mercoledì 15 ottobre 2025

Renata Moscatelli La via Poma prima di Simonetta Cesaroni [Video]

 


Renata Moscatelli è una donna di 68 anni. È nata a Roma, il 14 ottobre 1916. Quando viene uccisa ha da poco compiuto gli anni. Renata ha un comportamento
militaresco. E‛ rigida, integerrima, abitudinaria, schiva e priva di ogni frivolezza.

Il suo patrimonio è sostanzioso ma, come una donna d‛altri tempi, non sperpera e non spende se non per il necessario ed anche in questo è parsimoniosa. La signorina Moscatelli ha una fronte larga, due occhiali che sembrano ereditati da sua nonna, data la montatura da anziana, nessuna femminilità ostentata. Niente orecchini vistosi, collane, rossetto. Un taglio di capelli fatto con l‛unico scopo di essere in ordine. Potrebbe sembrare molto più anziana di quello che è.

Renata Moscatelli non è mai stata sposata e non ha figli. Frequenta solo pochissime e selezionate amiche, molto raramente. Esce per andare in chiesa e ad
incontri con la comunità parrocchiale, una breve passeggiata, poi rincasa. Non ha rapporti, né amicali né di altro genere, con gli altri condomini.

Nella sua casa non è mai entrato nessuno di loro. Di tanto in tanto va il portiere a consegnare la posta.

All‛epoca ancora non si trattava del famoso Pietrino Vanacore che giungerà in via Poma nel 1986, due anni dopo. Renata, infatti, cari lettori, vive nel notissimo comprensorio di via Poma, lo stesso nel quale, nell‛agosto del 1990, verrà massacrata la povera Simonetta Cesaroni e nel quale ancora si indaga e si chiacchiera.

L‛abitazione della Moscatelli è al civico numero 4, palazzina E, al primo piano, o meglio, piano rialzato, non certo il super attico nel quale alloggia l‛ingegnere Cesare Valle, progettista del comprensorio e di molto altro. Qui, fino a due anni prima, Renata viveva con suo padre, fino a quando lui si era spento, all‛età di 98 anni.

Il generale a riposo Giuseppe Moscatelli è un personaggio assai interessante. Quando muore, nel 1982, lascia alle figlie un patrimonio di mezzo miliardo di lire, più due appartamenti uno dei quali, quello nel quale abita, va in eredità alla sola Renata, come ringraziamento per aver dedicato a lui tutta la sua vita.
Era nato a Bari, il 2 luglio del 1884, ed era entrato presto nell‛arma dei carabinieri.

Incuriosita circa la sua figura, ho svolto ricerche sul su conto, negli archivi storici disponibili. Man mano che cercavo e scoprivo notizie ed incartamenti,
la mia curiosità cresceva e con essa il mio desiderio di approfondire. Alcuni documenti da me trovati li ho condivisi col giornalista d‛inchiesta Max Parisi, anche lui, come me, molto incuriosito da questa figura controversa di uomo. Se insisterete nel leggere capirete il motivo della nostra attenzione per il papà della povera Renata.

Giuseppe Moscatelli è stato un eroe della Prima Guerra Mondiale. Aveva ricevuto medaglie e riconoscimenti anche per la sua partecipazione alla Guerra di
Libia, ad imprese nelle quali si era distinto per eroismo e comportamento impavido. Negli anni trenta aveva acquistato l‛appartamento nello stabile di via Poma n 4, pagandolo poco alla volta, con l‛avanzamento dei lavori. Come molti sanno si tratta di un comprensorio residenziale progettato dal sunnominato architetto ed ingegnere Cesare Valle, famoso e rinomato, premiato e noto anche internazionalmente.

Tale struttura era destinata, in origine, a residenza di ufficiali, soprattutto dell‛aeronautica, ma anche dell‛esercito e dell‛arma dei carabinieri e di diplomatici di livello elevato del periodo del fascismo.

