% delle famiglie, quelle più ricche, deteneva nel 2012 il 46,7 della ricchezza nazionale, rispetto al 44,3% del 2008. All’altro estremo, nel 2012, le persone in povertà relativa erano il15,8% della popolazione, cioè nove milioni, 563.000; quelle in povertà assoluta l’8%, cioè 4 milioni, 814.000 persone. Nel complesso, una famiglia su due vive con meno di 2000 euro al mese.
Infine è da notare che anche gli occupati hanno visto diminuire il loro reddito: il 12 % di coloro che ancora hanno un posto di lavoro non riesce ad arrivare alla fine del mese, ciò significa che due milioni e 640.000 persone vivono in una condizione di sostanziale povertà, solo in Romania e in Grecia questo fenomeno ha colpito più duramente le popolazioni.
  1. Disoccupazione mai così alta dal 1977
 In un solo mese, lo scorso novembre 2013, sono scomparsi  57.000 posti di lavoro, in un anno 448.000. I disoccupati sono così arrivati a quota 3 milioni e 254.999 unità portando il tasso complessivo a 12,7% del totale della forza lavoro. E’ il peggiore degli ultimi 36 anni, dal 1977, quando vennero introdotte dall’ISTAT le serie storiche trimestrali. Livelli altissimi sono stati raggiunti anche dalla disoccupazione giovanile, arrivata alla cifra del 41,6%, quasi uno su due, dei ragazzi di età compresa tra i 15 e i 24 anni, al netto degli studenti, non ha un impiego e vive con le risorse della famiglia.
Ancora, secondo l’Istat, i giovani inattivi sono complessivamente 4 milioni e 424.000 e ciò significa che sono aumentati di quasi il 2% nell’arco di un anno. Nello stesso periodo, tra coloro che hanno perso il loro posto di lavoro, la crisi colpisce soprattutto gli uomini (più 17,2%) rispetto alle donne (più 6,1%). In sei anni sono state erogate 5,4 miliardi di ore di cassa integrazione, anche se nell’ultimo anno è stato registrato un leggero miglioramento (1,4%) dovuto in gran parte alla ordinaria e a quella in deroga, mentre è salita del 19% quella straordinaria. Quasi 2 milioni le domande di disoccupazione negli ultimi undici mesi, con una crescita del 32,5%.
In termini concreti, dal 2010 al 2012, le retribuzioni medie sono diminuite costantemente, passando da 1328 euro a 1264 al mese. Alla fine di questo biennio un lavoratore con 13 mensilità si è trovato in tasca 832 euro in meno. Inoltre alla fine del 2013, i sindacati, oltre a denunciare la scomparsa di 75.000 posti di lavoro nell’ultimo anno, anno, hanno stimato che almeno altri 36.000 sono già a rischio.
  1. Le previsioni occupazionali
green_job_web400--400x300Inizia la Cgil nel giugno del 2013, presentando delle estrapolazioni abbastanza rigide ma che danno come risultato almeno 13 anni di tempo per tornare al reddito nazionale del 2007 e molto, molto più tempo, 63 anni, per tornare ai livelli occupazionali precedenti alla crisi e che all’epoca non erano certo di piena occupazione.
Alla fine del mese di  gennaio 2014 viene diffuso dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro il Rapporto sui “Global Employment Trends 2014”, con i dati più recenti sull’occupazione e sulle previsioni che la riguardano. Nel 2013 i disoccupati nel mondo erano 202 milioni, 5 milioni in più dell’anno precedente; nel 2018 aumenteranno di altri 13 milioni. Sarà cioè una jobless recovery, cioè una ripresa che non produrrà nuova occupazione, aumentando precarietà, inoccupazione, disoccupazione e l’enorme fenomeno dello scoraggiamento, cioè del numero di coloro che smettono di cercare lavoro, convinti di non avere nessuna possibilità di trovarne. Solo in Italia quest’ultimo  fenomeno riguarda almeno 3,3 milioni di persone, oltre il 13 % della forza lavoro. Secondo le proiezioni di questo rapporto” sarà necessario più di un decennio prima che i tassi d disoccupazione ritornino ai livelli pre crisi”
La società di analisi dell’economia reale prevede che il Pil tornerà ai livelli del 2007 non prima del 2022-23, e la disoccupazione non prima del 2025 (al livello del 7,7%), quindi 18 anni dopo. Forse si dovrebbe dedicare molta più attenzione alle recenti dichiarazioni di Larry Summers, noto economista americano, che ha previsto senza esitazioni che il sistema economico internazionale abbia di fronte un periodo di stagnazione, che per il sistema dominante significa la fine dei meccanismi di accumulazione e di ogni dinamica di sviluppo.
  1. Segmenti specifici di disoccupazione
Particolare rilevanza hanno, nella situazione italiana, alcune sacche di disoccupazione pregressa oppure alcune categorie di licenziati di categoria elevata, ma non per questo risparmiati dalla crisi. Il primo fenomeno riguarda i 14.000 precari utilizzati per la pulizia delle scuole, che alla fine del mese di gennaio rischiano di restare senza lavoro a causa dei tagli previsti fin dal 2010 ai bilanci delle scuole. A questi si possono aggiungere, specie nelle regioni meridionali, gli LSU, lavoratori socialmente utili, i precari dei servizi forestali e così via. Alcune stime parlano di circa centomila persone a rischio disoccupazione,  per le quali non sono ancora previste delle soluzioni legislative ed economiche.
L’altro fenomeno riguarda il numero di dirigenti e manager che hanno perso il posto di lavoro a seguito della chiusura dell’impresa o delle misure di ristrutturazione. Secondo i calcoli delle associazioni di categoria, in tre anni il loro numero è diminuito del 54%, cioè si è più che dimezzato. Nel 2012 erano un milione e seicento mila, a metà del 2013 erano 769.000, più di novecento mila  posti di lavoro perduti. Inoltre sono rimasti al lavoro i più anziani, così che i dirigenti sotto i 40 anni sono il 27% del totale, mentre il rapporto tra gruppi di dirigenti secondo l’età dovrebbe essere quasi di uno a uno tra senior e junior.
