In tanti hanno parlato delle due vite di Giulia Niccolai
(scomparsa martedì all’età di 86 anni). Lo ha fatto lei stessa nelle
diverse scritture incollocabili nelle quali nell’ultimo periodo ha
rivisitato la propria esistenza alla ricerca di quei fili sottili che
alla vita di ciascuno di noi danno senso (o almeno, così ci pare). In Esoterico biliardo
(Archinto 2001) riprendeva un’immagine dell’amico Manganelli, quella
degli «spaghi tronchi, non collegati», dei quali «è fatto il mondo».
Sostenendo di essere giunta a «riallacciarli» sino a comporre «un
continuum»: «la chiave per interpretare tutto ciò che era fino ad allora
rimasto in ombra».
IN GENERE, invece, alla nostra vita senso lo possono
conferire solo gli altri: per il buon motivo che la fine della vita, a
colui che la vive, non è dato viverla. Ma quello di Giulia è un caso
particolarissimo. Chi si è avvicinata di più a spiegarlo è stata Cecilia
Bello Minciacchi introducendo al suo ultimo libro, Foto & Frisbees
(Oèdipus 2016). Alludendo alla cesura nella vita e nella scrittura di
Niccolai, l’ictus che nell’85 la conduce ad abbracciare il buddhismo
tibetano, nota Cecilia la reintroduzione di quell’«io» che i Novissimi
del ’61 tanto avevano predicato di «ridurre». Ma, a differenza che nel
minimalismo neocrepuscolare (o massimalismo neodannunziano) di quegli
stessi anni Ottanta ideali eterni, che da allora non la smettono di
combattere la loro guerra postuma contro gli anni Sessanta, l’Ego di
Giulia è «purgato, ha dovuto perdere la sua arroganza».
Specie nella forma poco dopo brevettata, quella dei Frisbees – petis-riens
fondati su un’osservazione minima, un calembour, più spesso un «errore»
di percezione o espressione –, la poesia di Niccolai si vota a
riportare «piccoli eventi quotidiani, marginali, frammenti, lampi,
guizzi di un senso subalterno» (così Milli Graffi – curatrice nel 2012
della grande silloge Poemi & Oggetti – scomparsa a sua volta un anno
fa). Un esempio perfetto è quello sulla controcopertina di Foto & Frisbees:
«Io mi presentavo sempre come / “traduttrice”, se poi mi capitava / di
aggiungere: sono anche poeta, / immancabilmente l’interlocutore / mi
correggeva: vuoi dire poetessa? / La volta successiva, con un’altra
persona, / se dicevo: sono anche poetessa, / venivo comunque corretta
con un: / vuoi dire “poeta”? / Insomma, una beffa. / Ora sono monaca».
Anche nella produzione più recente la musa di Giulia resta l’ironia,
come ai tempi delle prime raccolte. Ma ora allestisce un micro-set di
piccoli o grandi equivoci nei quali lei stessa volentieri si mette in
scena. E commenta: «Da giovane invece, non sbagliavo mai». Ecco, chi ha
assistito negli ultimi anni alle sue letture (spesso accompagnate dal
rintocco allusivo di un microscopico gong, interpunzione scenica
suggeritale dall’amica Franca Rovigatti) ha potuto notare come gli
«errori» indotti dai postumi dell’ictus facessero ormai parte
indissolubile della sua scrittura. In questo modo la tanto perseguita
«chiarezza», da lei contrapposta alle ellissi degli anni Sessanta e
Settanta, non diventa mai prevedibilità monotona, risaputa litania del
senso comune.
C’È SEMPRE UNO SCARTO, una microfrattura del senso
che rende i frisbees, spesso, simili a koan: quei brevissimi paradossi
zen che si fanno esercizi metodici del dubbio e dell’attesa paziente
dell’illuminazione, il satori.
Ma quante sono state, davvero, le vite di Giulia Niccolai? È facile
pensare all’incontro (comune anche al sodale Corrado Costa, ai tempi
mitici del Mulino di Bazzano) fra spregiudicatezza occidentale e
saggezza orientale, o a quello tra raffinatezza europea e vitalità
yankee (di madre americana, Giulia ha passato oltreoceano diverse delle
sue esperienze-chiave). E forse ha ragione Cecilia Bello: a contare è
soprattutto l’«&» al centro del titolo, il supplemento spiazzante
che disassa ogni dialettica (poetessa o traduttrice? poetessa o poeta?
monaca).
Eppure proprio quest’ultimo titolo menziona le due anime che Giulia
non ha mai voluto confondere tra loro: «Foto & Frisbee». Queste le
due sponde: la sua prima vita è dominata dall’immagine, la seconda dalla
scrittura (a far da cerniera l’unico suo romanzo, Il grande angolo del
’66, che racconta, se così si può dire, appunto il passaggio dall’una
all’altra). Non sono mancati da parte sua esperimenti di «poesia
visiva», ma se la generazione di Giulia Niccolai è stata quella che con
più convinzione ha intrapreso una Expanded Poetry, nel suo caso
la poesia è consistita piuttosto in una «contrazione» che l’immagine
evoca senza, per lo più, farla propria. La sua è piuttosto un’immagine
interdetta, il calco di un’assenza.
Negli anni Cinquanta la giovane Giulia era stata una fotogiornalista
di successo: collaboratrice dei primi rotocalchi che, su modelli d’oltre
Atlantico, mettevano la fotografia al centro della comunicazione. Dalla
Milano bohemienne del Bar Jamaica viene spedita a ritrarre protagonisti
della politica, dello spettacolo e dello sport. A metterla in crisi, un
incidente di percorso: nel ’60, all’indomani dei suoi trionfi sulle
piste dell’Olimpico, Giulia viene spedita da Wilma Rudolph, la fulgida
Gazzella Nera; ma trova una ragazza depressa, annichilita dal successo.
Mandato il reportage, si sorprende a leggere sulla «Settimana Incom» che
«tutto il lavoro era stato purgato e stravolto, e Wilma Rudolph
appariva come un’eroina da favola, felice e vincente». La Gazzella
morirà cinquantenne, alcolizzata; ma intanto Giulia decide che è venuto
il momento di cambiare strada.
TRANNE POCHE ECCEZIONI, sino a poco tempo fa le foto
della prima Giulia, per una storia complicata di gelosie e smarrimenti,
si credevano perdute per sempre. E invece la giovane Silvia
Mazzucchelli, testarda, non ha smesso di cercarle e infine le ha
ritrovate; le ha portate a casa di Giulia, e sedute a un tavolo insieme
le hanno ripercorse (mi dice Marco Belpoliti che ne era già prevista
un’edizione). In un ricordo apparso ieri su «doppiozero» Mazzucchelli ne
riporta tre o quattro, di miracolosa freschezza (vi si vedono fra gli
altri un Fellini distratto, a Via Veneto, e un Kubrick inquieto mentre
lavora alla sceneggiatura di Lolita).
Posso solo immaginare cosa abbia potuto provare, nel rivedere quelle
immagini, chi le aveva scattate sessant’anni fa. Le due sponde
misteriosamente riavvicinate, gli spaghi della vita all’improvviso
riallacciati, il continuum ricomposto. Così era forse inevitabile che il
circolo si chiudesse, e il viaggio avesse termine. Ma proprio perché
sono state più di una, davvero non è stata una brutta vita la tua,
Giulia.
https://ilmanifesto.it/giulia-niccolai-riallacciare-i-fili-sottili-di-cui-e-fatta-la-poesia/