Ad un certo punto la vita dell‛allora colonnello Moscatelli cambia repentinamente. In data 17 agosto 1935, viene collocato ‘‛fuori organico‛‛, col grado
di tenente colonnello. Poi, con lo stesso grado, ha presentato domanda di essere posto nella riserva, in data 2 luglio 1940, nel giorno del suo compleanno. Qui ci sono da fare alcune considerazioni.

Innanzitutto, il 10 giugno 1940, l‛Italia è entrata in guerra. Possibile che un eroe come il colonnello Moscatelli decida di andare praticamente in pensione pochi giorni dopo? La coincidenza con la data del suo compleanno potrebbe essere una cosa amministrativa, di prassi. E‛ vero che ha compiuto 56 anni ma ci sarebbe tanto da fare, per lui, anche lontano dai campi di battaglia. Comunque, in quel periodo, a casa lui non c‛è.

Lo ritroviamo, dal 5 febbraio del 1942 fino al settembre del 1943, come comandante del campo di prigionia di Forte di Gavi, Campo per Prigionieri di Guerra n5, vicino ad Alessandria. Ma dove è stato nel frattempo? E dove era stato quando era stato messo ‘‛fuori organico ‘‛, nel
1935? Quale incarico aveva ricoperto? Presso quale ente? Era stato arruolato nei servizi segreti, nella polizia segreta del regime? Ricordiamo che Giuseppe Moscatelli era un fervente fascista.

Un giorno, al campo di prigionia di Forte di Gavi, dodici prigionieri tentano la fuga. L‛impresa è raccontata anche nel libro “Un uomo in fuga” di David H.Guss. Il comandante scrive al Ministero della Guerra che sono fuggiti 12 uomini. Tale comandante, dal 5 febbraio del 1942, è il
colonnello Giuseppe Moscatelli, dei regi carabinieri.

Da tale campo, sempre nel 1942, è emersa la protesta, più volte, da parte di prigionieri, a causa delle estreme  condizioni con le quali venivano trattati. Sono tutti ufficiali, per la maggior parte britannici. Ma cosa era accaduto, in occasione di quella “grande fuga”?

Il Campo Prigionieri di Guerra di Forte di Gavi è stato aperto nel giugno del 1941. Nel marzo 1943 viene descritto come un campo per ufficiali che contava 200 posti, In esso venivano rinchiusi prigionieri ritenuti “turbolenti”, cioè quelli che avevano una particolare propensione alla fuga. Questo forte sembrava
l‛ideale per questi reclusi a causa della sua architettura e della posizione impervia. Il colonnello Giuseppe Moscatelli era una persona inflessibile nella disciplina e nelle dure punizioni. Sembrava non riposare mai.

Percorreva la piazza d‛armi ed i corridoi col suo mantello nero svolazzante. I prigionieri lo chiamavano ‘‛bat‛‛, cioè ‘‛pipistrello‛‛. Sotto il suo comando il campo di Forte di Gavi venne soprannominato ‘‛Hell camp‛‛, cioè ‘‛campo inferno‛‛. Fra il Febbraio e l‛aprile 1943 12 uomini tentano la fuga, in pieno stile Alcatraz (il film). Solo due di loro non vengono ripresi. Quelli che vengono ricondotti al campo vengono severamente puniti, alcuni colpiti dal colonnello Moscatelli in persona.

Quando l‛8 settembre 1943 viene firmato l‛armistizio, il giorno dopo, il 9 settembre, il campo di Gavi viene occupato da un plotone di SS. Il colonnello
Moscatelli rimane al comando del campo, come sottoposto del comando nazista, ed ha l‛incarico di gestire il trasferimento dei prigionieri alleati al campo di
concentramento di Coldiz, in Germania.

Per questi motivi da me brevemente elencati (e da tanti altri documenti da me ritrovati) appare chiaro il motivo per il quale le Nazioni Unite, terminata la guerra, dichiararono il colonnello dei carabinieri Giuseppe Moscatelli ‘‛criminale di guerra‛‛ e, per incarico del governo britannico, ne hanno chiesto la consegna al fine di porlo sotto processo.