Un altro aspetto, apparentemente solo quantitativo, caratterizza i meccanismi finora messi in moto per agevolare l’incontro tra posti liberi e chi cerca lavoro. I centri per l’impiego,  che hanno sostituito gli uffici di collocamento, per funzionare hanno assunto quasi 10 mila persone, è trovano un impiego a circa 35.000 persone in un anno, con un spesa complessiva di circa 13.000 euro a persona inserita in una struttura produttiva o di servizi. Inoltre soltanto il 2,2% delle imprese assume passando attraverso i centri per l’impiego e questa percentuale  è meno della metà nelle regioni meridionali. Questa modesta cifra nazionale è di poco superiore  alla quota di assunzioni che avviene tramite la stampa specializzata  (1,5%) e molto inferiore a tutte le altre strade: società per il lavoro interinale ed internet (5,2%), banche dati aziendali (24,4%) e alle segnalazioni di conoscenti e fornitori (63,9%). Siamo quindi in presenza di uno strumento pubblico che andrebbe accuratamente rivisto.
Infine, si hanno i primi risultati di una misura molto pubblicizzata, che avrebbe dovuto dar luogo a centomila posti di lavoro e che ad oggi ha visto pervenire dalle imprese solo 13.000 richieste. Un articolo di Enrico Marro (Corriere della Sera del 3 novembre 2013) e intitolato “Giovani, fallisce il bonus assunzioni “Incentivi? E’ in crisi anche il sommerso”, riporta dei dati sconfortanti.
Nel giugno dell’anno scorso il ministro Giovannini dichiarò alla stampa che si sarebbero dovute attivare potenzialmente duecentomila soggetti, la metà con la decontribuzione e il resto con tutte le altre misure. Lo stanziamento per il periodo 2013-2016 era di 794 milioni di euro e i destinatari erano i giovani di età tra i 18 e i 29 anni “svantaggiati”, cioè privi di impiego da almeno sei mesi, senza un diploma di scuola media superiore o professionale, single con una o più persone a carico.
L’incentivo per le aziende consisteva in un bonus contributivo fino a 650 euro per 18 mesi per ogni giovane assunto con contratto a tempo indeterminato, oppure fino a 12 mesi in caso di stabilizzazione di contratto a termine. Gli altri centomila posti di lavoro dovevano provenire dal potenziamento degli incentivi all’autoimprenditorialità e da un piano di tirocini formativi nel Sud.
L’articolo riporta alcuni commenti sul fatto che le imprese assumono se hanno in vista aumenti di produzione e di vendite, mentre evitano di caricarsi di manodopera che comporta subito maggiori oneri generali che non vengono compensati dagli incentivi. Rischi di dispersione o di iniziative solo sulla carta vengono temuti anche per uno stanziamento UE di un miliardo e mezzo di euro, destinato a offerte di lavoro, tirocinio e apprendistato, che dovrebbe essere ufficializzato nei prossimi mesi.
  1. I “tavoli” governo – imprese – lavoratori
Presso il Ministero dello Sviluppo Economico ormai da molti anni vengono attivati dei “tavoli” di confronto tra singole imprese le cui strategie minacciano la perdita di molti posti di lavoro, i lavoratori e i sindacati mobilitati per difenderli e il ministero che cerca soluzioni esterne e mediazioni; questa attività riguarda in genere imprese con più di 200 dipendenti, dalla cui presenza può dipendere anche la situazione sociale di interi territori.
Un articolo del 6 agosto 2012  del Corriere della Sera documenta con molta chiarezza l’attività di questa sede così importante e delicata e fornisce il quadro completo all’epoca delle imprese coinvolte, in totale 141 con oltre 168.000 lavoratori a rischio di licenziamento. A partire dal 2008, in totale sono state oltre 700 le situazioni di crisi aziendale di cui si è dovuto occupare il Ministero.
(cfr. tabella allegata)
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Un articolo dello stesso giornale del 2 gennaio 2014 fa riferimento a 159 tavoli di crisi e a 120.000 lavoratori a rischio, però non fornisce la lista dei nominativi delle imprese; sembra quasi che a questo aspetto così importante della crisi che attraversa l’Italia si preferisca accennare con commenti superficiali, mentre sarebbe essenziale avere continuamente presente l’evoluzione e i punti critici della trasformazione strutturale dell’apparato produttivo, non fosse altro che per fare delle previsioni più accurate delle capacità occupazionali del settore nell’immediato futuro e in prospettiva. Il giornalista, Fabio Sabelli, pur con tutte le dovute cautele, trattandosi di aziende molto diverse tra loro e che affrontano la crisi con strategie profondamente differenti, tenta di delineare un quadro generale sintetico: “I settori maggiormente esposti alle “intemperie” della globalizzazione sono l’elettrodomestico bianco, protagonista delle cronache recenti tra un nuovo caso Elettrolux (ha deciso altri 500 esuberi oltre ai 1000 che derivavano da precedenti accordi) e l’intesa sul fotofinish per Indesit che ha consentito di scongiurare 1400 esuberi. Ma anche la siderurgia, (soprattutto Ilva, ma anche Lucchini, dove a Piombino i lavoratori hanno l’ombrello dei contratti di solidarietà fino a febbraio), è alle prese con la necessità di un “riposizionamento” sui mercati globali per un costo dell’approvvigionamento delle materie prime  troppo alto e una domanda domestica in picchiata.
E ancora, come non rilevare le difficoltà del comparto telecomunicazioni (vedi le vertenza Italtel e Alcatel), l’avvento delle nuove tecnologie e gli investimenti in Italia della cinese Huawei sui ponti radio che sembra andare in controtendenza rispetto agli altri operatori del settore. Oppure la componentistica moto e auto in sofferenza per il crollo di consumi dei beni finali (l’ultimo fronte, senza tavolo al Ministero, della Piaggio con mille contratti di solidarietà). Infine le criticità del farmaceutico, con tagli agli organici anche delle filiali italiane di Big Pharma e il rischio estinzione di intere categorie professionali (l’informatore)”. Si fa peraltro notare che “negli ultimi dodici mesi sono stati sottoscritti 62 accordi che hanno consentito di evitare oltre 12.000 riduzioni di organico. Alcuni esempi? Natuzzi, Bridgestone, Vestas, Candy, Berco, Valtur, Plasmon, Wind”.
