Editoria. Anteprima del romanzo di Michele La Porta
Anteprima del romanzo capolavoro dell'amico e collega Michele La Porta.
Senza far ritorno, mio nonno partì il primo dicembre del 1942 e spedì undici lettere.
Le ultime due arrivarono, mentre lui, durante la ritirata da Rossosch nel gennaio dello stesso anno, disteso e silenzioso come neve di un paese straniero, moriva con molti dei suoi commilitoni del Cuneense e della Julia.
Ma questo lo scoprimmo solo molto tempo dopo.
Lì 19-1-1943 XX
“LETTERA N. 10
“Mia dolcissima Sophia, finalmente ho l’opportunità di scrivervi ancora, anche se non so se questa mia lettera giungerà mai a voi.
Qui non vivo più. Ho smesso.
Il mio stato d’animo, come vedi, si sta inabissando e nutro, oramai, poche speranze di poter tornare.
Il dolore mi annienta.
Eppure marcio. Ogni giorno, nell’inumano inverno Russo, mi incolonno con gli altri commilitoni, perdendomi e confondendomi fra le anime vuote in cammino verso il nulla.
Solo l’istinto di sopravvivenza, mi spinge nel proseguire.
I Russi, con la forza, ci hanno allontanati dal fiume e siamo stati costretti ad abbandonare le nostre trincee.
Il freddo, inesorabile, ci sovrasta.
Interminabili mesi di marcia su altrettante distese di neve vergine, piegati dal vento, con i piedi avvolti in stracci e con il viso spaccato dal gelo. Ogni mattina contiamo i morti.Oramai sono migliaia, ed io non so più comprendere la differenza fra me e loro.
Ma nella miseria che mi oscura e avvolge il cuore, il tuo ricordo e quello del piccolo Gabriele mi restituiscono la maestosità della vita.
L’illusione di potervi riabbracciare, l’immagine che di voi conservo nell’anima, sono più forti dell’abisso dei miei silenzi.
Se solo per un istante, potessi essere lì con voi, il ricordo lo conserverei in eterno e la guerra mi farebbe meno paura.
Amore mio, ricordati sempre che finché avrò coraggio e desideri nel cuore, vi scriverò”.
Sempre Vostro
Giuliano Rebis
Le undici lettere, custodite e tramandate fino a me, ultimo dei suoi nipoti, costituirono la memoria più intensa per mia nonna Sophia e per suo figlio Gabriele, cresciuto con un padre conosciuto solo in quelle poche parole, ingiallite dal tempo.
Un giorno, infatti, dal fronte del Don, non scrisse più. Ma io, spesso, lo riporto in vita. Riapro le sue lettere e lo tengo ancora con noi.
Forse le rileggo perché sono malato di malinconia, mi ripetevo ogni volta ed anche quella sera, seduto in disparte nel divano del salotto in stile liberty, mi spingevo tanto lontano quanto più vicina era la mia desolazione. Perché sapevo che fra me e lui c’era una segreta simmetria. Entrambi eravamo in attesa. Entrambi, assenti a noi stessi.
Io, in attesa di un’occasione per dimostrare il mio talento e lui, costretto dalla guerra alla prigionia del corpo, era invece sospeso in luoghi e pensieri inumani.
Quando il pendolo in noce massello del periodo II Impero rintoccò più volte, mi accorsi dell’arrivo della mezzanotte.
Richiusi il plico, rimisi le lettere nel vecchio mobile in legno scuro al centro della sala, spensi la luce e andai a dormire fiducioso. L'indomani, alle prime ore del mattino, mi attendeva un viaggio.
E in pochi minuti, sotto lo sguardo inospitale del cielo, di quel settimo piano d'un palazzo in periferia, chiusi gli occhi ed i respiri adagiati al fresco dei pensieri, del mio sonno.
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