Lo stato italiano non ha mai consegnato nessuno dei suoi cittadini accusati di essere stati criminali di guerra. Non fa eccezione per Giuseppe Moscatelli. Questi va in pensione col grado di generale, come spesso accade. Il generale e la famiglia hanno tenuto nascosto questo passato del quale non andare certo fieri, anzi hanno contribuito al nascere della legenda che vede l‛uomo essere stato vice comandante dell‛arma dei carabinieri. Cosa non vera. Negli archivi dell‛arma dei carabinieri lui non  compare come vicecomandante ed il nome di Giuseppe Moscatelli, relativamente a quello che è accaduto dopo il luglio 1940 o non c‛è mai stato oppure è stato cancellato.

Renata Moscatelli ha una sorella, Adriana, nata nel 1921. A 18 anni la più giovane delle Moscatelli sposa un esponente dell‛antica aristocrazia romana, Pio Theodoli Braschi (1912-1999), quinto duca di Nemi, esponente del mondo del petrolio. Adriana Ha un figlio, Giovanni Angelo, nato nel 1942, che ha avuto una brillante carriera diventando direttore della filiale di Madrid della Coty Bank of New York.

Fra Renata ed Adriana non corre buon sangue ed il motivo del contendere è l‛appartamento ereditato in modo esclusivo dalla maggiore delle due, ed anche il resto dell‛eredità. In modo dispregiativo Renata appellava Adriana col titolo de ‘‛la marchesa‛‛. Praticamente le due sorelle si parlavano solo tramite avvocato. Non è chiaro quali fossero le pretese di Adriana. Potrebbe essere che Renata avesse minacciato di lasciare tutto alla chiesa o che avesse già
fatto testamento in proposito, ad esempio.

Questo avrebbe potuto scatenare l‛ira di Adriana che la combatteva a colpi di lettere legali. Fatto è che, al momento del delitto, Adriana era una ex moglie, divorziata dal duca, che forse voleva continuare a condurre un tenore di vita che non poteva più permettersi e le minacce di Renata erano come una eterna provocazione.

Altro fatto è che l‛appartamento di via Poma verrà venduto appena la magistratura darà il via libera. Il portiere, Giulio, racconta che, due giorni prima della morte di Renata, ha notato le due sorelle litigare furiosamente, per le scale, e la maggiore rivolgere alla
minore epiteti quali ‘‛Sei una delinquente, una farabutta, una disgraziata‛‛.

Quella sera del 21 ottobre 1984, domenica, Renata esce di casa per andare in chiesa, al Regina Apostolorum. Segue la messa ed, alle 20 circa, torna a casa. Ad un certo punto qualcuno bussa alla porta. Lei apre e fa entrare l‛inatteso ospite. Lo conduce fino al salotto e lo fa accomodare. Lui si siede sul divano, lei sulla poltrona. Gli offre un whisky. Non sappiamo di quale marca. Sicuramente lo conosce perché non avrebbe mai avuto questo comportamento accogliente, a quell‛ora, con uno sconosciuto.

Per qualche minuto conversano, poi Renata si alza, va in camera da letto e fa una telefonata. Chiama padre Marcello Bolzonello, della Compagnia di San Paolo, che segue una casa di accoglienza. Renata gli spiega di avere in casa una persona che ha un problema da sottoporgli. Dice la donna che un suo conoscente ha perso le chiavi di casa e non riesce ad entrare nel suo appartamento. Essendo domenica non riesce a contattare un fabbro che lo possa aiutare e che possa aprirgli la porta. Così è costretto a chiedere ospitalità per quella notte. Il sacerdote le dice che non ci sono problemi, che ha una stanza libera e le chiede a che nome deve riservarla. Lei risponde ‘‛Mardocci‛‛.

Don Marcello segna il cognome sul registro, anche se non è sicuro di aver udito bene e che sia quello esatto. Potrebbe aver capito male.