  1. Le fabbriche occupate in Italia
Sono ormai parecchi anni che il fenomeno delle occupazioni di fabbriche da parte dei dipendenti che si sostituiscono in tutto ai proprietari e riprendono la produzione e la vendita, ha assunto dimensioni notevoli. A parte i casi isolati in numerosi paesi, queste esperienze hanno raggiunto dimensioni notevoli in Argentina all’epoca della grande crisi di questo paese, ma ha continuato ad espandersi anche negli anni più recenti. Oggi però, con il prolungarsi della crisi,  si riscontra una moltiplicazione numerica e una crescente diffusione geografica e ormai anche in Italia ha assunto caratteristiche non sottovalutabili. (Cfr. tabella allegata)
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Questa evoluzione, sostanzialmente  estranea alle logiche imprenditoriali del sistema dominante, nasce dal perdurare delle crisi globali, in quanto perfino la cancellazione delle imprese (per fallimento o chiusura) non è più sufficiente a nascondere l’abbandono da parte degli imprenditori di attività non più redditizie, mentre di fronte alla scomparsa rapida e consistente di posti di lavoro in aziende di ogni dimensione, la reazione operai si spinge oltre i limiti delle relazioni tra sindacati e padronato e arriva fino a concepire e realizzare la sostituzione dei dipendenti in tutte le funzioni tradizionalmente svolte da proprietari e dirigenti. In Argentina la fuga senza lasciare traccia di molti imprenditori ha agevolato gli interventi giudiziari che hanno cominciato a riconoscere la legittimità della appropriazione operaia; in Francia, più di recente, le cooperative di lavoratori che chiedono di essere immessi nella proprietà e nella gestione di imprese sono addirittura riconosciuta per legge come una delle vie di continuazione delle attività produttive, specie quando l’abbandono  riguarda aziende fondamentalmente sane e con prospettive valide.
Forse anche in Italia queste esperienze dovrebbero portare a innovare nel campo delle cosiddette relazioni industriali, fino a promuovere, e a sostenere con interventi istituzionali, una maggiore capacità dei dipendenti  di prendere in mano il loro destino lavorativo. Lo studio approfondito dei casi, ormai molto numerosi, già realizzati porta a giudicare molto favorevolmente le potenzialità di un area produttiva a gestione diretta, specie se le prospettive di mercato di imprese con queste caratteristiche sono sostenute da un largo appoggio popolare, volto a sostenere la struttura produttiva di ogni territorio di insediamento industriale.
  1. Esistono posti di lavoro non richiesti anche in presenza di una forte disoccupazione?
Destano sempre qualche perplessità le analisi che evidenziano la presenza di una forte domanda di alcune qualifiche professionali anche in questa fase di alta e crescente disoccupazione. Questi fenomeni sembrano quasi delle “provocazioni “ di parte imprenditoriale che cercano di addebitare a scarsa volontà di svolgere determinate funzioni il rapido aumento della disoccupazione, anche se spesso potrebbero essere spiegati con delle imperfezioni del mercato del lavoro, oppure con la eccessiva faticosità di certi lavori rispetto a salari offerti, o, ancora, con la non coincidenza tra le aree di forte disoccupazione e i punti dove vengono segnalate certe impossibilità di coprire le esigenze imprenditoriali.
Vediamo alcuni esempi ben documentati. Il Corriere della Sera del 24 novembre del 2012 riporta una “classifica dei laureati introvabili”; secondo una ricerca dell’Unioncamere sarebbero addirittura 65.000 i posti di lavoro scoperti che le imprese avrebbero necessità di occupare nel corso del 2013. Questo dato, tuttavia si è molto ridotto rispetto alla precedente  rilevazione, quando i laureati “di difficile reperibilità” (in testo gli informatici) ammontavano a 116.000.
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Il 16 aprile del 2013, sempre il Corriere della Sera segnalava che “i pizzaioli che mancano sono almeno 6000”; la fonte erano le stime di produzione e di occupazione potenziali circolate in occasione del Pizza World Show organizzato a Parma in quei giorni.
Scan_20140402_190218Il 16 luglio 2012 un articolo di Leonard Berberi sul Corriere della Sera evidenzia la scarsa attrazione che i lavori manuali artigianali esercitano sui giovani. Secondo questa fonte, la CGIA di Mestre ha calcolato che nei prossimi otto anni potrebbero mancare complessivamente 385.000 persone pronte a svolgere mestieri come falegnami, pellettieri, borsettieri, muratori, carpentieri, carrozzieri, saldatori, riparatori di orologi, elettricisti, parchettisti; a queste si devono aggiungere i circa 45.000 posti rimasti vacanti nel 2011. Nello stesso articolo si sottolinea che oltre alla pesantezza di certe professioni, un deterrente è costituito dai salari relativamente bassi percepiti da quelli oggi occupati, circa la metà di quelli ricevuti nello stesso periodo in altri paesi europei.
Una ricerca analoga, effettuata dalla Hays, specializzata nel reperimento di professionalità specifico richieste dalle imprese, verso la fine del 2012 e pubblicata sempre dal Corriere della Sera. Indicava come posti di lavoro disponibili la cifra di 159.000, di cui 71.000 stagionali; tra le qualifiche ricercate indicava anche docenti universitari, conduttori di mezzi di trasporto, tecnici informatici, addetti all’accoglienza, ecc. e sottolineava che le ricerche delle qualifiche richieste potevano durare anche molti mesi.
