Lo accusarono di aver persino violentato la sorella. Poi un’altra violenza sessuale e di aver sparato in testa a un miliziano, per poi schernirne il cadavere. Dovevano trovare ogni possibile motivo per processare e fucilare un prete.
“Don Boia” lo chiamò lo stampa, su indicazione dei nazifascisti. Don Giuseppe Borea non aveva fatto niente di tutto questo. Era un “ragazzo” molto emotivo, caduto per altro da tempo in una depressione profonda. Per quanto fosse partigiano, ascoltava e dava conforto a tutti i condannati a morte, anche i fascisti. Chiudeva gli occhi a tutti, pregava per tutti. E quando i corpi erano straziati, li ricomponeva lui stesso.
Ma al regime Don Borea non era mai piaciuto, già prima dell’8 settembre. Perché mentre il fascismo organizzava eventi pubblici, lui con la sua parrocchia faceva altrettanto. Per questo era considerato un sovversivo e nel 1945 venne arrestato.
Il processo fu una farsa. Così grande che quando il suo avvocato difensore assegnato d’ufficio, un maggiore della milizia che doveva esser compiacente con l’accusa, si rese conto che avevano già deciso di ammazzarlo, si lanciò in una in una strenua difesa di Don Borea. Il sussulto di dignità gli costò l’espulsione dal partito e l’isolamento.
Lo fucilarono il 9 febbraio del 1945.
Rifiutò la benda sugli occhi, la sedia. Perdonò i suoi carnefici e prima di morire disse: “Offro la mia vita per la pace e la grandezza della Patria. Viva Gesù, Viva Maria, Viva l'Italia".
Per evitare che potessero martirizzarlo, buttarono il cadavere in una fossa comune.
Il ricordo oggi va a un patriota, un martire, uno degli italiani grazie ai quali l’Italia è stata liberata e a cui va l’eterno grazie di tutti noi.
Leonardo Cecchi
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