Sono passate le 21,00, oramai. Renata torna verso il salotto. A questo punto l‛uomo, che si è spostato nell‛ingresso, con in mano la bottiglia di Whisky, la usa per colpire con violenza la donna sulla fronte. Renata cade in terra, priva di sensi. Gli occhiali le sfuggono dal naso e cadono non lontani dal suo corpo. L‛assassino va, allora, in camera da letto, prende un cuscino e, tornato indietro, lo preme con tutto il suo peso contro il volto di Renata e la soffoca. L‛osso ioide della donna si frantuma.

Di seguito, non contento, la colpisce con una serie di calci sul fianco sinistro e le frantuma diverse costole. E‛ vero anche che, questa frattura, può essere stata causata anche dal peso dell‛uomo inginocchiato sul torace di Renata, nell‛atto di premerle il cuscino sul volto. A questo punto prende la donna per i piedi e la trascina in camera da letto. Qui fa la cosa più fredda e meditata di tutta l‛azione omicidiaria.

Prende la cornetta e chiama don Marcello. Gli dice che la persona non ha più bisogno di essere ospitata perché, fortunatamente, ha ritrovato le chiavi di casa. Si è concesso, con questa telefonata, il tempo per fare quello che, con calma, deve fare. L‛uomo, con un lavoro sistematico, a questo punto, prende uno ad uno tutti i portaritratti presenti in casa e, con calma, smonta tutti, estrae le foto e guarda cosa c‛è dietro.

Cosa cerca? Molto probabilmente conosce le abitudini di quella casa, della famiglia, e sa che il generale nascondeva documenti importanti dietro ai ritratti di famiglia, che sua figlia aveva la stessa abitudine.

Se non fosse tato così avrebbe cercato in altri posti. Lui è andato a colpo sicuro e cercava qualcosa di sottile. Mi spingo, nelle mie considerazioni, anche a dire che, molto probabilmente, ha un legame affettivo con quella casa, con le persone ritratte. Altrimenti avrebbe sfasciato i portaritratti e le foto che vi erano incorniciate. Non le avrebbe maneggiate con cura e rispetto. Cercava un testamento? Un lascito? Un certificato?

Uno scritto del generale? Nei primi due casi fatti da chi? Dal generale o da Renata? Ha trovato quel che cercava? Io ritengo di si perché non ha insistito nella ricerca, non si è spostato ad altri eventuali nascondigli. Dopo una quarantina di minuti, tempo stimato dai periti della questura, è
andato via portando con sé le chiavi dell‛appartamento in uso a Renata e chiudendo la porta con quattro mandate.

Ma, l‛assassino, era il signor Mardocci del quale don Marcello aveva atteso la visita? Non credo. Renata non avrebbe fatto entrare uno sconosciuto e costui, il cui cognome non risultava esistente fra i residenti romani, perché avrebbe dovuto rivolgersi a lei? L‛assassino è qualcuno che Renata conosce bene e che è da lui conosciuta bene. Sapeva dei suoi legami con la chiesa? Ha usato il problema del signor Mardocci per entrare in casa senza destare sospetto o suscitare scontri verbali?

Probabilmente questo Mardocci non esiste nemmeno. Inoltre Renata, negli ultimi tempi, era diventata più timorosa e prudente. Non avrebbe mai fatto entrare un estraneo, a quell‛ora di sera. Nei giorni precedenti, vivendo da sola ed essendo il suo appartamento al primo piano, come facevano molte persone all‛epoca, aveva fatto montare delle grate alle finestre e cambiare la porta originale con una a cassaforte. Il fabbro le aveva consegnato tre chiavi e lei non ne aveva date nessuna, a nessun altro, tantomeno alla sorella.

Il giorno dopo, il lunedì, la signora Rosa Scatolini, una delle sue poche amiche, avendo invitato Renata a pranzo, attende che lei arrivi. Attende ma lei non si vede. Attende ancora, chiama, ma Renata non risponde. Allora telefona ad Adriana. Questa sembra allarmata e preoccupata. Dice che chiamerà il fabbro per far aprire la porta ma, stranamente, passa quel giorno e non fa nulla. Non si muove. Solo il 23 ottobre Adriana si decide ad andare in via Poma, davanti alla porta della sorella.