Sempre il Corriere della Sera, il 15 maggio 2013, presenta il fenomeno delle badanti, italiane e straniere sempre in aumento. All’epoca avevano raggiunto la cifra di un milione,  seicentocinquantacinquemila, per tre quarti di origine straniera (erano un milione nel 2001). Riporta anche i risultati di una ricerca del Censis, che prevede saranno superati i 2,2 milioni nel 2030, e quindi delinea un mezzo milione di posti di lavoro che dovrebbero crearsi in questo comparto sociale, in conseguenza del progressivo invecchiamento della popolazione, della diffusione dell’assistenza domiciliare e della deospedalzzazione, e della frammentazione del tradizionale modello familiare. Si sottolinea, peraltro, che finora solo circa la metà riceve un trattamento salariale e contributivo regolare e che è ancora difficile considerare in termini professionali una attività di questo tipo, che oltretutto richiederebbe una formazione molto più accurata.
Difficile una valutazione conclusiva su questo particolare aspetto del mercato del lavoro, le cifre non sono tali da delineare una potenzialità occupazionale capace di compensare sia pure in parte la forte e crescente disoccupazione attuale e molte delle offerte sembrano avere origine o da esigenze molto specifiche o nascere in località marginali o difficilmente raggiungibili ad esempio da chi proviene dal meridione o dalle isole. Inoltre le stesse  fonti citate sottolineano la presenza di trattamenti salariali insufficienti o la richiesta di capacità professionale che la struttura formativa nazionale stenta a fornire da molti anni. Infine, non si può dimenticare che la disoccupazione colpisce ormai famiglie in condizioni economiche tali da non poter affrontare un “sostegno a distanza” per i loro giovani che da lungo tempo soffrono tutte le contraddizioni del precariato oppure colpisce persone di una certa età e con famiglia a carico che incontrano non poche difficoltà a spostarsi in regioni lontane.
  1. Alcune proposte dirette a modificare le “politiche del lavoro”
L’aggravarsi della situazione occupazionale in tutti i suoi segmenti e il perdurare della crisi economica  – senza parlare in questa sede del’incalzare delle notizie sul peggioramento della crisi ambientale e dei rischi nuovamente emergenti di una crisi nella sfera finanziaria – acuiscono la sensibilità a queste problematiche e spingono anche gli imprenditori a cercare vie nuove rispetto alle tradizionali logiche di natura contrattuale con il governo e i sindacati.
Sembra quindi opportuno richiamare alcuni esempi di proposte diverse da quelle storiche, dando solo alcune valutazioni per comprenderne la portata; nessuna di esse sembra ancora rappresentare una reale alternativa o ha la capacità di essere sia pure parzialmente accolta nelle sedi politiche deputate.
Tra gli eventi selezionati, la prima risale al 28 giugno 2013 e riguarda la Selex, una controllata della Finmeccanica attiva nelle tecnologie elettroniche per la difesa. Il piano presentato, che coinvolgeva oltre 2500 persone, (comprese quelle già uscite in base a precedenti accordi) prevedeva 1610 eccedenze strutturali, che dovevano essere gestite con la mobilità volontaria finalizzata all’accompagnamento alla pensione e contratti di solidarietà per 9000 dipendenti, oltre alla stabilizzazione dei precari. I contratti di solidarietà vedranno, nel giro di due anni, una riduzione del 13% dell’orario di lavoro, che comporterà una sospensione dal lavoro pari a due giornate mensili per singolo dipendente pagata all’80% della retribuzione. E’ anche prevista l’assunzione a tempo indeterminato degli attuali lavoratori assunti con contratto di somministrazione dopo 36 mesi (89 lavoratori circa), nonché l’assunzione di 300 giovani con contratti di apprendistato. L’impresa inoltre riceverà dei finanziamenti pubblici  su alcuni programmi di produzione sia civili che militari.
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I sindacati apprezzano il fatto che si sono evitati dei licenziamenti, ma l’accordo presenta anche dei meccanismi di perdita di parte dei salari ridistribuita su tutti i dipendenti e l’accesso a dei contributi pubblici; un meccanismo così complesso è di difficile valutazione, ma p indubbio che presenti delle caratteristiche ben diverse dagli accordi tradizionali.
Una seconda proposta, apparsa sui quotidiani il 22 luglio 2013, è stata formulata dalla presidente della Fondazione Ant, che da 35 anni assiste i malati di tumore, e che alla fine del 2012 disponeva di 107 dipendenti, 56 collaboratori e 1573 volontari iscritti nei registri del volontariato. La proposta era di impiegare nella assistenza i lavoratori in Cassa Integrazione Guadagni, quindi persone  già pagate dallo Stato che potrebbero ampliare molto le attività prestate dal Terzo Settore in un momento in cui lo Stato non è più in grado di mantenere in piedi un sistema di welfare. Si pongono evidentemente numerosi problemi (la cassa integrazione copre solo una parte del salario, è limitata nel tempo e non vi è in realtà una garanzia assoluta di rientro nella situazione di presenza, molti avrebbero bisogno di una formazione per prestare dei servizi anche non professionali e così via), però la proposta merita di essere approfondita e soprattutto articolata (per categorie, per tipo di prestazione secondo i servizi, ecc. ecc.).
Una terza proposta, emersa il 24 luglio 2013 sul Manifesto, riguarda chi è necessario impiegare nella Expo 2015 di Milano. L’accordo raggiunto prevede l’assunzione di 835 persone mediante contratto di apprendistato da 7 o 12 mesi; 340 giovani parteciperanno ad un percorso formativo di 70 o 120 ore per il conseguimento delle qualifiche di “operatore Grande Evento”, “specialista Grande Evento” o “tecnico sistemi di gestione Grande Evento”. A partire dal 2014 saranno assunti altri 300 lavoratori per i ruoli di supporto e segreteria e 195 stagisti con un rimborso di 516 euro mensili; parte di queste assunzioni a termine, il 10%, verranno effettuate tra i lavoratori che si trovano in cassa integrazione straordinaria o in deroga, sono in mobilità o in disoccupazione. Si prevedono inoltre 18.500 volontari che dovranno alternarsi in “attività ausiliarie” al ritmo di 475 per cinque ore al giorno nei sei mesi di durata dell’esposizione. Il loro impegno, si legge nel protocollo di intesa, deve essere svolto esclusivamente “con uno scopo di partecipazione, solidarietà e pluralismo”.
