lunedì 14 aprile 2014

Si vincerà in Italia! Ancora e sempre Paolo Vinti

da 


[Articolo apparso su GQ - Italia, gennaio 2011. A poco più di un mese dalla sua morte, una riflessione sull'eredità di un leggendario compagno.]
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Paolo Vinti / Paul Beathens (foto Troccoli, tratta da Umbria24.it)
Il documentario si intitola Film astratto rosso. Cercatelo su Google, è scaricabile gratis. Ritagliatevi un’oretta di tempo e aprite il file avi. Appare un volto un po’ gonfio, sorridente, non bello ma solenne, pieno di dignità. Pelle ruvida e arrossata, barba grigia, capelli solo ai lati del cranio, occhiali tondi e sottili. Due cravatte pendenti dal collo, senza nodo. Postura «sbagliata», innaturale. Storta. Quando s’incammina per Corso Vannucci, nel cuore di Perugia, l’uomo ondeggia, è zoppo.
Questo è il corpo.
Poi c’è la voce. 
Cavernosa e suadente, cadenza umbra strascicata. L’uomo racconta, o meglio: declama. Ricorda amici e compagni morti, rievoca progetti, organizzazioni di cui è stato membro, donne amate o vagheggiate, città e nazioni visitate (la Germania di Schmidt, gli USA attraversati su un Greyhound, il Nicaragua della rivoluzione sandinista). Giornali per cui ha scritto, riviste autoprodotte, cortei e scarpinate. Parla di lotte sociali di tanti anni fa come fossero ancora in corso, e in un certo senso ha ragione: quella che descrive è una “idea eterna”.
Può sembrare vaneggiamento a ruota libera, e invece no, c’è autodisciplina, un controllo lessicale che lascia sbalorditi. Non dice mai, proprio mai, «io»; se snocciola dati di biografia, lo fa usando la particella «si»:
«Si proviene da famiglia operaia e impiegatizia. Si è fatto il giornalista, si è fatto l’operaio… Circa due anni e mezzo sono passati all’estero, a Berlino Ovest… Si è fatto il corrispondente del Quotidiano dei lavoratori…»
Ragion per cui, non dice mai: «Io penso che», «secondo me», «a mio parere». Dice: «La valutazione è…», «L’ipotesi è…» Inoltre, non nega: afferma sempre. Niente negazioni, solo asserzioni. Si cercherà invano una frase con dentro un «non». Poi c’è un aggettivo ricorrente: «leggendario». «Leggendarie» sono le persone salutate per la strada, «leggendario» è l’amico che non c’è più, «leggendario» è il compagno che intervista… «Buon marzo, buon inverno, buon inizio di millennio», scandisce rivolto al suo pubblico in un pub, all’inizio di una delle sue «declamazioni».
Le declamazioni: elenchi vorticosi, nomi e luoghi, «ipotesi», vittorie imminenti («Si vincerà a Washington… Si vincerà in Francia… Si vincerà in Venezuela…»), viaggi in un cosmo che è «rosso», destinato alla conquista da parte di un’umanità liberata dallo sfruttamento, un’umanità non più divisa in classi: «L’ipotesi è la strutturazione della libertà nello spazio…»
Paolo Vinti. Poeta visionario, giornalista, comunista, profeta di strada, è morto a Perugia il 28 novembre 2010. Gli ultimi giorni li aveva trascorsi in ospedale, dopo un ictus che aveva bloccato metà di quel corpo già sghembo.
A Perugia, ça va sans dire, lo conoscevano tutti, e lo shock è stato forte. La notizia ha preso a circolare mentre la città era battuta da una pioggia nera, biblica, un fiume verticale che separava le persone, le vite. La notizia ha dovuto nuotare, per giunta controcorrente come i salmoni. Paolo morto? Non era possibile. Perugia non era immaginabile senza di lui, senza «Paul Beathens» (suo trasparentissimo nom de plume). Poi il dolore ha preso corpo e suoni, riversandosi tuonante in rete, su Facebook, nei blog, negli organi di informazione umbri. Una burrasca di pensieri e ricordi da tagliare il respiro. Abbiamo assistito da fuori, da Bologna, all’andirivieni in quelle camere ardenti virtuali, sbigottiti. Conoscevamo Paolo, sapevamo che era amato, ma peste ci colga se avevamo immaginato qualcosa del genere: la sua morte ha avviato un esame di coscienza, in cui l’essere stati suoi amici era tutt’uno con l’essere di sinistra e con l’essere di Perugia. La scomparsa di Paolo è diventata una domanda: in cosa ci siamo trasformati?
Il giorno dopo l’affollatissimo funerale nell’ex-chiesa di San Bevignate, un amico di Paolo, Osvaldo Fressola, ha scritto:
«[Perugia] non sarà più la stessa. Quella stessa Perugia, colta, sensibile, popolare e di sinistra che ieri c’era tutta, come in una grande bellissima manifestazione, con tutte –ma proprio tutte- le proprie anime e sfumature, e che cantava “Bella ciao” con le lacrime agli occhi perché avvertiva, quasi in un sussulto emotivo, che oltre a te, caro Paolo, aveva perduto, già da tempo, la propria anima.»
Un altro militante di sinistra, Moreno Pasquinelli, ha commentato:
«Per i perbenisti Paolo appariva un “barbone”. Lui che presidiava come una sentinella il centro della città, era come un pugno nello stomaco non solo per i borghesi, ma pure per gran parte dei suoi ex-compagni imboscatisi nelle istituzioni. La coscienza infelice della sinistra che fu? Un pazzoide? No. Paolo aveva scelto deliberatamente la via scandalosa della pauperitas. Il suo dignitoso “mendicare” tra i compagni era la maniera per dirci che ci amava, per ricordarci chi fossimo, ad evocare una comunità politica e umana che fu.»
Ma noi che guardiamo Perugia da fuori, noi che assistiamo a questo lutto elaborato coi discorsi, ci chiediamo: una città che risponde in quel modo, che celebra in massa un personaggio tanto singolare, che avverte con tale forza lo «strappo» della sua morte, può davvero dirsi una città che ha perso l’anima? E Paolo Vinti, raccogliendo post mortem ciò che aveva seminato per anni (amore, poesia, visionarietà, senso di continuità tra passato e presente), non è forse riuscito nello scopo a cui accenna Pasquinelli? Paolo ha ricordato a tutti chi erano stati, e fatto riapparire una comunità. Comunità che forse non aveva mai cessato di esistere, si era solo infiacchita, e ha ritrovato vigore nella commemorazione.
Il 28 novembre, sotto quell’interminabile acquazzone, gli studenti che occupavano Lettere e Filosofia hanno scritto ed esposto uno striscione, subito ripreso in rete. La frase era un saluto e una rassicurazione:  «PAOLO, NON PREOCCUPARTI: TE LA FACCIAMO LA RIVOLUZIONE!»
Come soleva dire Paul Beathens: «Con emozione. Con emozione altissima.»

http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=2526

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