Giulio, il portiere, che è con lei, la sente dire ‘‛Vuoi vedere che me l‛hanno trucidata?‛‛. Strana espressione. Comunque, è tanto spaventata che anche per quel giorno non fa nulla. Il giorno successivo, il mercoledì 24 ottobre, torna, finalmente, col fabbro e questi, in pochi minuti, apre la porta.
La luce è spenta. Adriana, con i suoi accompagnatori, accende e si inoltra nell‛appartamento. Tracce di sangue sono dappertutto. Sul pavimento dell‛ingresso vi sono il cuscino ed i frammenti della bottiglia di Whisky frantumata.

Una scia di sangue da trascinamento conduce fino alla camera da letto. La segue e trova il corpo della sorella. Sul telefono vi sono tracce di sangue. Adriana telefona al figlio, in Spagna, dicendogli di correre immediatamente perché è successa ‘‛una tragedia‛‛ e poi chiama la polizia. Alle 13,30 arriva Nicola Cavaliere, il capo della Squadra Mobile, lo stesso che, sei anni più tardi, ritornerà in via Poma per indagare sul delitto di Simonetta Cesaroni.
Dalla scena del crimine si deduce immediatamente che non si tratta di una rapina finita male. Anche l‛aggressione a sfondo sessuale può essere scartata. Il
corpo di Renata è stato manipolato solo per essere trascinato dall‛ingresso alla camera da letto. Le indagini vertono subito sulla pista economica e familiare. Adriana ha avutouno strano comportamento. Sembra che, invece di attivarsi per scoprire cosa sia successo a sua sorella, si sia adoperata per ritardarne il ritrovamento.

Perché?

Ovviamente Adriana viene attenzionata ma è scartata quasi subito. Cavaliere è convinto che l‛assassino sia un uomo. Ma chi può essere quest‛uomo? Facciamo alcune ipotesi. Cavaliere non ha mai preso in esame una pista che provenisse dal passato di Giuseppe Moscatelli ed un‛ipotetica aggressione a Renata causata dalla qualifica dell‛ONU di suo padre come ‘‛criminale di guerra‛‛.

Molte persone che si sono occupate, dal punto di vista giornalistico, del caso hanno fatto questa ipotesi. Consideriamola. E‛ chiaro che, nel 1984, chiunque sia stato prigioniero nel campo di Forte di Gavi, se sopravvissuto, sia troppo anziano per compiere un‛azione del genere. Allora possiamo considerare un figlio, che in quella data potrebbe avere circa quarant‛anni, o ad un nipote.

Se l‛aggressore di Renata è una persona con queste caratteristiche ha sicuramente un accento straniero, anche se conoscesse molto bene la lingua italiana. Renata lo avrebbe notato e, molto probabilmente, avrebbe riferito a don Marcello che si trattava di una persona non italiana o, comunque, si sarebbe chiesta come mai questo straniero si chiamava Mardocci, oppure fosse conoscente di una persona con tale cognome fosse venuto a bussare proprio alla sua
porta. A mio avviso questa pista non ha molta probabilità di essere realistica. Potrebbe essere una persona che si è spacciata per figlio di un commilitone
del padre, l‛uomo che si è introdotto in casa di Renata, quella sera?

Può essere stato effettivamente un figlio od un nipote di un collega di Giuseppe Moscatelli?

In questo caso, probabilmente, Renata lo avrebbe fatto accomodare. Ma come spiegare quella richiesta fatta a padre Marcello? Possibile, ma non probabile, al mio avviso, questa ipotesi.

Non trascuriamo la pista economica e familiare. Adriana, almeno teoricamente, aveva tutti gli interessi a togliere la sorella di mezzo e, come abbiamo visto, aveva avuto un comportamento ostruttivo. Ma è una donna di sessantuno anni. Non avrebbe avuto la forza di compiere quel delitto e Renata non le avrebbe mai offerto un whisky, un caffè piuttosto, un the. Inoltre la voce che ha richiamato don Marcello era sicuramente maschile.