E’ evidente che ci si trova di fronte ad un modo di concepire le prestazioni di lavoro quasi del tutto fuori degli schemi abituali, dove la eccezionalità del Grande Evento viene usata per superare i limiti delle leggi vigenti (anche se la sua durata è di almeno sei mesi). Nulla viene detto se le persone qualificatesi in base al protocollo saranno poi usate in altri eventi di minori dimensioni o come verranno accertate le reali motivazioni dei volontari (in particolare quelle relative al “pluralismo”).
Secondo l’ad dell’Expo Sala, l’accordo “dimostra come si possa flessibilizzare e derogare in materia di lavoro” e quindi vi sono forti rischi di veder estendere queste formule anche  a casi di imprese in difficoltà o di dipendenti pubblici considerati in eccesso. Il giornalista che riporta tutte queste informazioni affronta anche i problemi del volontariato, ricordando che in alcune scuole di Milano sono in corso dei progetti chiamati “Genexpo”, che definisce di “formazione informale” e che ricorda quella per le guide turistiche che però sono una figura professionale riconosciuta, mentre i volontari per l’Expo “resteranno dei liberi prestatori d’opera, diffusori dei “valori etici” dell’economia dei grandi eventi”. Ironia a parte, è chiaro che l’impostazione adottata  poteva anche essere considerata una occasione,  già perduta prima di cominciare, di formare e di provare sul campo un notevole quantitativo di giovani che potevano, subito dopo l’evento, trovare una qualche collazione in campo turistico e alberghiero, ma più in generale nelle attività di accoglienza, purché fossero predisposte delle ben definite figure professionali e dei percorsi di riconoscimento istituzionali.
Una quarta proposta, illustrata dal Corriere della Sera del 1° ottobre 2013, riguarda una politica inglese, chiamata “Help to Work”, che ha per destinatari i 200.000 disoccupati da più lungo tempo, coloro che da anni non si riqualificano, non si presentano ai “job centre” per cercare nuove attività o che la rifiutano, cioè che in pratica sguggono a tutte le finestre proposte dal mercato quando e se si presentano e quindi si accontentano di usufruire dei sussidi senza impegnarsi a ricollocarsi sul mercato del lavoro. L’ipotesi governativa si caratterizza in questo modo: “Se vuoi avere diritto al sussidio di disoccupazione devi scegliere una di queste opzioni: a) renderti disponibile a lavori utili per la comunità; b) frequentare un intensivo programma a tempo pieno per indagare le ragioni della tua prolungata inattività; c) presentarsi ogni giorno al job centre e vedere cosa ti viene offerto.” LO Stato dovrebbe impiegare 300 milioni di sterline in questo piano, ma ritiene di poterne risparmiare il quadruplo in elargizioni senza riscontri. E secondo i sondaggi, cinque inglesi su sei sarebbero d’accordo su questa linea di intervento
L’elemento di parziale novità è sicuramente le prima opzione, che se attuata in modo significativo, cioè curando l’inserimento delle persone adatte nelle attività locali e comunitarie che le richiedono, potrebbe indubbiamente aiutare le persone a riqualificarsi e mettere a disposizione di molte attività di alto livello sociale una manodopera preziosa.
donna-al-lavoro-1024x791Infine, un ultimo esempio di proposta valida, che pure ancora non ha suscitato reazioni. Ne ha parlato Il Manifesto del trenta gennaio 2014, facendo riferimento alla “Strategia Nazionale per le Aree Interne” lanciata dall’ex ministro Barca come strumento per la coesione sociale. Destinatarie degli interventi dovrebbero essere le aree meno servite dai servizi pubblici, lontane da scuole, ospedali, stazioni; sono in genere territori montuosi, sfruttati nei secoli per trarne acqua, risorse minerarie, prodotti dei boschi e minacciate da fenomeni di degrado geologico. Le persone tendono a fuggire da queste aree, oppure vivono di un pendolarismo pesante e usurante. La Strategia, invertendo ogni tendenza economica, dovrebbe seguire due linee di intervento; la prima con una logica di riequilibrio dei servizi e di promozione dello sviluppo e del lavoro, ma anche andando a raccogliere sui territori le dinamiche nate dalla collaborazione fra cittadini e amministratori, accompagnando quelle più promettenti, e trasformando i conflitti in laboratori verso nuove modalità di relazioni tra istituzioni e abitanti; la seconda linea si muove in discontinuità rispetto a quanto è stato fatto negli ultimi venti anni di “sviluppo locale”: punta a portare o a rafforzare i servizi pubblici, promuovendo la loro gestione associata tra comuni e una riorganizzazione della spesa ordinaria dei ministeri per scuole, sanità, infrastrutture, messa in sicurezza del territori, creando concrete opportunità di lavoro.
A questo livello di enunciazione e senza avere alcun elemento di conoscenza sulle intenzioni del nuovo governo su questi problemi così rilevanti dal punto di vista sociale e ambientale, è difficile fare una valutazione di queste modalità di intervento. Sulla carta, sembra esserci una volontà di innovare in profondità le politiche del passato e di stimolare e coinvolgere le popolazioni locali, però rimangono tutte da dimostrare le possibilità reali di attuare questa o altre strategie analoghe.
  1. I “piani” proposti dalla rivista “Missione Oggi”
Particolare interesse rivestono le proposte di una delle riviste a maggiore diffusione del mondo cattolico e missionario, contenute nel numero di gennaio 2014. Il dossier, intitolato”La vera grande opera per l’Italia”, parte da alcune premesse, che di rado sono richiamate con tanta chiarezza: fatte salve alcune eccezioni, tutti continuano a proporre modelli di sviluppo che in passato erano resi possibili da combustibili fossili apparentemente disponibili in quantità illimitata a basso costo, da materie prime sottratte ai popoli del cosiddetto Terzo mondo con modalità di rapina, da una parziale distribuzione ai lavoratori dei proventi di processi tumultuosi di produzione e di consumo. Tutte queste condizioni sono profondamente mutate, “e non si ricostituiranno più” ma, quel che è peggio, “ciò si associa ad una crescita esponenziale dell’ingiustizia sociale, di una redistribuzione alla rovescia del minor reddito prodotto, da chi ne possiede meno in favore di chi ne gode già di più.