L‛assassino potrebbe anche essere stato mandato a compiere l‛omicidio ma, comunque, avrebbe dovuto essere molto conosciuto da Renata perché, altrimenti, lei non lo avrebbe fatto entrare. Potrebbe essere stato accompagnato da una donna, come ‘‛cavallo di Troia‛‛.

Vale comunque lo stesso ragionamento. Quella donna avrebbe dovuto essere molto conosciuta dalla vittima. Poi non c‛erano tracce della presenza di un‛altra donna sulla scena del crimine. ‘‛Mardocci‛‛ potrebbe essere una persona che ha conquistato la fiducia di Renata oppure già molto conosciuta dalla donna. Di sicuro conosce molto bene il mondo della vittima, il suo legame con la chiesa, le abitudini della sua casa.

Ci chiediamo anche come ha trovato il numero di don Marcello. Non esistono ancora, nell‛84, i telefoni che ricompongono l‛ultimo numero fatto. Quindi ha dovuto riformularlo. Ha consultato la rubrica di Renata oppure già lo conosceva? Allora l‛assassino fa parte del mondo cattolico che frequentava la ‘‛signorina Moscatelli‛‛?

Possiamo anche formulare una ipotesi differente. L‛assassino può essere una persona molto nota a Renata che ha trovato la scusa del problema di Mardocci, che lui conoscerebbe ma la donna no, per poi introdurre un a nuova discussione, che è il suo scopo reale, quello che gli sta a cuore, ma che, se introdotto subito, avrebbe causato una indisposizione stizzita in Renata. Allora produce prima un clima rilassato per introdurre, in seguito, l‛argomento che gli interessa.

Ad esempio, potrebbe essere un prestito, oppure una raccomandazione presso terzi. Oppure potrebbe essere un amico comune, un conoscente di vecchia data, che vuole mettere pace fra Renata ed Adriana. Una sua iniziativa? Ha un interesse in materia? Oppure un argomento dicevo che, comunque, una volta introdotto, ha provocato l‛ira accesa di Renata, l‛ira conseguente dell‛uomo che, ad un certo punto, l‛ha colpita con quello che aveva a portata di mano.

Poi, per non essere denunciato, o per sortire con calma un risultato che si era posto di raggiungere, ha soffocato la donna e fatto quello che abbiamo già raccontato. In altre parole, l‛uomo può essere andato in casa di Renata non per ucciderla ma per convincerla a fare qualcosa che a lui stava molto a cuore.
Infatti, non è armato. La donna è stata uccisa con oggetti che non sono armi, anche se sono stati adoperati a quello scopo e che sono stati prelevati in casa della vittima.

Bisogna precisare che tutto quello che si sa circa ‘‛Mardocci‛‛ lo dobbiamo all‛ottimo giornalista Giuseppe Pizzo ed alla trasmissione ‘‛Chi l‛ha visto‛‛ che, nel 2011, si è interessato al caso di Renata Moscatelli ed ha rintracciato padre Marcello Bolzonello che, da persona precisa quale è, a distanza di trent‛anni, ancora conserva i registri dell‛opera pia che gestiva. Il sacerdote ricorda bene di aver riconosciuto la voce di Renata, della quale si considerava amico, e che l‛uomo che gli aveva ritelefonato non si era qualificato come ‘‛Mardocci‛‛. Aveva solo detto che questi non aveva più bisogno di aiuto.

Il caso dell‛omicidio di Renata Moscatelli è stato archiviato e l‛assassino, se è ancora vivo, per il momento è al sicuro. Quando verrà assassinata, sei anni dopo, una povera ragazza dal nome Simonetta Cesaroni, in un ufficio ad un passo da dove era stato ritrovato il corpo della povera Renata, di lei non si ricorderà più nessuno, forse solo il capo della Squadra Mobile Cavaliere, che dovrà indagare anche su questo nuovo delitto.

È sempre possibile, però, che qualcuno si cimenti con questo vecchio caso dimenticato e che riesca a trovare il capo del filo che è il bandolo della matassa e
dare finalmente giustizia alla povera ‘‛signorina Moscatelli.

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