E intanto il territorio andava letteralmente a pezzi e la vera e duratura ricchezza del paese, il suo patrimonio naturale e artistico, era lasciato deperire in stato di abbandono. Sulla base di questa analisi, la rivista propone di “riprogettare il Bel Paese, ovvero il bene comune”, un ambizioso progetto di manutenzione, ripulitura, bonifica e valorizzazione del territorio e del patrimonio abitativo e monumentale. Il progetto si articola in sette interventi settoriali, affidati ad autori ed esperti diversi. Il primo di esse è un piano per la difesa del suolo, con particolare riguardo alla prevenzione degli effetti delle alluvioni; il costo si aggirerebbe intorno al miliardo di euro all’anno, cifra peraltro inferiore a quanto si spende oggi ogni anno per indennizzare le persone colpite da alluvioni e smottamenti di terreni montuosi  spesso privati dal manto boschivo. La prevenzione antisismica rappresenta il secondo piano delineato, e significativamente consiste in una analisi dei limitati danni arrecati dagli ultimi eventi sismici in Lunigiana, cioè proprio il territorio dove la Regione Toscana ha realizzato numerosi interventi di prevenzione (finanziamenti ai privati, indagini di microzonazione sismica, indagini sui materiali degli edifici scolastici, verifiche sismiche sugli edifici pubblici, rete sismica e geodetica, informazioni alla popolazione e alle scuole).
Il quarto piano, forse il più impegnativo dato lo stato attuale del patrimonio storico-artistico, riguarda l’urgenza di un intervento culturale diffuso. Il testo in effetti si limita ad un rimando ad una recente pubblicazione (Leone, Maddalena, Montanari, Settis, La costituzione tradita), che tratta in modo approfondito i problemi  di quella che è forse la maggiore ricchezza italiana, ma il cui degrado, spesso denunciato, non ha ancora suscitato delle reazioni istituzionali.
agricoltura_occupazione_giovaniIl quarto piano, relativo alle bonifiche delle aree fortemente inquinate da attività industriali, riporta tre livelli di informazione, uno relativo a due aree, Gela e Priolo, per le quali si dispone dei dati relativi agli interventi di bonifica da realizzare e sulle vittime che si possono evitare; il secondo si basa sui risultati della Commissione parlamentare di inchiesta del 2012, relativo a tutti i siti inquinati esistenti in Italia; il terzo, infine esamina i dati di un rapporto stilato in Israele sugli inquinamenti in quel paese, con relativi eventuali costi per le bonifiche e gli aspetti positivi di questo tipo di interventi. Non si tratta quindi di una proposta di piano ma mette a disposizione molti elementi essenziali per elaborarlo.
Più dettagliato e realistico il quinto piano, che esamina gli interventi necessari per ridurre lo smog nei grandi centri urbani e in tutta la pianura Padana, mentre il sesto piano riguarda l’energia e in particolare le potenzialità di quella solare. Le indicazioni contenute in quest’ultimo testo sono fondamentali (anche se ovviamente molto distanti dalle politiche energetiche finora seguite): è essenziale ridurre gli acquisti dall’estero di combustibili fossili, introdurre rigide regole di risparmio al momento dei consumi, introdurre norme vincolanti per la riqualificazione energetica delle abitazioni, gli impianti di produzione solare devono essere a scala della singola abitazione o di un condominio, deve essere realmente incentivata l’autoproduzione, si deve dare priorità ai progetti che massimizzano l’impatto occupazionale locale per unità energetica generata.
Il settimo piano sostiene la necessità di una gestione sostenibile dei rifiuti urbani e denuncia il fatto che in regioni come la Lombardia è stato stabilito che metà dei rifiuti vadano ai 13 impianti di incenerimento costruiti, ma sostiene anche che le materie prime recuperate dovrebbero essere utilizzate in misura molto maggiore. Gli acquisti verdi, prodotti con materiali riciclati dovrebbero quindi essere realizzati secondo normative obbligatorie, che escludano anche il contemporaneo acquisto di prodotti analoghi tradizionali. Si fa anche notare che secondo una stima elaborata dalla Rete dei Comuni Virtuosi sarebbero circa 200.000 i posti di lavoro realizzabili lungo l’intero ciclo corretto del riutilizzo dei rifiuti.
  1. Le misure locali  in Italia e in altri paesi
La disoccupazione nei suoi vari segmenti che continua a aumentare e il prolungamento delle crisi al di la di ogni precedente esperienza del sistema dominante, costringono in molti luoghi a tentare strade in parte diverse dagli orientamenti più affermati, governativi e internazionali e sembra importante richiamarne alcuni, ovviamente scelti tra quelli più significativi.
In Italia, le regioni, (non tutte) hanno effettuato diversi tentativi nell’ambito delle loro competenze. Ad esempio, in Abruzzo hanno lanciato un programma di incentivi per giovani sotto i 35 anni; a Bolzano hanno di recente introdotto un elemento di mobilità, obbligando i giovani ad accettare qualsiasi attività lavorativa in Alto Adige; in Calabria provano a mitigare la desertificazione industriale con delle “borse lavoro” destinate alle imprese “per integrare il salario dei dipendenti erogando loro formazione continua”. A queste indicazioni, tratte da un articolo del Corriere della Sera del 22 gennaio del 2014, si possono aggiungere altre informazioni contenute nella stessa fonte, relative all’Emilia e Romagna, che ha istituito un fondo di 20 milioni di euro per contribuire alla stabilizzazione dei lavoratori con incentivi fino a 12.000 euro per le imprese che trasformano un contratto precario in assunzioni a tempo indeterminato. In Friuli vengono concessi crediti a fondo perduto alle imprese che assumono soggetti ad elevata qualificazione professionale. Il Lazio ha introdotto dei voucher di 10 euro che possono essere acquistati dalle imprese che utilizzano giovani lavoratori residenti nella regione: valgono come retribuzione aggiuntiva.
Anche se non tutte le regioni sono attive in questo campo, secondo un esperto i loro interventi possono essere sintetizzati in quattro direttrici.”Incentivi all’autoimprenditorialità e alle start up; contributi alle imprese per la stabilizzazione dei lavoratori; finanziamenti per stage, tirocini, contratti di apprendistato; risorse per programmi formativi come master e dottorati da effettuare nelle università”. In altre regioni sono stati ideati interventi innovativi: Campania, Lombardia ed Emilia-Romagna incentivano il lavoratore in avvicinamento all’età pensionabile ad accettare un tempo parziale (con il riconoscimento contestuale dei contributi figurativi) in cambio dell’assunzione di un giovane. Nelle Marche vengono finanziate idee imprenditoriali in ambito culturale; in Liguria invece legano gli incentivi ai mestieri e all’artigianato, avendo come obiettivo “la riscoperta dei settori produttivi tipici della nostra terra”.
Come si vede, non mancano certo le idee, mentre non si può evitare di constatare che la pluralità di iniziative crea un mercato del lavoro frammentato e discontinuo, che talvolta incontra addirittura dei limiti nella inefficienza degli enti locali (ad esempio nel caso di bandi lanciati in ritardo rispetto alla scadenza o scarsamente pubblicizzati); viceversa sembrano scarsi i tentativi di imitazione delle iniziative più coronate da successo.
Non a caso, l’associazione dei Consulenti del lavoro ha elaborato delle proposte (pubblicate sul Corriere della Sera del 5 gennaio 2014) relative alla semplificazione delle attività di questo comparto; tra le altre spiccano la necessità di uniformare e semplificare la farraginosa burocrazia a livello regionale dell’apprendistato e della concessione della cassa integrazione; modificare l’attuale sistema della formazione professionale, data in genere in concessione ad enti diversi (dove si riscontrano abusi e carenze formative); la necessità di riorganizzare a fondo la previdenza complementare, dove operano oggi ben 300 enti e fondi.
In un Corriere della Sera di qualche giorno prima (30 dicembre 2013), una pagina di approfondimento evidenziava molti limiti dei meccanismi dell’apprendistato, tanto che solo il 2,4% dei contratti attivati proveniva da questa forma di inserimento temporaneo nelle imprese. In pratica per le imprese con più di 15 addetti, l’assunzione a tempo indeterminato renderebbe molto difficile il successivo licenziamento; per quelli con meno di quindici addetti, il costo del lavoro viene giudicato troppo alto  e tutto ciò spiega molta parte della proliferazione del lavoro nero o del ricorso a contratti flessibili o a stage.
In complesso, da questa rapida analisi di alcuni meccanismi di incentivazione, si trae una impressione di grande difformità e frammentazione delle misure finora adottate, e che quindi sarebbe estremamente utile rivedere tutta la situazione, poiché alcune modifiche essenziali ben studiate (e soprattutto ben applicate)  potrebbero migliorare i canali che agevolano l’inserimento stabile nelle strutture produttive, anche se ovviamente non dipende dalle procedure la situazione occupazionale generale del paese.
  1. Le esperienze in corso dirette anche alla creazione di posti di lavoro
Un campo di attività, ancora tenuto in pochissima considerazione a livello istituzionale e governativo, ma in rapida diffusione all’interno della popolazione più attiva, comprende una miriade di iniziative, individuali o di piccoli gruppi, che avvia operazioni economiche che nella maggioranza comportano anche la creazione di posti di lavoro. Esistono già delle ricerche e delle pubblicazioni, anche abbastanza sistematiche, alle quali si può fare riferimento, ma non è sicuramente facile descrivere in maniera compiuta la natura di queste iniziative (spesso concepite intenzionalmente al di fuori dei canoni tradizionali) e i metodi da loro adottati. Quanto segue pertanto si limita a presentare solo alcuni esempi avviati di recenti, nel tentativo di far intuire o apprezzare alcune delle logiche innovative finora emerse.
Il 23 agosto 2013, la rivista Internazionale segnala la nascita a Londra del primo punto vendita delle biciclette da trasporto. Le cargo bike sono attrezzate con una piattaforma tra il manubrio e la ruota anteriore, sulle quali è possibili trasportare molti pacchi o un passeggero. In realtà questo mezzo di trasporto verde ed economico era già in funzione a Copenhagen e si è dimostrata più rapido dei furgoni  entro un raggio di otto chilometri. I modelli possono essere a due o a tre ruote a seconda delle esigenze e possono montare un tettuccio facilmente smontabile.
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Il Corriere della Sera del 7 settembre 2013 fornisce alcune informazioni complessive sul cosiddetto ritorno alla terra, oltre a citare numerosi casi personali. Secondo la Coldiretti sono oltre 58.000 le aziende agricole guidate da giovani sotto i 35 anni e di queste oltre il 70% svolge attività multifunzionali: agriturismi, fattorie didattiche, vendita diretta di prodotti tipici, trasformazione del latte in formaggi, dell’uva in vino, delle olive in olio. Inoltre è ormai possibile consumare i prodotti in loco, venderli direttamente ai mercati o portarli direttamente ai consumatori, spesso riuniti in Gruppi di Acquisto Solidale, il cui numero continua crescere rapidamente.
In un successivo articolo del 9 settembre si trovano i dati sulle produzioni biologiche e sulle trasformazioni non industriali di prodotti naturali. Quindi prodotti alimentari, ma anche cosmetici, crocchette per animali e vestiti. Nei primi sei mesi del 2013 il giro d’affari ha superato i tre miliardi di euro, l’incremento è del l’8,8%, mentre il resto dei prodotti agricoli diminuisce del 3,7%. Sono circa 50.000 gli agricoltori certificati bio, 1.167 mila gli ettari coltivati, 1270 i punti di vendita specializzati .
Il 13 settembre 2013 il settimanale SETTE ha fornito informazioni essenziali sull’attività della Fondazione Cologni che sostiene giovani studenti delle professioni artigiane (liutai, falegnami, orafi, vetrai, mosaicisti, decoratori, scenografi, sarti, restauratori, ecc.). Sono almeno 15 quelli che negli ultimi due anni sono stati “messi a bottega” da maestri specializzati e poi messi in contatto con le imprese del rispettivo settore. La Fondazione è in contatto con le 18 scuole di arti e mestieri che segnalano gli alunni più promettenti, mentre cerca ulteriori fondi per allargare la sua azione. Il costo per ogni apprendistato è di 5000 euro per il soggiorno e il mantenimento e non vi è certo difficoltà ad accogliere i numerosi altri giovani che ogni anno richiedono di essere inseriti nel progetto.
Una iniziativa analoga è stata realizzata a Salomeo, un borgo medievale vicino Perugia, dove ha aperto una Scuola dei Mestieri l’imprenditore Brunello Cucinelli, che produce tessuti e che ritiene essenziale formare artigiani in grado di confezionare abiti anche su misura. La scuola ospiterà una ventina di ragazzi che si aggiungeranno agli allievi apprendisti già inseriti nell’azienda che occupa 700 lavoratori. Altre informazioni sono sul Corriere della Sera del 4 settembre 2013.
Come si vede da questi pochi esempi, non mancano certo delle idee per progetti di eccellenza che potrebbero utilmente moltiplicarsi se a livello istituzionale si comprendesse finalmente la necessità di canalizzare in modo molto più accurato e approfondito i giovani interessati a una gamma molto ampia di lavori.
  1. Le misure relative al lavoro presentate dal governo Renzi
Questo testo, da tempo in preparazione, viene pubblicato negli stessi giorni in cui viene approvato il testo definitivo inviato alle Camere  che contiene alcune norme relative alle prestazioni di lavoro; è quindi interessante presentare qualche valutazione sui rapporti esistenti tra la linea governativa e gli spunti qui presentati, che richiedono peraltro anche una valutazione autonoma da parte dei lettori.
Già nel mese di gennaio 2014 si era sviluppato il dibattito sulle politiche per il mondo del lavoro, dopo gli accenni più volte fatti dal PD di Renzi, anche se non ancora concretizzati in un vero e proprio Jobs Act, in italiano un provvedimento organico riguardante le prestazioni lavorative. Il 18 gennaio sul Manifesto appare un articolo che presenta una proposta chiaramente di minoranza (firmata da Cesare Damiano e da una ventina di parlamentari PD).
A livello della regione Lazio, il 4 marzo 2014, la Cgil regionale ha proposto al Presidente Zingaretti alcuni interventi capaci di incidere sulla disoccupazione locale: accelerare l’utilizzazione dei fondi europei disponibili, pari a 1,5 miliardi di euro, dei quali sono stati utilizzati solo 300 milioni; il rifinanziamento della cassa integrazione e del reddito minimo garantito; attivare le utenze di banda larga; stabilizzare i 3000 precari dai quali dipende il funzionamento di ospedali e ambulatori. Di maggiore interesse secondo delle logiche più alternative sono le proposte di erogare incentivi per il recupero e l’efficientamento  energetico degli edifici pubblici e privati e la richiesta di dare priorità ai piccoli lavori di immediata utilità occupazionale e sociale, dalla manutenzione delle strade alla messa in sicurezza delle scuole.
Per quanto riguarda il provvedimento governativo, sulla base anche dei numerosi commenti apparsi sui quotidiani, si possono rilevare almeno tre aspetti non certo positivi: a) si estende in sostanza il periodo di prova da tre mesi a tre anni, in quanto i contratti a termine potranno essere prorogati tutte le volte  che l’azienda vorrà (al massimo 8 volte nei 36 mesi) e senza necessità di apporvi la causale, cioè di precisare perché si richiede una prestazione temporanea; gli unici vincoli da rispettare saranno la durata massima non superiore ai tre anni e il fatto che ogni azienda non potrà avere più del 20% di lavoratori temporanei; b) la semplificazione dell’apprendistato, che significa l’eliminazione del vincolo delle precedenti assunzioni di apprendisti prima di poterne prendere di nuovi; c) si riduce il contenzioso con i lavoratori che potevano contestare le scelte aziendale relative ai tempi e alle modalità dei contratti e vengono di fatto svuotate le tutele dell’art.18.
Tutto il resto (riordino della cassa integrazione e degli ammortizzatori sociali, ecc.) viene rimandato malgrado l’urgenza ad una legge delega che seguirà il normale, fatico percorso parlamentare.Si tratta quindi di misure che tendono ad alleviare immediatamente  gli oneri delle imprese e a rendere molto più elastici e senza vincoli i licenziamenti; senza molte preoccupazioni per i costi umani e familiari dei lavoratori dipendenti. Ma soprattutto sono stati offerti al mondo imprenditoriale senza prevedere alcun loro obbligo di assumere quantitativi consistenti di disoccupati e di precari, e cioè di ridurre i livelli di disoccupazione formale e informale, sia pure alle nuove condizioni di aleatorietà e di insicurezza. In sostanza si riconosce che gli attuali livelli di occupazione a tempo indeterminato sono più che sufficienti per le esigenze produttive e organizzative del sistema economico, mentre non vi è alcuna garanzia che lavoratori più giovani possano aumentare la loro presenza innovativa all’interno delle fabbriche. Quando sarà emanato il decreto contenente le misure specifiche sarà possibile valutare l’incidenza reale del provvedimento.
Quanto scritto nei paragrafi precedenti, quindi, assume un valore sicuramente maggiore, in quanto diretto in larga misura a far intravedere delle potenzialità occupazionali largamente indipendenti, quando non addirittura alternative, dalle condizioni in cui si trova attualmente il sistema economico dominante, quindi non solo in Italia ma a scala sia europea che mondiale: distruzione continua di posti di lavoro e scarsissime capacità di crearne di nuovi. Ovviamente questo testo risulta invece particolarmente distante dalle strategie che l’attuale governo sembra essere in grado di esprimere, anche se è sempre vicino alla realtà dei fatti e alle indicazioni emergenti dalla parte più attiva della popolazione.


http://comune-info.net/2014/04/le-forme-del-lavoro-nel-quadro-delle-tre-crisi/

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